Kiki de Montparnasse: Amante, Modella, Artista – Regina di Parigi

“Tanto per cominciare aveva un bel viso. Aveva un corpo meraviglioso e una bella voce (quando parlava non quando cantava). Oggi ha ancora la sua voce. E non dobbiamo preoccuparci dei suoi reni: viene dalla Borgogna dove certe cose le fanno meglio che non in Illinois o in Massachusetts!” Scrive Ernest Hemingway nel 1929, nell’unica prefazione della sua carriera. Quella in testa ad uno dei memoire più sinceri che siano mai stati pubblicati.
Sto parlando del diario personale di una donna assolutamente sui generis, la cui vicenda umana è finita per incrociarsi con quella dello scrittore americano, portandoli a condividere ore liete a suon di whiskey, e non solo.

Ma cos’ha fatto di tanto straordinario questo personaggio – che era solito chiamarlo affettuosamente “Papà Hemingway” – tanto da diventare unico beneficiario di un privilegio tanto ambìto da chiunque avesse intenzione di cimentarsi in una pubblicazione in quel periodo?

Prima di rivelarvelo, è doveroso ricordare che i due si sarebbero ritrovati negli States dopo la Seconda Guerra Mondiale, e che avrebbero continuato a condividere un’amicizia sincera fino alla morte di lei, avvenuta nel 1953 per complicanze dovute all’abuso di sostanze stupefacenti.

Glass Tears Man Ray, 1932

Al suo funerale, Tsuguharu Foujita dichiarerà ai presenti : “Con lei se ne vanno anche i giorni felici di Montparnasse”.

Chiunque abbia un minimo di cultura avrà visto, almeno una volta nella vita, la celebre fotografia di Man Ray che ritrae una donna seduta di spalle su un letto, con due branchie di violino disegnate sui fianchi. L’opera si intitola “Le violon d’Ingres” e si dà il caso che il soggetto sia una modella, pittrice, cantante, cabarettista – ex saldatrice, lavabottiglie, rimodellatrice di calzature belliche – che ha fatto delle sue mille vite una grande opera d’arte.

Se qualche volta basta trovarsi al posto giusto nel momento giusto, in questa storia il posto giusto è Parigi e il momento giusto non può che essere quello dei “ruggenti” anni venti.

Le Violon d’Ingres – Man Ray, 1924

Dentro a questa parentesi, sfolgorante, della nostra Europa – in un micromondo patinato fatto di artisti e muse, destinati a fare il loro ingresso nel Parnaso delle Arti Figurative senza neanche passare per il via – “Kiki” riflette luce come nessun’altra: diventerà una delle protagoniste indiscusse – e più discusse – delle sale da ballo di tutta la “Paris Follies”.
Al secolo Alice Ernestine Prin, Kiki è una scroccona nata che non indossa mai le mutande; quando entra in un qualsiasi caffè della Rive Gauche in un attimo è il caos ma tutti l’adorano: da Soutine a Kisling, da Cocteau a Leger, gli intellettuali della sua generazione fanno a gara per accalappiarsela, tutti impazienti di riservarle un posto d’onore su una tela, su una pellicola, o più prosaicamente al proprio tavolo da bere.

Una sorta di Marla Singer in scarpette da charleston, una femme fatal allo stato brado nota a tutti per la sua tremenda sincerità, come il buon vino che non mente mai. Non a caso viene da un paesino della Borgogna, Chatillon-sur-Seine, in cui nasce il 2 ottobre del 1901.

Kiki fotografata da Man Ray, 1929c.

La piccola Alice trascorre un’infanzia tutto sommato felice nonostante fosse stata affidata alla nonna che aveva sei anni, perché la madre aveva deciso di tentare la fortuna a Parigi, città che all’epoca rappresentava una miniera di opportunità per chiunque avesse voglia di coglierle.

Quando ha dodici anni la nonna decide che è arrivato il momento che madre e figlia si ricongiungano, nella speranza che la bambina, in città, possa almeno imparare a leggere, il resto poi si vedrà; il fatto che abbia altre sei bocche da sfamare è giusto un dettaglio. La notizia sconvolge Alice, che è affezionatissima ai suoi fratelli e, soprattutto, alla donna che l’ha tirata su.

Ma un bel giorno, mentre tenta di nascondere le lacrime sotto un grande cappello malconcio e palesemente fuori moda – il migliore e anche l’unico che possedesse – viene messa su un treno diretto a Parigi su cui, tempo zero, inscena una performance di grande impatto emotivo in puro stile Anna Karenina: non si sa mai che a qualcuno venga in mente di rispedirla al mittente.

“La nonna! Mi manca la nonna!” confida alla donna seduta sulla poltrona accanto alla sua, mentre è intenta a tirar fuori dallo zaino un pezzo di salame all’aglio e una bottiglia minon di vino rosso.

Mangia, beve e piange; nel frattempo il salame impesta lo scompartimento e la signora è disgustata, come tutti gli altri altri ospiti del vagone che non vedono l’ora di giungere a destinazione.

Il treno arriva nella capitale francese e Alice viene catapultata, assieme al tanfo d’aglio e alcol, in una realtà totalmente differente da quella a cui è abituata: si rende conto immediatamente che la sua intera vita cambierà per sempre.

Facciamo un salto avanti. È il 1915 e la ragazza ha quattordici anni. Ormai sa leggere e fare di conto, e va bene così. È appena scoppiata la Prima Guerra Mondiale ma riesce comunque a trovare lavoro in una fabbrica di scarpe, la Saint Queen; deve rimodellare le calzature provenienti dal fronte e fare in modo che tornino nuovamente ai piedi dei soldati. Tutto sommato ce la fa. La sua esistenza prosegue, finché non decidono di licenziare le donne giovani per tenere soltanto le mogli degli operai con maggiore anzianità di servizio, e quelle con bambini e mariti al fronte. In un attimo resta nuovamente sprovvista di qualsiasi sostentamento economico, un imprevisto che la costringerà a vivere di espedienti, dall’elemosina alla prostituzione, che la donna definirà più elegantemente “qualche marchetta qua e là”.

Da qualche tempo ha preso l’abitudine di passare davanti al Dome e alla Rotonde – i caffè più gettonati della Riva Sinistra della Senna – e sbirciare attraverso i vetri per individuare qualche pittore a cui, magari, offrirsi come modella. O a cui scroccare un tè, meglio se un caffè! Dalle sue parti  ci vuole coraggio a rischiare la faccia per una manciata di franchi  ma, racimolare qualche spicciolo per una bevanda calda in quegli anni è davvero tanta roba.

La Rotonde, circa 1930.

Incontra un uomo che una volta le aveva prestato un soprabito. È con un gruppo di amici, tutti giovani pittori: tombola! Con loro inizia a passare le serate, ballando e cantando fino all’alba. È così che inizia a posare e quello di modella diventa il suo lavoro principale.

Anche se non ne va pazza perchè a Parigi d’inverno si gela; e perché, in certe zone, il suo corpo è talmente glabro che deve eseguire un tratteggio col gesso nero per riuscire a dare una convincente imitazione dei peli.

Il trauma le era venuto durante l’infanzia, quando la nonna usava rapare a zero la sua testa e quella dei suoi fratelli per paura che prendessero i pidocchi – all’epoca non esistevano i trattamenti miracolosi attuali – ma a Parigi la “flora umana” si porta ancora con un certo aplomb e, nonostante un insolito vento di cambiamento inizi a tirare – soprattutto nel mondo dell’arte – la ragazza non può fare altro che coprirsi le orecchie, e lasciar scoperto tutto il resto.

Tsuguharu Foujita è il primo a dipingere Alice che, intanto, si è ribattezzata Kiki. Il giapponese abita a due passi dalla Rotonde, in uno studio/appartamento popolato da gatti.

“Autoritratto in atelier” Foujita, 1926

La prima volta che la ragazza si trova a mostrargli le sue grazie segrete, lui non può fare a meno di avvicinarsi al suo sesso – Foujita è miope pesante e, senza i suoi fondi di bottiglia, non mette a fuoco nemmeno un elefante su un divano rosa shocking – e di esclamare, quasi turbato: “Ma, cara, non hai i peli!”.  Prontamente, Kiki risponde: “E allora? Cresceranno durante la posa!” mettendoci giusto tre secondi a rompere il silenzio della timidezza.

É così che riesce a farsi spazio nell’ambiente artistico di Montparnasse.

A pranzo o a cena le piace frequentare Rosalie, che è anche la proprietaria di un’osteria a buon mercato sita in Rue Campagne-Premiére. Ci incontra spesso Amedeo Modigliani che è sempre con un carnet di fogli sotto al braccio; l’uomo si accompagna assiduamente al pittore Maurice Utrillo, figlio di Suzanne Valadon che è a sua volta pittrice ed ex musa del celebre Henri de Toulouse-Lautrec, l’indimenticabile interprete delle ballerine del Moulin Rouge.

Amedeo Modigliani

Modigliani la fa davvero innervosire; è bello come il sole ma mugugna sempre qualcosa tra i denti e la cosa la disturba: “Cos’ha da borbottare quell’ebreo di cartone, che è l’unico a scambiare disegni con piatti di minestra? Un giorno qualcuno glie lo dirà che i suoi fogli sono utili soltanto a tappare gli spifferi nel retro bottega” ripete Kiki tra sè e sè. L’artista livornese è molto povero ed, effettivamente, è costretto a barattare i suoi schizzi a matita con qualche pasto caldo. Ma finisce per scattare un discreto feeling e i due iniziano a rincontrarsi spesso per qualche sessione di posa.

Kiki dipinta da Modigliani, 1918

Nel 1918 Kiki mette su casa con un amico pittore non meglio identificato. Intanto che posa lavora, prima come addetta al risciacquo di bottiglie, poi come commessa in una rilegatoria.

Una notte finisce in ospedale per sospette anomalie cardiache. Si riveleranno essere solo sintomi nervosi: beve troppi tè, mangia troppi carboidrati e la sua precarietà la preoccupa non poco.

Ma la svolta è proprio li, dietro l’angolo

Firmato l’armistizio, il risveglio culturale parigino si stava mettendo in moto e buona parte della popolazione occidentale iniziava a credere che tutto fosse possibile, e giustificabile. Con la morte di Modigliani nel 1920, si era definitivamente chiusa l’epoca dei bohémien e gli abitanti del Bateau Lavoire stavano via via abbandonando il quartiere a favore di zone ben più “movimentate”, quelle in cui le Sale da Ballo iniziavano a spuntare come funghi pioppini. I luoghi preferiti di coloro che non desiderano altro che trascorrere qualche ora nella pura perdizione tra alcol, fumo e schiamazzi vari.

È il 1921. A un tavolo leggermente isolato, Kiki e la sua amica Therese chiacchierano, ridono e sfumacchiano. Non portano il cappello. Il cameriere riferisce al proprietario della sala, che si trova non molto distante dalle ragazze: “D’altronde sa, le donne senza cappello se non sono americane certamente sono…”

“Puttane!” risponde Kiki energicamente, alzandosi di scatto.

Poi mette un piede nudo sulla sedia e l’altro sul tavolo – l’ho detto vero che non porta le mutande? – e, imprecando verso il Signore, giura che li non ci metterà più piede. Un uomo seduto poco distante, la nota e le paga da bere.

È Man Ray, un “poli-artista” che, estasiato dalla scena degna di un cabaret, dopo aver bevuto con le signore decide di proseguire la serata con loro, accompagnandole al cinema.

In sala proiettano “La signora delle camelie”; Kiki si emoziona; Man Ray trova la sua mano e la stringe. All’uscita le dice che vorrebbe dipingerla e lei risponde che è abituata, che è il suo mestiere. Ma quando sono a casa di lui, l’emozione ha la meglio e l’artista fa cilecca. Le chiede se può tornare il giorno dopo. Non si lasceranno per i successivi sei anni.

Per molto tempo convivono, l’uomo non è certo ricco ma qualcosa riescono sempre a metterla sotto i denti. Escono con dei tipi che si fanno chiamare “dadaisti”. Passano le notti a fare lunghe chiacchierate, spaziando da un argomento a un altro, fumando tabacco e bevendo vino.

Qualche anno prima, a Zurigo, Tristan Tzara e André Breton – due ex soldati della prima guerra mondiale con l’obiettivo condiviso di voler cambiare il mondo – avevano fondato Dada; Un movimento se così si può chiamare, che comprendeva esibizioni, danze e performance di ogni tipo, con lo scopo di ridicolizzare coloro che cercassero di dare una spiegazione a qualsiasi cosa. A cominciare dal termine stesso Dada, scelto proprio perché senza senso.

Questa assenza di significato – che non traduce ma semplicemente evoca –  esprime, secondo quelli che lo promuoveranno, l’unica via possibile per la ricerca di “un tutto” incondizionato, totalmente slegato dai valori edulcorati che avevano caratterizzato la società della Prima Guerra Mondiale. In pochi anni il manifesto dadaista attraverserà l’Europa, gettando le basi per quello che diventerà il movimento surrealista.

Dada manifesto originale, 1918

Kiki posa per Man Ray e per tanti altri: è il soggetto di disegni, foto e cortometraggi che faranno la storia delle arti figurative (negli anni venti il cinema è ormai una disciplina affermata ed è già riconosciuta come arte). Quando si stufa di essere trattata come un oggetto, grida al suo compagno: “Basta, non sono il tuo strumento!” Per tutta risposta, lui prende una sua fotografia appena sviluppata e ci disegna sopra le due “effe” del violino:  “Adesso sì che sei il mio strumento!”. Il resto è un ready-made a forma di latrina o la Gioconda con i baffi, di Marcel Duchamps.

Si ritrovano tutti al Jockey, un locale notturno di grande tendenza. Ragazze mezze nude ballano e fumano senza che nessuno si scandalizzi. Si suona Jazz. Ci sono i dadaisti, i surrealisti e gli scrittori. C’è anche Ernest Hemingway, e la sfacciataggine di Kiki, che intanto è diventata cantante e pittrice, fa sempre la sua bella figura. Lei canta (solo se ubriaca) e intanto promuove le sue tele, che vanno a ruba.

È nata una stella e i pidocchi, come il salame all’aglio, sono ormai lontani ricordi: Kiki è la sola, autentica Reine de Montparnasse “che è ben diverso da signora” (Hemingway, 1929).
Sarà l’indiscussa protagonista della movida parigina di tutto il ventennio successivo.

Foto di gruppo in una sala da ballo parigina, circa 1930.

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