“Abusa dei suoi poteri. Potrebbe suonare divinamente e a volte lo fa, per un paio di minuti. Ma poi se ne esce con trucchetti, sorprese, convulsioni dell’archetto. Ed enarmonici simili a miagolii di un gatto morente”. Thomas Moore, poeta e commediografo irlandese vissuto a cavallo tra Settecento e Ottocento.
Ma voi non fatevi condizionare dalle parole di un impenitente consumatore di luppolo. La modalità giusta per ascoltare e comprendere questa storia – da sobri o anche no – richiede solo che alziate il volume al massimo, il resto poi verrà da sé. E adesso mettetevi comodi.
I fatti iniziano nel 1801, quando un giovane che aveva impressionato positivamente un alto funzionario del governo durante una festa di piazza, viene chiamato a suonare il violino a una messa pontificia nell’antica città di Lucca. L’avvenimento viene riportato negli Archivi di Stato della città dall’abate Jacopo Chelini che, si da il caso, sia anche uno dei membri dell’orchestra. Il protagonista delle cronache è un giacobino genovese di 19 anni, noto per essere un gran patriota ma, soprattutto, un prodigio dello strumento.

La liturgia inizia e, da che il giovane doveva suonare soltanto un paio di sezioni, alla fine resta sul palco 28 minuti, un lasso di tempo impensabile per un semplice ospite. In quella mezz’ora ha modo di mostrare virtuosismi senza eguali nella tecnica, nell’interpretazione e nell’imitazione di suoni bizzarri, una delle sue specialità sulle quattro corde: il ragazzo riproduce alla perfezione il canto degli uccellini, il suono del flauto, del corno e della tromba.
Ci vuole un niente perché la messa finisca in caciara, con stupore misto a vergogna dei più alti esponenti del clero locale. Il resto dei presenti invece se la ride e se la canta, non curandosi minimamente del fatto di trovarsi in chiesa. L’evento avrebbe anticipato ciò che sarebbe avvenuto nei quasi quarant’anni successivi. Da quel momento ha inizio l’epopea a tinte fluo di uno dei personaggi più controversi che la musica classica abbia partorito: Niccolò Paganini.

Niccolò nasce in Vico del Colle Gattamora, un caruggio di Genova, il 27 ottobre 1782. È papà Antonio, spedizioniere marittimo in fissa con la musica, a iniziare il bambino prima al mandolino e, successivamente, alla chitarra e al violino. Quando lo becca intento a fare qualcosa di diverso dai suoi esercizi l’uomo lo punisce severamente, prima picchiandolo poi lasciandolo nella sua stanza a digiuno. Il violinista affermerà in seguitò: “Sarebbe stato difficile immaginare un padre più severo”. Che poi, più che uno severo a me ricorda il Marchese de Sade ma si sa, i figli tendono spesso a liquidare l’operato dei genitori, soprattutto se tra i fatti e il ricordo è passato qualche anno a mitigare spiacevoli inconvenienti.

Ad ogni modo sappiate che anche mamma Teresa vede in quel figlio dalla salute precaria un grande potenziale. Più che altro, la donna scorge un’opportunità di avanzamento sociale – la fissazione per il denaro è un’altra peculiarità che il bambino acquisirà dai suoi genitori e che si porterà dietro, assieme alla passione per il gioco d’azzardo – ma andiamo con ordine. C’è un fatto interessante, e certamente meno “venale” relativo a Teresa, che è assolutamente degno di nota; un fatto che condizionerà la vita di Niccolò rispetto alle illazioni sulla sua famigerata appartenenza al mondo esoterico.
Quando Niccolò ha cinque anni, una notte la donna sogna un teatro in fiamme con suo figlio in cima a un mucchio di macerie che è intento a suonare una musica trionfante, con il Tartini che lo dirige assistito da un demone rosso. Quando, all’improvviso, appare un angelo e la donna gli chiede di far diventare il ragazzo il più grande violinista di tutti i tempi, questo annuisce, promettendo che il suo nome avrebbe fatto parte dell’Olimpo degli uomini straordinari della storia per l’eternità. No, non penso avesse preso dell’assenzio. Dubito se ne facesse uso nelle umili case della Genova del 1787. Anche perché Paganini avrebbe raccontato questa stessa versione del sogno tutta la vita, garantendone la veridicità in prima persona.

Sin dai tempi di Tartini, il violino era associato al demonio perchè era stato proprio il musicista veneziano a comporre una sonata ad esso dedicata, “Il trillo del diavolo” ispirata, guarda caso, a un sogno molto simile a quello della signora Paganini. Madre e figlio, conoscendo la storia, se ne sarebbero serviti per alimentare la leggenda. Anche per questa ragione, in molti si convinceranno che Paganini avesse fatto un patto col diavolo.
La fiducia del futuro maestro Paganini nel proprio destino, si basava fermamente su ciò che sapeva di saper fare col suo “Cannone” – come usava chiamare il suo violino – e sull’eccitazione, esagerata, che suscitava nel pubblico durante le sue esibizioni. Così esagerata che essi non potevano certo limitarsi al semplice apprezzamento della performance; chiunque volesse capire la natura del suo genio, doveva necessariamente appellarsi all’elemento sovrannaturale. D’altronde, anche nel suo aspetto c’era qualcosa di talmente sinistro da non passare inosservato.

Per definizione, “demone” è uno spirito che assiste o dimora una persona o il suo genio, e ne rivela capacità o energie sovrumane. E Niccolò Paganini non sembra umano, ma proprio per niente: magrissimo, dinoccolato, capelli lunghi di un color castano cenere, incarnato ceruleo e lineamenti spigolosi, il maestro veste sempre e solo di nero.

Non che fosse una novità all’epoca: la recente Rivoluzione Industriale avrebbe apportato una serie di cambiamenti, sia economici sia sociali, che avrebbero condizionato anche l’ “outfit” maschile, che man mano diventerà sempre più simile a quello di un soldato da parata. Tra i suoi obiettivi c’è quello di definire gli uomini all’interno di uno status, con la creazione di una vera e propria “divisa” quasi monocolore. Prediligerà le tinte neutre e il nero diventerà il colore prescelto dalla nascente classe borghese.

Inoltre, il nostro Nosferatu indossa occhiali con piccole lenti tonde che vanno dall’azzurro pallido al viola intenso, il colore liturgico per eccellenza indossato dagli osservanti cattolici durante i lunghi periodi di penitenza. Una miscela di sacro&profano, giusto per restare in tema religioso. Più Gothic persino di Gary Oldman in Dracula di Frances Ford Coppola, e più spettinato. E con qualche dente in meno.
Comunque il ragazzo detta moda, come una qualsiasi influente rock star dei nostri giorni: con lui si inaugura la stagione degli “scialli alla Paganini”, dei “cappelli alla Paganini”, delle “pipe alla Paganini”. Ogni feticista d’Europa è presto accontentato e le botteghe dei sarti fanno “palanche” a sbafo. Le dita, affusolatissime, sembrano lunghi artigli che si gingillano su un corpo di donna a forma di grancassa, le cui corde paiono ricavate da intestini umani. Altro che abitato dal demone: il violinista genovese è Belzebù in persona!
In realtà, la ragione del suo aspetto va ricondotta alle sue diverse malattie. Perchè Paganini è messo maluccio sin dalla tenera età, e di cosa precisamente fosse affetto ancora oggi non ci è dato saperlo. In tempi moderni numerosi ricercatori hanno ipotizzato, proprio studiando il calco delle sue mani, che potesse soffrire della malattia di Marfan, che altera il tessuto connettivo e compromette, a lungo andare, vari apparati dell’organismo, tra cui lo scheletro. Non si escludono però nemmeno la tubercolosi e la sifilide; l’uomo è amato e adulato soprattutto dalle signore, che si battono a colpi di ombrellini pur di riuscire ad infilarsi nel suo letto.

Le protezioni per evitare malattie sessualmente trasmissibili, o le gravidanze indesiderate, nei primi decenni del 1800 non erano granché efficaci, e le conseguenze arrivano insieme alla fama. Si dice fosse stato condannato a scontare una lunga detenzione per aver sedotto e ingravidato una minorenne, nel 1814. La ragazza darà poi alla luce una bambina morta.
Nel 1826 diventa padre di Achille, l’unico vero amore della sua vita. La madre è Antonia Bianchi, una cantante che per anni lo accompagnerà sul palco e in camera da letto, e che finirà per diventare la sua donna fissa per qualche tempo. Accetterà una liquidazione di duemila scudi per rinunciare definitivamente a ogni rivendicazione sul bambino, di cui il musicista si curerà fino alla fine dei suoi giorni.

Perchè Paganini è anche ricco, molto ricco. A furia di repliche alla Royal Opera House di Londra, arriverà a guadagnare oltre 6000 sterline in poche settimane che, riportate ai giorni nostri, sono quantificabili in circa 725 mila euro – ed è uno dei “tour” meno noti della sua carriera! – ma è anche uomo generoso e caritatevole: tiene diversi concerti di beneficenza e aiuta molti amici in difficoltà economiche. Certo, ama esibirsi al camposanto di fronte a un pubblico che siede su poltrone a forma di lapide, e usa frequentare gli ospedali – nello specifico il reparto dei colerosi – per prendere ispirazione dalla sofferenza umana ma, tutto sommato, è un brav’uomo.

Ormai trentacinquenne, è deciso a godersi la vita ai limiti delle sue forze osservando, divertito, come il mondo inventi leggende sul suo conto. E qui ci avviciniamo alla fase finale, quella più assurda e paradossale, della parabola, prima ascendente poi letteralmente decadente, di quest’uomo delle stelle. Le condizioni di salute di Niccolò peggiorano intorno al 1820. L’uomo ha una tosse cronica, dimagrisce precipitosamente e la terapia che gli hanno prescritto, basata su lassativi e massicce dosi di mercurio – usato, all’epoca, per contrastare gli effetti della sifilide – lo stanno pian piano consumando. Un secondo medico gli suggerisce di fumare più oppio per calmare la tosse compulsiva; le mucose della bocca gli si infiammano, a stento riesce a parlare e le condizioni fisiche iniziano a creargli non pochi disagi psicologici, dettaglio che alimenta anche una certa tendenza all’ipocondria. The Starman è ormai sul viale del tramonto.

Gli anni passano, e le lugubri dicerie sul suo conto iniziano a palesarsi come l’altra faccia della medaglia su cui è affissa la sua intera esistenza. L’uomo ne diventa ossessionato. Perseguitato dalla sua stessa caricatura, cerca di dedicarsi all’unica cosa in cui si sente ancora invincibile: la musica. Finché l’avvelenamento da mercurio non porta a termine la sua missione: è il 1837, Paganini diventa completamente afono ed ha un colorito spettrale. Achille, che intanto è diventato adolescente, gli fa da interprete finché il musicista non riesce più nemmeno ad alzarsi dal letto, figuriamoci ad alzare l’archetto.
Il 27 maggio del 1840, a Nizza, Niccolò Paganini muore. Ha 58 anni
Poco prima che il musicista spiri viene chiamato un prete perché ha voglia di confessarsi. Si perché, udite udite, Paganini era credente! Ma il chierico mandato per assolverlo resta non poco turbato da quell’essere tanto pastricciato che, per di più, non spiccica una parola. È segno inconfutabile di un rifiuto totale dei sacramenti!

L’ arcivescovo di Nizza, monsignor Galvani, accoglie la denuncia del religioso – che intanto se l’è squagliata – esposto che, unito ad alcune testimonianze a sfavore tipo quella della domestica di casa Paganini, farà in modo che all’uomo venga negata una degna sepoltura. Il vescovo, infatti, lo definisce essere impuro dominato da uno spirito malvagio, tanto che alla stampa viene persino vietato di citarne il nome. Intanto il conte di Cessole, amico e tutore del figlio Achille, fa imbalsamare il cadavere, che rimane per due mesi nella stanza del decesso, salvo poi essere trasportato nelle cantine dell’abitazione del conte stesso. Qualcuno capita in visita a casa del Cessole e si offre per acquistare, a prezzo pieno, l’ingombrante cassone per poterci fare un altarino.

Nel frattempo Achille Paganini, assieme a pochi volenterosi amici, cerca di ottenere la revoca del decreto del vescovo, inoltrando petizioni alle autorità genovesi e al Ministero degli Interni: niente da fare, le istituzioni sono irremovibili e la salma resta in Francia. Allora il ragazzo si rivolge direttamente al Papa, il quale scarica il barile all’arcivescovo di Torino.
La cassa comincia a essere scomoda, quindi si decide di trasferirla a Villefranche-sur-Mer, sempre in Costa Azzurra, in un lazzaretto/magazzino usato come deposito ittico. Intanto il maestro, con la sua dipartita, ha moltiplicato i suoi fans come Gesù Cristo con i pesci. Tanto per restare in tema; questi ultimi vi si recano in pellegrinaggio restando ore e ore in contemplazione, tra uno sguazzo di triglia e uno schiocco d’orata, vegliando sul suo cadavere.

Il puzzo è nauseabondo ma Paganini è un vero e proprio Dio pagano, e il suo corpo è venerato come fosse una reliquia. A seguito delle denunce di alcuni pescatori, la salma viene spostata nuovamente e seppellita alla bell’e meglio in prossimità di un olificio. Ma la gente lì va a scaricarci la monnezza così, grazie all’interessamento di Carlo Alberto di Savoia nel 1844 – sono passati quattro anni dal decesso – viene finalmente concesso il nulla osta del trasporto della bara in Italia, a patto che il tutto avvenga discretamente e senza trambusto mediatico. Questa viene poi condotta nell’entroterra genovese, a San Biagio in Val Polcevera, e seppellita sotto un orto che un tempo era stato di proprietà dei Paganini.
Dopo ancora diversi anni di trattative e una richiesta in carta bollata a Maria Luisa d’Austria in persona, Achille ottiene il permesso di portare suo padre a Parma, dove intanto si era trasferito. Lì procedono a una sepoltura “provvisoria” presso il cimitero di Gallone che durerà, non ci crederete, ben trentadue anni! Finalmente, nel 1876 la Chiesa sancisce quel parziale annullamento del decreto originario, e autorizza il definitivo trasporto del feretro nella tomba di famiglia, questa volta al cimitero della Villetta, sempre a Parma, dove tutt’ora si trova.

Si vocifera che, nelle vicinanze del mausoleo, di notte si intravedano figure spettrali suonare e ballare motivetti lugubri. La maledizione di Paganini, un uomo costantemente in bilico tra sacralità e oscenità che non trova pace nemmeno da morto, vivrà in eterno e ci perseguiterà. Fino alla fine dei giorni!