Questa è la storia di un ragazzo e del suo sogno, che si consumò nell’arco di un solo pomeriggio, quello del 29 giugno 1950, a Belo Horizonte, Minais Gerais, Brasile. Di un sogno straordinario che sembrò l’inizio di chissà cosa e poi si consumò rapidamente, per lasciare spazio a una terrificante realtà.
Ma partiamo dall’inizio
E l’inizio è un posto che, a vederlo sul mappamondo, non è poi lontanissimo dal Brasile. Hispaniola, la prima isola americana scoperta da Colombo, dal 1844 è divisa in due Stati, quello ispanofono della Repubblica Dominicana e quello francofono di Haiti. E’ proprio qui, ad Haiti, nella capitale Port-au-Prince, che il 24 marzo 1924 nasce Joseph Edouard Gaetjens, detto Joe, un mulatto, terzo figlio del matrimonio (ben riuscito) tra una haitiana di colore e un bianco, figlio di immigrati che si dice fossero di origine belga, anche se in realtà Gaetjens è un nome tedesco, comune nella zona di Brema.
La famiglia Gaetjens non se la passa male, commercia in rhum e caffè e gestisce una scuola privata, ma per Haiti non sono tempi molto allegri (si può dire che questa tormentata nazione non ne abbia mai avuti). Fino al 1934, l’area è un protettorato degli Stati Uniti, che l’hanno occupata militarmente dopo la guerra civile del 1915 e la lasciano in mano alla minoranza mulatta che è sempre stata il loro interlocutore prediletto. Ma nel 1945 la maggioranza nera torna al potere e da quel momento tutti gli avvenimenti vanno verso la direzione di una dittatura militare.
Intanto, Joe Gaetjens cresce e cresce bene, il figlio che tutti i genitori vorrebbero. Primeggia a scuola e negli sport e, giovanissimo, diventa il bomber della Etoile Haitienne, una squadra di calcio della sua città, in cui milita per 8 stagioni vincendo due campionati nazionali, nel 1942 e 1944. Ma per lui il calcio è solo un gioco, un passatempo, perché sogna di entrare in affari e, per questo, studia Economia. I suoi risultati scolastici e universitari sono talmente buoni che, nel 1946, vince una borsa di studio governativa per andare a specializzarsi negli USA, presso la Columbia University, dove ha già studiato, sempre con una borsa di studio, il fratello maggiore Gèrard.
Però la borsa di studio non basta a coprire tutte le sue necessità e lui, che non vuole gravare ulteriormente sulla famiglia, si trova un lavoro part-time come barista in un locale di Harlem, il Rudy’s Cafè. Il proprietario del Rudy’s, Eugene Diaz, per combinazione, è anche il proprietario di una squadra di calcio, la principale squadra newyorkese, il Brookhattan, che partecipa all’American Soccer League (ASL), il principale campionato di calcio americano del tempo.
Diaz vede giocare Joe mentre questo sta facendo due passaggi in strada con gli amici, ne intuisce le qualità e lo fa entrare nella sua squadra. In quegli anni, il Brookhattan (il cui elemento di punta è il cubano Pito Villanon, il primo giocatore di colore a essere schierato nell’ASL) è una squadra di vertice, ma vince poco (aveva già vinto la ASL nel 1945). Oltre a un prestigioso secondo posto nella National Challenge Cup, dopo aver dominato la Eastern Division, nel 1948, ci sono solo i tre titoli di capocannoniere, due di Villanon e uno, nel 1949-50, di Joe Gaetjens.
Non si deve immaginare quel calcio come qualcosa di simile al tronfio spettacolone di adesso. Sono tempi di un calcio parecchio amatoriale, con partite che si giocano su campetti non molto curati, con al massimo qualche migliaio di spettatori. E tutti i giocatori sono dilettanti che, per vivere, fanno un altro lavoro. Joe, per esempio, non ha mai smesso di fare il barista.
Comunque, le sue prodezze non sono passate inosservate. Nel 1950 si organizza, in Brasile, il primo Campionato del Mondo dopo la Guerra. Molte nazioni invitate non sono in grado di parteciparvi, altre sono escluse per i più svariati motivi. Dalla Federazione Nordamericana (NAFC), che peraltro conta poche squadre, ne sono ammesse due. Una è sicuramente l’imbattibile Messico (che supera gli americani prima per 6-0 e poi per 6-2) e l’altra viene fuori da uno spareggio tra USA e Cuba che vede gli statunitensi prevalere dopo una vittoria per 5-2 e un pareggio per 1-1.
E’ una bella soddisfazione per il modesto calcio a stelle e strisce, anche se i suoi vertici federali temono che l’avventura finisca in modo patetico, come alle Olimpiadi di Londra nel 1948, quando gli americani incassarono tre rovinose sconfitte contro Italia, Norvegia e Irlanda del Nord, subendo 25 gol senza arrivare a segnarne nessuno. Quando la squadra conferma la sua sostanziale debolezza perdendo anche una serie di facili amichevoli, il CT, lo scozzese William Jeffrey, è autorizzato a cercare altri giocatori, dovunque li possa trovare.
Il compito è particolarmente complesso, perché stiamo parlando sempre di dilettanti, che devono chiedere il permesso di assentarsi ai rispettivi datori di lavoro. Infatti, alcune convocazioni saltano, perché questi permessi non arrivano.
In ultimo, Jeffrey si fa venire l’idea di convocare anche il capocannoniere dell’ASL, Joe Gaetjens. E’ haitiano, ma non ha mai giocato con la nazionale di Haiti. E, per autorizzarne l’impiego, la federazione decide che basta il fatto che abbia presentato la domanda di cittadinanza americana. E’ in attesa di concessione della cittadinanza e tanto basta. Nella stessa situazione sono anche altri due, il belga Joseph Maca e lo scozzese Ed McIlvenny.
Joe non sarà mai cittadino americano, ma in quel momento non lo sa. E’ solo felice di giocare i mondiali, visto che Diaz gli ha concesso entusiasticamente il permesso di andarci. Viene aggregato ai convocati solo la sera prima dell’ultima amichevole, che si gioca proprio a New York e, tanto per cambiare, finisce con un’imbarazzante sconfitta.
La squadra è quanto mai eterogenea dal punto di vista della provenienza. Prevalgono gli italo-americani come il portiere Frank Borghi e il suo vice Gino Gardassanich (che è addirittura nato a Fiume), il capitano Charlie Colombo e poi Nicholas DiOrio, Gino Pariani e Frank Wallace, il cui vero cognome è Valicenti. Poi un po’ di ispanici e un melting pot di altri, in mezzo ai quali Joe Gaetjens non è neanche il più originale.
Il Mondiale degli americani, inseriti nel Gruppo 2, incomincia nel primo pomeriggio del 25 giugno 1950 a Cutiriba, Paranà, contro la Spagna. Contro ogni previsione, gli USA vanno in vantaggio nel primo tempo con Pariani e resistono all’assedio spagnolo per quasi un’ora, prima di capitolare nei minuti finali e perdere 1-3. Tutto sommato, viste le aspettative, non è andata malissimo.
Il secondo incontro del girone, che si disputa alle 18 del 19 giugno a Belo Horizonte, li vede opposti all’Inghilterra. E’ la prima partecipazione ai Mondiali degli inglesi, considerati i maestri e gli inventori del calcio, specie dopo che nel 1949 hanno sconfitto, dopo una lunga serie di vittorie prestigiose, una velleitaria selezione del “Resto del Mondo” per 6-1. Nel primo incontro hanno battuto in scioltezza il Cile per 2-0 e ora si preparano a fare un sol boccone di quei dilettanti allo sbaraglio.
Ma qualcosa va storto
Gli inglesi fanno la partita, la loro supremazia territoriale è indiscutibile, hanno parecchie occasioni ma non la sbloccano. In compenso, quando finalmente gli americani si fanno avanti, al 37′ del primo tempo, il centrocampista Walter Bahr, insegnante di matematica e ginnastica in una scuola media, si fa spazio e tenta la conclusione in diagonale da 25 metri. Il portiere inglese Albert Williams è ben piazzato e dà l’impressione di poter controllare agevolmente il tiro ma, comparendo come dal nulla, con quello che sarà definito come un volo di almeno 5 metri, Joe Gaetjens si tuffa e devia il pallone di testa, spiazzandolo.
L’arbitro della partita, l’italiano Generoso Dattilo:
La torcida di Belo Horizonte è tutta per gli americani, guidata dalla folta comunità di immigrati italiani che si riconosce nei vari Borghi, Pariani e Colombo. Lo stadio esplode. Gli inglesi hanno quasi un’ora per rimediare e infatti ci provano in tutti i modi, ma non è giornata. Né Mortensen né Matthews né nessun’altra delle stelle inglesi in campo trova il guizzo vincente e, quando azzeccano un gran tiro, ci pensa Borghi a pararlo.
Alla fine, gli Stati Uniti vincono e Joe è portato in trionfo dai compagni
In Europa, la notizia del risultato provoca una serie di ridicoli malintesi. Quando le telescriventi della Reuters la battono, alcuni redattori pensano a un errore e riportano sui giornali la notizia di una vittoria inglese per 10-0 o per 10-1.
Gli inglesi diranno poi che Joe è stato letteralmente colpito dal tiro di Bahr, che la sua deviazione è stata tanto fortuita quanto fortunata. Ancora a distanza di molti anni, Bahr respingerà sdegnato questa insinuazione: Joe era un gran cannoniere, aveva uno straordinario fiuto del gol ed era soprattutto uno specialista di gol acrobatici. I compagni di Joe nel Brookhattan gli fanno il coro.
In realtà, il Gruppo 2 si è già concluso alla fine del secondo turno. Passa solo la prima classificata e, battendo per 2-0 il Cile, questa è la Spagna. Il terzo turno si gioca solo pro forma, il 2 luglio. La Spagna infligge un’altra sconfitta (per 1-0) all’Inghilterra e gli americani, ancora ubriacati dall’euforia dell’inatteso successo di tre giorni prima, si fanno strapazzare dal Cile, che li batte per 5-2.
Il Mondiale sarà poi vinto dall’Uruguay, che avrà ragione dei padroni di casa al termine di una partita leggendaria, passata alla Storia come il “Maracanazo”.
Non c’è molta gloria per i giocatori americani, una volta tornati a casa. Quelli che sbarcano a New York trovano ad attenderli solo la moglie di Bahr, che è venuta a prendersi il marito per portarlo direttamente, senza passare per casa, a un campo estivo negli Adirondacks dove gli ha trovato un lavoro mentre la scuola è chiusa.
La fama di Joe in quel momento è ai massimi livelli e gli arrivano offerte dall’Europa. Allora decide di lasciare il Brookhattan e la Columbia University e se ne va in Francia a giocare in Division 1 (corrispondente alla nostra Serie A) con la maglia del Racing Club Paris. La sua stagione è funestata dagli infortuni, specie alle ginocchia. Gioca solo 4 partite, segnando comunque 2 gol. L’anno dopo il Racing lo cede all’Olympique Alès, una squadra occitana della Division 2: qui Joe mette insieme 15 presenze e altre 2 reti. Ma gli infortuni non smettono di tormentarlo e, anche se vivere in Francia gli piace, a un certo punto, nel 1953, decide di tornarsene a casa, ad Haiti, e di chiudere la carriera con il club delle sue origini, l’Etoile Haitienne, in cui gioca fino al 1957.
Fa in tempo anche a giocare, durante le qualificazioni per il Mondiale del 1954, anche una partita (persa) con la Nazionale di Haiti.
Poi, investe i suoi guadagni in una catena di lavanderie a secco e pensa a vivere come una persona comune, una persone perbene, con la moglie Liliane, i figli Leslie e Gerry e una casetta con il giardino, dove coltiva le rose, i ragazzi che allena o aiuta a studiare pagando loro libri e quaderni, se sono troppo poveri.
La sua storia, però, non avrà un lieto fine
Ad Haiti, dal 1945, gli avvenimenti si sono mossi sempre nella direzione che avrebbe portato a una dittatura militare, e questa dittatura arriva nel 1957, quando, in seguito a una tornata elettorale segnata da troppi condizionamenti, viene eletto presidente il medico Francois Duvalier, noto come “Papa Doc”, che, dopo altre elezioni politiche manipolate, rieletto nel 1964, si proclama presidente a vita e scatena la sua polizia segreta, i Tonton Macoutes (“Uomini spettro”), alla caccia degli oppositori, veri o solo presunti.
Tra questi oppositori ci sono i Gaetjens. Due dei fratelli di Joe, Jean-Pierre e Fred, hanno fatto propaganda per un altro candidato, Louis Dejoie, e questo basta a metterli in pericolo. I due non ci pensano due volte e se ne vanno nella Repubblica Dominicana, invitando il resto della famiglia a seguirli. Quasi tutti i parenti li seguono, ma non Joe. Joe pensa, ingenuamente, che non essendo direttamente coinvolto in alcun partito politico, non avendo mai svolto alcuna attività a favore di Tizio o contro Caio, nessuno se la prenderà con lui. Però, per sicurezza, fa trasferire in un posto sicuro moglie, figli e altri parenti, compresa la madre e la moglie del fratello Gèrard, che è stato già arrestato ma poi sarà rilasciato.
Dovrebbe essere più prudente, perché con i dittatori funziona una sola regola: se sei uno dei loro scagnozzi, ti è consentito tutto; se non lo sei, non ti è consentito nulla, spesso neanche vivere. Tanto più che a Papa Doc arrivano voci, non si sa quanto vere, per cui gli oppositori rifugiatisi nella Repubblica Dominicana starebbero preparandogli un colpo di Stato.
La mattina dell’8 luglio 1964, mentre si sta recando al lavoro, Joe viene sequestrato dai Tonton Macoutes. Non si saprà più niente di lui, né sarà mai ritrovato il suo corpo. Una serie insistente di voci sostiene che venne ucciso nella notte del 9 o del 10, nel cortile della prigione di Fort Dimanche, uno dei luoghi in cui venivano eliminati i prigionieri, ma non ci sono prove certe.
I suoi familiari cercheranno in ogni modo di avere sue notizie. A Capodanno del 1965, durante la Festa dell’Indipendenza Nazionale, la madre e la cognata Mireille riescono ad avvicinare addirittura Papa Doc in persona e a chiedergli di intervenire personalmente per Joe. Il dittatore promette che sarà rilasciato il giorno dopo, ma non succede nulla. Più tardi, un conoscente si fa avanti offrendosi di corrompere le guardie e farlo evadere, e così estorce loro 4.000 dollari, ma anche questa volta Joe non si vede.
Alla fine, si rassegnano al peggio. Solo nel 1968 arriverà la dichiarazione di morte presunta, uno dei tanti tra i 30.000 haitiani trucidati dagli sgherri di Papa Doc. Che muore nel 1971 e lascia il governo del Paese al corrottissimo figlio Jean-Claude (“Baby Doc”), deposto solo nel 1986.
I Gaetjens sono sostenitori del nuovo corso, difficilissimo e ostacolato dalle multinazionali, del presidente Jean-Bertrand Aristide. Il fratello maggiore di Joe, Gèrard, è stato ucciso in un attentato contro i sostenitori di Aristide nel 1990. Una sorella, Matho, fa attivamente politica nel partito di Aristide. Gli Stati Uniti ricorderanno Joe Gaetjens inserendolo nella loro National Soccer Hall of Fame, nel 1976.
Il “Miracolo di Belo Orizonte”, la partita del ’50 vinta dagli USA, è stato trasposto in un film dal cast stellare dal titolo: “The Game of Our Lives” (In campo per la vittoria) che ha avuto curiosamente pochissimo risalto internazionale. Sotto trovate il trailer in inglese: