Anni ’70, Stati Uniti d’America. Non è poi così difficile far perdere ogni traccia di sé in un paese tanto grande (ancora non ci sono telecamere di sorveglianza, banche dati computerizzate, né tanto meno telefonini che si possano localizzare) dove trasferirsi da uno stato all’altro per cambiare vita e lavoro è una consuetudine. Non deve essere difficile nemmeno cambiare identità, visto che in molti lo fanno.
Per ragionare su tutto questo, e forse per organizzarsi in tal senso, John List ha avuto cinque anni, cinque lunghi anni durante i quali ha trascorso le sue giornate, dalle 9 alle 17 come da orario lavorativo, sulle panchine di una stazione a pochi chilometri dalla sua sontuosa casa vittoriana, Breeze Knoll.
John List, un uomo comune che più comune non si può, tutto casa e chiesa, non aveva trovato il coraggio di confessare alla famiglia di aver perso, ancora una volta, il lavoro. Ma in quest’ultimo caso, la faccenda è più complicata delle precedenti, e lui non trova di meglio che uscire tutti i santi giorni da casa, come per andare a lavorare, e scendere dopo un paio di fermate.
La vita di John List ricalca quella di milioni di uomini che vivono negli Stati Uniti: nasce in una famiglia di origini tedesche, di stretta osservanza luterana, con il padre che gli inculca i precetti dell’onore e del dovere di prendersi cura della famiglia. Partecipa alla seconda guerra mondiale e a quella di Corea, e nell’intervallo tra le due si laurea in economia aziendale, con un master in contabilità.
Intanto, nel 1951, mentre è ancora militare, si sposa con una vedova con figlia a carico, e nel 1952 finalmente torna a vestire i panni civili. Nel giro di sei anni gli nascono tre figli e cambia tre o quattro lavori, ma per quanto scrupoloso e puntuale, non “rende” abbastanza. Poi, nel 1965, sembra finalmente arrivare un incarico di prestigio e remunerativo: vicepresidente e controllore di una banca a Jersey City (New Jersey).
La moglie Helen – che lui aveva sposato controvoglia (la donna aveva detto di essere incinta, ma era una bugia), e che forse non è la donna adatta a lui, visto che beve parecchio e non frequenta la chiesa – lo convince a comprare quella lussuosa dimora vittoriana, che conta addirittura 19 stanze. Lui prima fa resistenza, poi chiede l’aiuto economico della madre, che per accettare pone come condizione di andare a vivere con loro.
Passa un anno, e succede di nuovo, John ancora una volta perde il lavoro. Ma non ce la fa ad ammettere la sconfitta, ad accettare di aver fallito in quello che più gli aveva inculcato il padre:
Prendersi cura della famiglia, in modo autosufficiente
In quegli anni trascorsi su una panchina della stazione, forse considera di chiedere aiuto ai servizi sociali, che probabilmente avrebbero provveduto ai bisogni dei List, ma la vergogna non gli consente un passo del genere. Intanto, per pagare il mutuo della casa e tutte le altre spese, prosciuga i risparmi della madre, fino a quando non rimane quasi nulla.
Nella sua mente (forse soffre di un disturbo ossessivo-compulsivo) prende forma l’idea di “salvare” la sua famiglia, salvare la moglie, i tre figli e la madre dall’umiliazione della miseria, e anche dai pericoli del mondo: la moglie Helen, non religiosa, avrebbe potuto avere una cattiva influenza sui ragazzi, mentre la figlia maggiore Patricia, di 16 anni, è pericolosamente attratta dall’infido mondo dello spettacolo (vuole fare l’attrice).
Ci pensa lui a mandare le loro anime in Paradiso, tutte e cinque in una volta, in un giorno di novembre del 1971
Prima però pianifica tutto, senza tralasciare nessun aspetto: disdice la consegna del latte e dei giornali, scrive una lettera alla scuola dei figli, avvisando che sarebbero stati assenti per un paio di settimane in visita alla nonna ammalata, blocca perfino la consegna della posta.
La mattina del 9 novembre i figli, come sempre, vanno a scuola. Lui quella mattina non esce, aspetta che la moglie scenda in cucina a bere il caffè e le spara, mentre è girata di spalle. Poi va al piano di sopra, dove c’è la camera della madre, Alma, che sta facendo colazione, e mentre la bacia sulla guancia le spara in un occhio. Poi, con un’agghiacciante freddezza, va in banca a ritirare tutti i soldi rimasti, controllando maniacalmente che non manchi nemmeno un penny degli interessi dovuti (d’altronde è un contabile). Torna a casa, sposta il corpo della moglie nella sala da ballo, e pranza, proprio su quello stesso tavolo dove era seduta Helen quando l’aveva uccisa. “Avevo fame” dirà molti anni dopo “è andata così”.
Mentre aspetta che i figli tornino da scuola ripulisce tutto, per non metterli in sospetto, e ritaglia la sua faccia da tutte le foto che ci sono in casa. Nel primo pomeriggio uccide la figlia Patty e il figlio Frederick, il minore. Poi va scuola dell’altro figlio, John jr, che ha 15 anni, e assiste alla sua partita di calcio. Quando tornano a casa, gli spara ripetutamente, perché pare che il ragazzo abbia accennato a difendersi. Trascina tutti i corpi nella sala da ballo e li distende sopra dei sacchi a pelo, solo quello della madre rimarrà là dove lui l’ha uccisa, perché “troppo pesante” da spostare.
Scrive una lettera al pastore della chiesa che frequenta assiduamente, dove peraltro insegna alla scuola domenicale, spiegando che ha ammazzato tutti per salvare le loro anime. Passa la notte nella casa dell’orrore, chissà se ha dormito e cosa ha pensato. La mattina si alza, accende tutte le luci e una radio che trasmette musica d’organo, poi esce e scompare nel nulla.
Dopo un po’ di tempo, i vicini di casa si insospettiscono per quelle luci sempre accese e nessun segno di vita, così chiamano la polizia, che fa un giro all’esterno, ma non notando nulla di sospetto se ne va. E’ il 10 novembre.
Poi, il 7 dicembre, l’insegnante di recitazione di Patricia, preoccupato per la lunga assenza della ragazza, decide di andare a controllare di persona come stanno le cose. I vicini notano quell’uomo che si aggira attorno alla casa urlando il nome della ragazza, e chiamano nuovamente la polizia. Quando arrivano, il professore convince gli agenti ad entrare nella villa, e così l’orrore di quella mattanza (“omicidio di massa” lo chiamano gli americani) piomba su quella piccola e tranquilla cittadina dove l’ultimo crimine violento si era registrato otto anni prima.
Inizia la caccia all’uomo e l’unico indizio che gli investigatori trovano è la macchina dei List, parcheggiata all’aeroporto J.F. Kennedy di New York. Il caso si arena lì:
Nessuno sa che fine abbia fatto l’assassino
L’ipotesi di un suicidio non è attendibile, vista la meticolosità con la quale l’uomo ha fatto perdere le tracce.
Quello della famiglia List si trasforma in un cold case, un caso irrisolto che ha molte probabilità di rimanere tale. Se non ci mettesse lo zampino un programma televisivo, America’s Most Wanted, che dedica una puntata proprio a quell’omicidio. E’ il 21 maggio del 1989, sono trascorsi diciotto anni da quel terribile giorno a Breeze Knoll.
La nemesi prende le sembianze dello scultore forense Frank Bender, che basandosi su una vecchissima foto di List, ricostruisce il volto dell’uomo, invecchiato di molti anni.
L’assassino e la sua nuova moglie, all’oscuro del passato del marito, guardano il programma solo verso la fine:
John in quegli attimi suda freddo, ma la moglie non lo riconosce
La somiglianza di quel busto di creta con il signor Robert Clark, che vive e lavora a Richmond, in Virginia, non sfugge però a una vicina di casa, amica della moglie. La sua è la giusta segnalazione, tra le centinaia arrivate alla polizia, che nel giro di una decina di giorni arresta il sedicente Robert Clark. Lui nega per diversi mesi di essere John List, poi cede, quando si trova la corrispondenza fra le sue impronte digitali e quelle che gli avevano preso nel momento dell’arruolamento.
Andando a ritroso nel tempo, confessa di essere dispiaciuto per “la tragedia avvenuta nel 1971” (non pronuncia mai le parole moglie, figli, mamma, né i loro nomi), e ribadisce che il suo solo scopo era quello di salvarli, mandandoli in paradiso. Lui non si è suicidato proprio per non rischiare di non rincontrarli più nell’aldilà:
In fondo lui ha ucciso a fin di bene, e quindi non merita l’inferno
La storia successiva di List/Clark è banale, come spesso può esserlo il male: l’uomo lascia l’automobile all’aeroporto di New York e poi prende un treno per il Michigan. Nel 1972 si trasferisce a Denver, in Colorado, dove, come in passato, non riesce mai a mantenere un lavoro. Intanto, frequentando la chiesa luterana, conosce Dolores Miller, che sposa nel 1985.
La situazione economica della coppia è precaria: John è di nuovo disoccupato, e nel 1988 trova lavoro in una ditta che ha sede in Virginia. I due si trasferiscono in un sobborgo di Richmond ed è lì che, dopo diciotto lunghi anni, arriva finalmente la resa dei conti per l’assassino.
Il resto è cronaca giudiziaria: il giudice non accetta l’ipotesi di una momentanea infermità mentale, né giustificazioni di altro tipo, come un disturbo post traumatico da stress, né crede alle peraltro poche parole di pentimento di List. Lo definisce un uomo “senza rimorso e senza onore”, e il suo pensiero è rivolto alle vittime: “Dopo 18 anni, cinque mesi e 22 giorni, è ora che le voci di Helen, Alma, Patricia, Frederick e John jr, emergano dalla tomba”.
List, che viene condannato a cinque ergastoli, muore in carcere di polmonite il 21 marzo 2008. Nessuno si è fatto avanti per chiedere la restituzione del suo corpo.