L’infanticidio è probabilmente il crimine che suscita l’orrore maggiore, il più crudele e vigliacco perché perpetrato su un essere umano privo di difesa.
Eppure, in un tempo non poi così lontanissimo, l’infanticidio non era considerato un reato, anzi. Era una pratica ritenuta normale, per svariate ragioni: poteva essere lo strumento per attuare una sorta di selezione naturale, quando venivano uccisi bambini nati con qualche malformazione; poteva essere il modo per impedire che una profezia si avverasse; oppure ancora un sistema per non disperdere il patrimonio della famiglia, o per non dovere spendere troppi soldi per la dote delle figlie femmine.
Oppure, i bambini potevano essere sacrificati agli dei:
Agghiacciante la pratica, diffusa in tutto il Vicino Oriente, di offrire i propri figli in olocausto a una divinità chiamata Moloch, e poi Baal dai Fenici
Secondo quanto narrato dai Romani, i Cartaginesi sacrificavano regolarmente i bambini, bruciandoli vivi, dopo averli posti nelle fredde braccia metalliche del dio. Un assordante rullo di tamburi avrebbe coperto le urla strazianti dei piccoli. Non tutti gli archeologi credono a questo racconto, considerandolo una forma di denigrazione nei confronti dei loro storici nemici. L’opinione è controversa, anche per il ritrovamento, nei santuari chiamati tofet, di moltissime ossa infantili bruciate.
Ma la storia dell’infanticidio affonda le sue radici in tempi ancora più lontani, quando i racconti mitologici, che consideriamo solitamente una pura invenzione, erano forse lo specchio della realtà.
Inizia il dio Crono, padre di tutti gli dei dell’antica Grecia, che divora uno dopo l’altro i suoi figli per non fare avverare una profezia, secondo la quale sarebbe stato detronizzato proprio da uno di loro. Ma il destino non si può contrastare: Rea, la madre di tutti i bambini divorati, decide di partorire di nascosto l’ultimo dei suoi figli, e consegna a Crono una pietra al posto del piccolo Zeus, che poi spodesterà il padre e lo costringerà a “vomitare” tutti gli altri figli.
Poi c’è Edipo: il padre lo fa portare da un servo su un monte, per eludere la profezia che gli aveva annunciato la morte per mano del suo stesso figlio. Il piccolo però viene salvato da un pastore e, divenuto uomo, finisce per uccidere Laio, senza sapere che quello sconosciuto era suo padre (poi, inconsapevole, sposa la madre Giocasta… ma questa è un’altra storia).
Anche l’eroe Perseo, insieme alla madre Danae, sfugge alla morte voluta dal nonno Acrisio. Un oracolo aveva predetto la sua morte per mano del nipote, che puntualmente arriverà, anche se non voluta da Perseo, ma dovuta a una circostanza casuale. Come dire che nessuno può sottrarsi alla volontà degli dei.
E per restare nella leggenda, si può correre avanti fino a Romolo e Remo, i fratelli abbandonati nel fiume Tevere e salvati da un pastore, che poi fonderanno la città eterna, Roma.
Tutto questo è mitologia e non storia, e dunque i bambini divorati o esposti alla morte riuscivano spesso a salvarsi. Non altrettanta fortuna avevano i figli, quelli in carne e ossa, che gli antichi greci e romani potevano uccidere o abbandonare senza per questo commettere un reato. Le leggi lo consentivano, e pare che nessuno le trovasse sbagliate. Ogni bimbo nato nella città di Sparta veniva esaminato dagli anziani, che decidevano (in questo caso al posto della famiglia) se valeva la pena allevarlo. “Se invece era malato e deforme” scrive Plutarco nelle Vite Parallele, “lo inviavano ai cosiddetti ‘depositi’, una voragine alle pendici del Taigeto”.
E’ un falso storico il mito dei bambini spartani che piangevano e venivano gettati dalla montagna
Ma nemmeno nella civilissima Atene la pensavano diversamente: i grandi filosofi Platone e Aristotele approvavano sia l’infanticidio sia l’abbandono. E se per i Greci erano pratiche normali, i Romani certo non pensarono di cambiare le cose: il padre, il paterfamilias, aveva potere di vita e di morte, non solo sui figli ma anche sulla moglie.
Romolo tuttavia mise dei limiti: ogni padre poteva vendere come schiavi non più di tre figli, e non poteva ucciderli prima che avessero compiuto i tre anni. Il filosofo Seneca invece, riteneva ammissibile l’infanticidio solo in caso di malattia del bambino, considerandolo un atto caritatevole nei confronti della “progenie snaturata”.
I bambini esposti venivano abbandonati in luoghi dove, se non straziati prima dagli animali, potevano essere raccolti da qualcuno (come sotto la Colonna Lattaria, al Foro Olitorio, il mercato dei legumi). Ma quasi mai per motivi caritatevoli: i piccoli finivano spesso nelle mani di gente che li allevava per venderli come schiavi, per farne gladiatori o prostitute, o che li mutilava per mandarli poi a elemosinare. Se possibile, una sorte peggiore la subivano quei bimbi che venivano usati per qualche rito magico.
Non se la passavano meglio i bambini nati in Asia: in Cina le figlie femmine erano considerate (e lo sono ancora nelle regioni rurali) una disgrazia per la famiglia, mentre in India venivano uccise alla nascita le bambine alle quali non si poteva assicurare una dote. Un’usanza che, ancora fino a pochi anni fa, in alcune aree molto povere, causava la morte di circa il 50% delle neonate.
Come dire che la lotta contro l’infanticidio, in particolare quello femminile, può essere vinta solo sconfiggendo miseria e ignoranza.