L’8 marzo di ogni anno si celebra la Giornata Internazionale dei diritti della donna. In tempi di pandemia non saranno possibili uscite di gruppo per sole donne e cene al ristorante con annesso spettacolo di spogliarello maschile, eventi sociali che se certo hanno incrementato (in tempi pre-Covid) gli affari di alcuni settori commerciali, in realtà nulla hanno a che vedere con il reale significato dell’8 marzo. Vale la pena allora ricordare come e perché nasce la Giornata Internazionale della Donna.
La mimosa, simbolo italiano della Giornata internazionale della donna
Per la prima volta, una Giornata della donna si tiene negli Stati Uniti, il 23 febbraio 1909, quando molte donne di New York scendono in piazza per chiedere a gran voce il diritto di voto. L’anno successivo, il 27 febbraio, sempre a New York, si tiene una manifestazione analoga.
Sciopero delle camiciaie di New York
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Anche in Europa, per iniziativa di molte rappresentanti dell’Internazionale Socialista, si dà vita alla Giornata della donna, ma in date diverse a seconda dei vari Paesi. Non è ancora una ricorrenza fissa, si saltano alcuni anni, mentre in diverse occasioni avvengono scontri ed arresti, come l’8 marzo 1914, a Londra, dove viene fermata Sylvia Pankhurst, esponente di spicco delle suffragette inglesi. Oppure come a San Pietroburgo, nel 1913, dove una manifestazione viene dispersa dalla polizia zarista, che peraltro arresta molte persone. L’anno dopo, lo Zar preferisce prevenire, e fa arrestare gli organizzatori ancor prima che possano preparare l’evento.
L’8 marzo del 1917 (il 23 febbraio nel calendario giuliano) però la situazione è ben diversa. Migliaia di donne manifestano per le strade di Pietrogrado, chiedendo che si metta fine alla guerra. In quell’occasione i cosacchi, chiamati apposta per reprimere la manifestazione, non fanno il loro dovere, almeno non quanto avrebbero dovuto, secondo il volere dello Zar. Così nei giorni successivi si susseguono le proteste che porteranno all’abdicazione di Nicola II e alla fine dell’impero zarista.
E’ proprio in ricordo di quell’8 marzo del 1917 che, nel 1921, durante la Seconda conferenza internazionale delle donne comuniste, quella data sarà scelta per la ricorrenza della Giornata internazionale della donna operaia (l’iniziale connotazione politica della ricorrenza è estremamente forte). Ma quasi nessuno lo sa, perché dopo ci sono stati gli anni bui della seconda guerra mondiale, dopo ancora la Guerra Fredda e l’anticomunismo degli Stati Uniti e dei paesi occidentali:
La Giornata internazionale della donna non poteva essere “una diabolica invenzione sovietica”
Manifesto tedesco per la Giornata della Donna nel 1914
Allora si cercano alternative: l’8 marzo nasce da uno sciopero di operaie tessili del 1857 a New York, anzi no, nasce per ricordare un incendio in una fantomatica fabbrica di camicie, Cotton o Cottons, nel 1908, sempre a New York. Anzi no, nasce da qualche sciopero tenuto a Chicago o a Boston o a New York. La versione più accreditata, ancora oggi, è quella dell’incendio a una fabbrica di camicie, nel 1908, che non è mai avvenuto.
Un tragico incendio, che costò la vita a molte uomini e donne, però ci fu veramente, a New York, e anche se non è collegato con la ricorrenza dell’8 marzo, merita di essere ricordato.
L’incendio alla Triangle Shirtwaist Factory
25 marzo 1911: non è un tiepido pomeriggio primaverile, anzi. La giornata è uggiosa e Louis Waldman si rilassa leggendo un libro nella Biblioteca Astor. All’improvviso, da fuori arriva un gran trambusto e l’uomo, che vede passare le carrozze dei pompieri, si precipita fuori insieme a molte altre persone, per vedere cosa sta succedendo.
Una carrozza dei pompieri in rotta verso la fabbrica in fiamme
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Seguendo la folla arriva a davanti all’Asch Building, un fabbricato di dieci piani all’angolo tra Green Street e Washington Place, nel Greenwich Village, a Manhattan. Quando Waldman arriva sul posto, fermato da un cordone di poliziotti, si trova di fronte a una scena apocalittica. Gli ultimi tre piani dell’edificio sono in fiamme, “una massa di fuoco in movimento” (secondo la definizione di un capitano dei vigili del fuoco) che si è sviluppata in appena 15 minuti.
L’incendio alla Triangle Shirtwaist Factory
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Anni dopo, Waldman descriverà così la scena orribile alla quale aveva assistito:
“Inorridita e impotente, la folla – io tra loro – guardò l’edificio in fiamme, vide ragazza dopo ragazza apparire alle finestre arrossate, fermarsi per un momento terrorizzate, e poi balzare sul marciapiede sottostante, per atterrare come poltiglia sanguinante. Questo è andato avanti per quella che sembrava un’eternità spaventosa. Di tanto in tanto una ragazza che aveva esitato troppo a lungo veniva leccata dalle fiamme inseguitrici e, urlando con abiti e capelli in fiamme, si precipitava in strada come una torcia vivente. Le reti di salvataggio tenute dai vigili del fuoco sono state strappate dall’impatto dei corpi in caduta”.
Gli ultimi tre piani dell’Asch Building sono occupati da una fabbrica di camicie, la Triangle Shirtwaist Company, di proprietà di Max Blanck e Isaac Harris. I due soci sono noti per essere ostinatamente contrari a qualsiasi forma di sindacalizzazione delle operaie (la stragrande maggioranza del personale è femminile), così come a ogni minimo impianto di sicurezza.
Nella fabbrica lavorano all’incirca 500/600 persone, prevalentemente giovani e giovanissime donne immigrate, quasi tutte italiane ed ebree, che nemmeno parlano inglese. Le operaie lavorano dalle 9 alle 12 ore al giorno, tutti i giorni, esclusa la domenica, per un salario settimanale di 15 dollari.
Nel 1909 c’era stato un grande sciopero, organizzato dall’International Ladies Garment Workers Union, per rivendicare un salario migliore e un minor numero di ore di lavoro giornaliero.
La Triangle Shirtwaist Company si era distinta tra molte altre aziende del settore, per aver rigettato in toto le richieste delle operaie, con la complicità sia delle forze dell’ordine (che aveva arrestato molte manifestanti), sia degli amministratori pubblici, che preferivano far finta di non sapere quali fossero le reali condizioni di lavoro nell’industria tessile.
Blanck e Harris sono peraltro noti per essere fortemente sospettati di aver dato fuoco, due volte, alle loro fabbriche (nel 1902), per riscuotere il risarcimento dell’assicurazione antincendio. All’epoca, questa era una pratica non troppo rara, usata per ripianare i conti quando c’era in magazzino troppa merce fuori mercato. L’incendio che scoppia il 25 marzo 1911 non è sicuramente di origine dolosa, ma la responsabilità dei due soci è più che evidente se si considera il loro rifiuto di installare dei sistemi antincendio (di quelli detti a pioggia) – in un contesto di estrema pericolosità per l’enorme quantità di carta e stoffa altamente infiammabile – proprio per riservarsi la possibilità di provocare un nuovo, comodo, rogo doloso.
Alle 16.40 di quel maledetto sabato, all’8° piano dell’edificio, le fiamme di sviluppano da un cassone di legno usato per contenere i ritagli di stoffa da eliminare, cassone che non veniva svuotato da circa due mesi. Forse è un mozzicone di sigaretta, o un fiammifero mal spento, a dare inizio a quella tragedia. Nella fabbrica vige, è vero, il divieto di fumare, ma molti operai maschi non lo rispettano.
Il lato sud dell’edificio, dalle finestre contrassegnate con una X sono saltate 50 donne
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Chi si trova al 10° piano (proprietari compresi) riesce a scappare sul tetto e a mettersi in salvo nei palazzi vicini; al 9° piano arriva l’allarme insieme alle fiamme, ma molti riescono a salire verso la salvezza, mentre all’8° piano è l’apocalisse: qualcuno tenta di usare la manichetta antincendio, ma il tubo è marcio e la valvola bloccata dalla ruggine.
Nell’edificio ci sono quattro ascensori, ma solo uno funziona come si deve; due scale conducono all’esterno, ma si rivelano una trappola: una è già invasa dalle fiamme, mentre l’altra ha la porta chiusa a chiave, per prevenire eventuali furti e pause non autorizzate, e l’addetto con la chiave se ne scappa via subito, dal tetto. C’è anche una scala antincendio esterna, ma è talmente precaria e costruita in economia che quasi subito si deforma e poi crolla, portando con sé le venti persone in fuga dalle fiamme, che precipitano da trenta metri d’altezza.
62 persone sono saltate o sono cadute dalle finestre
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Coraggiosamente, rimangono al loro posto gli operatori dell’ascensore, che riescono a farlo salire e scendere diverse volte, prima che il calore deformi gli ingranaggi. A quel punto, sono molte le donne che, dopo aver aperto le porte dell’ascensore, si gettano nel vano tentando di aggrapparsi alle corde.
Quando i vigili del fuoco arrivano sul posto non hanno i mezzi necessari per intervenire: le scale in dotazione arrivano solo al settimo piano, e le reti di salvataggio si rompono sotto il peso di chi si butta dalle finestre. Il primo a lanciarsi è un uomo, e qualcuno giura di aver visto un altro uomo baciare una donna, poi entrambi saltano nel vuoto.
I corpi delle vittime vengono deposti nelle bare
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La conta dei morti è tragica: 123 fra donne e ragazze e 23 uomini. La vittima più anziana, Providenza Panno, aveva 43 anni, le due più giovani, Kate Leone e Rosaria Maltese, appena 14.
Una processione in memoria delle vittime
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Max Blanck e Isaac Harris saranno incriminati per omicidio colposo, ma, neanche a dirlo, saranno assolti. Devono però rispondere, civilmente, di morte colposa: pagano 75 dollari di risarcimento ai familiari delle persone decedute, una misera percentuale rispetto ai 400 dollari versati dall’assicurazione.
A seguito di quella tragedia, una delle peggiori nella storia del lavoro degli Stati Uniti, finalmente l’amministrazione locale e il governo federale mettono in atto una serie di riforme per garantire una maggiore sicurezza sui luoghi di lavoro.
Sicurezza sui luoghi di lavoro che ancora oggi, a più di un secolo di distanza, non è sufficientemente garantita nei paesi industrializzati, e ancor meno in quelli in via di sviluppo.