A quanto pare non è poi così difficile intraprendere la lucrosa attività di veggente, perché alla fin fine sono solo tre i motivi che spingono le persone a rivolgersi a un indovino:
Amore, denaro e morte
Questo almeno è quello che apprende, per esperienza, la chiromante francese Catherine Montvoisin, conosciuta nella Parigi del XVII secolo semplicemente come La Voisin.
Sotto, il video racconto dell’articolo sul canale Youtube di Vanilla Magazine:

In verità lei si sarebbe accontentata di fare la merciaia, e non avrebbe mai usato la sua capacità di predire il futuro (un talento dono di Dio, a suo dire) leggendo le mani e il viso dei clienti, se il marito gioielliere non fosse finito in bancarotta. Così, per mantenere la numerosa famiglia, mette a frutto il suo dono e diventa la chiaroveggente più richiesta di Parigi, soprattutto dalle nobildonne che a lei si rivolgono per svariati motivi, riconducibili – in gran parte – a tre sole esigenze: trovare l’amore, ereditare beni e denaro con un po’ di anticipo rispetto a quanto previsto dal destino, liberarsi di un coniuge fastidioso per poter sposare un nuovo amore.
Tutte motivazioni che, a una mente vivace e priva di remore etiche e morali, aprono svariate strade per fare molti soldi, vista anche l’elevata classe sociale dei clienti, in verità quasi tutte donne.
La Voisin diventa ostetrica e aiuta diverse donne incinte a porre fine a gravidanze indesiderate, poi produce filtri d’amore e intrugli afrodisiaci, fino al passo finale: fornire veleni a chi vuole liberarsi di un parente per ereditare o di un coniuge per convolare a nuove e più felici nozze. D’altronde, il mezzo per far passare inosservati certi provvidenziali decessi era già conosciuto da anni: l’acqua Tofana, veleno che non lasciava traccia, messo a punto e ampiamente utilizzato dall’italiana Giulia Tofana.

Insomma, La Voisin accumula una fortuna e frequenta l’alta società parigina, ma per far fronte a tutte le richieste di aborti, pozioni, filtri d’amore e veleni si avvale di una vasta rete di collaboratori e collaboratrici che alla fine porterà alla scoperta delle sue attività criminali, nel 1679.
Per comprendere la portata di quello che poi passerà alla storia come Affare dei veleni, uno scandalo che coinvolge molti personaggi della Corte di Luigi XIV, occorre fare un passo indietro di qualche anno.
Il 31 luglio del 1672 muore un certo Jean Baptiste Godin de Sainte-Croix, ufficiale di cavalleria amante della bella vita e del lusso, ma soprattutto appassionato di alchimia e di veleni. La morte dell’uomo, arrivata all’improvviso nel suo laboratorio forse proprio durante un esperimento chimico, scoperchia una vicenda agghiacciante, grazie al contenuto di una cassettina sigillata sulla quale c’è un biglietto con la raccomandazione: “Da aprire solo in caso di morte precedente a quella della marchesa”.
La marchesa a cui si riferisce è Marie Madeleine d’Aubray, marchesa di Brinvilliers, sua amante da lungo tempo, che evidentemente l’uomo ricattava e temeva al tempo stesso, tanto da premunirsi con quel misterioso scrigno di pelle rossa.

Sainte-Croix, quando muore, è coperto di debiti, così i suoi creditori reclamano dall’autorità competente un inventario dei suoi beni, che porta alla scoperta dello scrigno compromettente. All’interno ci sono le missive d’amore scritte dalla marchesa all’amante, una confessione redatta di suo pugno e due lettere di debito a nome di Sainte-Croix, oltre a delle fiale contenenti del veleno.
La marchesa ripara in Inghilterra, ma il servitore di Sainte-Croix, un certo Jean Amelin detto Chaussée (probabilmente anche lui amante della nobildonna), quando viene arrestato e torturato rende una piena confessione dei crimini che partono da molto lontano e nei quali sono coinvolti lui stesso, la marchesa, il suo defunto padrone e un personaggio di spicco della Corte, Pierre Louis Reich de Pennautier.
Marie Madeleine d’Aubray, che appartiene a una famiglia aristocratica, a 21 anni sposa Antoine Gobelin, marchese de Brinvilliers, comandante di un reggimento di fanteria e un po’ troppo appassionato di donne e di gioco d’azzardo. A Parigi, dove la coppia frequenta la buona società, la marchesa conosce Pierre Pennautier – affarista e tesoriere degli stati della Linguadoca e, dal 1669, curatore generale del clero – che le consiglia investimenti azzardati, volti a mantenere la sua dispendiosa vita e i lussi di Sainte-Croix, l’intraprendente ufficiale presentatole dal marito e divenuto in breve tempo suo amante.
Al marito, sempre preso da altre donne e dal vizio del gioco, poco importa della relazione adulterina della moglie, ma il padre di lei la pensa diversamente (teme per la propria reputazione) e riesce a far rinchiudere Sainte-Croix alla Bastiglia per sei settimane.

Lì, vedi alle volte il destino, l’ufficiale appassionato di alchimia ha la fortuna di avere come come compagno di cella un certo Exili – il vero nome era forse Eggidi o Eggidio – un italiano esperto di veleni che, secondo Alexandre Dumas “non fu un volgare avvelenatore: fu un grande artista di veleni, come i Medici e i Borgia. Per lui l’omicidio era diventato un’arte.” Insomma, alla Bastiglia Sainte-Croix apprende un sacco di segreti sui veleni e anche il nome di chi può fornire la materia prima, un farmacista di nome Cristophe Glaser, che ha bottega al Jardin Royal des Plantes.
Quando Sainte-Croix torna libero, insegna tutto ciò che ha imparato alla marchesa, che non si fa scrupolo di avvelenare, con somministrazioni lente, prima il padre e poi i due fratelli, e ci prova anche con la sorella e altri parenti, tra i quali anche la sua stessa figlia.
Le morti non appaiono sospette, ma vengono addebitate a un non meglio specificato “umorismo maligno”. D’altronde pare che la marchesa – ma non esistono prove a riguardo – avesse testato le sue pozioni sui pazienti dell’ospedale Hôtel Dieu dove, come molte donne della nobiltà, faceva opera di beneficenza prendendosi cura dei malati. Confortata dal fatto che le morti dei malcapitati pazienti non avevano insospettito nessuno, la marchesa procede con l’omicidio dei suoi parenti più stretti, per ereditare, e poi decide di far fuori anche il marito, ma a quel punto Sainte-Croix, in un rigurgito di coscienza, gli fornisce un antidoto. Il nobiluomo, per essere al sicuro, si ritira nelle sue tenute di campagna, mentre l’amante della marchesa nasconde le prove degli omicidi nello scrigno.
Marie Madeleine d’Aubray, dopo la confessione e l’esecuzione di Chaussée, nel 1673 viene condannata in contumacia e per qualche tempo scampa alla cattura, prima rifugiandosi in Inghilterra e poi in un convento di Liegi, dove viene alla fine scovata, nel 1676, da un luogotenente della polizia francese, François Desgrez, che fingendosi prete e forse con la promessa di un incontro d’amore la convince a uscire dal convento e poi l’arresta.
Durante i lunghi giorni trascorsi nel monastero, la donna ha messo per iscritto le vicende della sua vita in una lettera dal titolo “Le mie confessioni”, dove racconta i suoi crimini, ma anche ferite non rimarginate del corpo e dell’anima, come uno stupro subito a 7 anni e il rapporto incestuoso – a partire dai 10 anni – con il fratello Antoine, che poi sarà una delle sue vittime.
La donna, che cerca diverse volte di suicidarsi, prima protesta la sua innocenza, rinnegando anche quanto scritto di suo pugno “in un momento di follia”, poi ammette tutto e viene comunque sottoposta alla tortura dell’acqua.

Il 16 luglio 1676 viene decapitata sulla pubblica piazza e poi il suo corpo è bruciato e le ceneri disperse nella Senna.

La marchesa, prima di morire, aveva comunque fatto alcune affermazioni inquietanti, del tipo:
Molte persone sono impegnate in questo miserabile commercio di veleni, e persone di buone reputazione
E ancora, “se gocciola su di me pioverà su Pennautier”. Eh già, perché quest’ultimo è accusato (ma poi verrà prosciolto) di aver avvelenato il suo predecessore alla carica di curatore del clero per poterne prendere il posto.
Tutta la vicenda preoccupa non poco Luigi XIV, il Re Sole, che vuole vederci chiaro, anche perché è ormai molto tempo che a Parigi si parla di veleni, afrodisiaci, incantesimi e persino messe nere. Una situazione davvero tossica se addirittura molti preti confessori sentono il dovere di informare le autorità che ”la maggior parte di coloro che si sono confessati per qualche tempo si sono accusati di aver avvelenato qualcuno”.
A condurre le indagini, per conto del potente ministro Jean-Baptiste Colbert, è il tenente generale di polizia Gabriel de La Reynie, che poco alla volta scoperchia un vaso di Pandora delle dimensioni inimmaginabili: veleni e arti magiche o divinatorie dai bassifondi di Parigi si diramano fino a coinvolgere l’aristocrazia, addirittura in un complotto contro il re.

Il 1678 è un anno di svolta per la scabrosa vicenda, con arresti che si susseguono uno dopo l’altro, tra chi si occupa di alchimia e, quasi immancabilmente, di veleni. Ogni arrestato fa il nome di molti altri presunti avvelenatori, insomma tutti accusano tutti, in una Parigi che sembra affogare in un’atmosfera da bolgia infernale. L’efficiente Desgrez, dopo una soffiata, arresta una certa Marie Bosse, di professione indovina, che in un momento di ebbrezza alcolica si era vantata di aver guadagnato molti soldi grazie ai veleni venduti a “marchesi e duchesse”, tutti ansiosi di liberarsi dei coniugi.
L’indovina fa, tra gli altri, anche il nome di Madame Montvoisin, la più attiva, ma non certo l’unica: a Parigi ci sono oltre quattrocento persone che si arricchiscono vendendo veleni.
Desgrez, il 12 marzo 1679, all’uscita dalla messa domenicale arresta La Voisin. Quello che salta fuori perquisendo la sua casa è raccapricciante: oltre agli attrezzi del mestiere da chiromante (un bel mantello di velluto viola adornato da aquile dorate), alle pozioni d’amore e agli unguenti medicamentosi, si trova un forno crematorio, dove venivano bruciati i feti abortiti. Ma la donna, che confesserà i suoi crimini senza essere mai torturata, fa molti altri nomi, quelli dei suoi vari collaboratori ai quali indirizza i clienti a seconda delle necessità e anche delle loro possibilità economiche. C’è chi esercita la magia, chi procura aborti, chi i veleni e anche un abate, Etienne Guilbourg, che celebra messe nere. L’orrore si materializza nella descrizione di bambini sacrificati durate riti satanici.
La donna però non fa i nomi di nessuno dei suoi nobili clienti, che salteranno fuori invece dopo la sua esecuzione sul rogo, grazie alla confessione della figlia della chiromante, Marguerite Montvoisin.
Vista l’elevata classe sociale di molti degli accusati, viene istituito un tribunale speciale, chiamato Camera Ardente (per via dei drappi neri alle pareti e delle torce che illuminavano la stanza), che fa capo direttamente al re.
La commissione, guidata da La Reynie, lavora dall’aprile del 1679 al luglio del 1682, quando Luigi XIV decide di mettere fine alle indagini.
Perché il Re Sole, che fino ad allora aveva preteso il pugno di ferro contro i colpevoli, decide di interrompere le indagini?
Perché viene fatto il nome di Madame de Montespan, per molto tempo sua amante ufficiale e madre di diversi suoi figli legittimati.

Dapprima salta fuori il nome di una cameriera della Montespan, Mademoiselle des Œillets, anche lei amante del re dal quale ha un figlio; poi arriva come un fulmine a ciel sereno la rivelazione sulla favorita, che si sarebbe avvalsa dei servizi di La Voisin prima per entrare nelle grazie del re, e poi per riconquistarne il favore, anche grazie a messe sataniche, quando lui era rimasto affascinato dalla bellissima Duchessa de Fontanges, divenuta la sua amante e peraltro morta dopo poco l’inizio della relazione (probabilmente per cause naturali, anche se l’avete capito, in quel clima mai dire mai).

Le voci sono incontrollate: Madame de Montespan voleva avvelenare la nuova amante del re, o addirittura anche il sovrano stesso, come aveva minacciato di fare se lui avesse trovato una nuova favorita? Forse sono tutte bugie, forse c’è un fondo di verità per quel che riguarda la Montespan, certo è che a scavare nel torbido si trova più di quanto si possa mai immaginare.

Se mai ci fu un complotto ai danni di Luigi XIV, una delle probabili istigatrici potrebbe essere stata, oltre alla delusa Mademoiselle des Œillets, la contessa Olimpia Mancini (nipote del cardinale Mazzarino), anche lei per breve tempo amante del re, poi espulsa dalla Francia proprio per l’affare dei veleni.

Comunque siano andate le cose, su tutta la vicenda cala un velo, voluto dal re per evitare uno scandalo colossale che avrebbe coinvolto persone a lui molto vicine, compresi i figli avuti dalla Montespan. Il luogotenente La Reynie commentò:
L’enormità dei loro crimini costituì la loro salvaguardia
Ma ovviamente si parla solo dei personaggi più in vista.
Complessivamente, nei tre anni di lavoro della Camera Ardente, si sono avvicendati 442 imputati, sono stati ordinati 319 arresti (ma 125 indagati rimasero latitanti), per un totale di 30 assoluzioni, 36 condanne a morte, 34 bandi dal regno, oltre a pene pecuniarie e quattro condanne alle galee.
Il 13 luglio 1709, a un mese dalla morte di La Reyne, Luigi XIV compie l’ultimo atto della vicenda: convinto che quel maledetto affaire debba finire in un “eterno oblio”, ordina che tutti i documenti ad esso relativi siano bruciati.
Il re non sa, e non saprà mai, che il fidato La Reynie aveva fatto delle copie, che saranno la fonte per la ricostruzione storica di questa orribile vicenda.