Alessandro Gori, in arte Lo Sgargabonzi, ha recentemente pubblicato il libro “Jocelyn uccide ancora”, edito da Minimum Fax. Vanilla Magazine l’ha incontrato per voi nella sua città natale, Arezzo.

Come vivi il tuo rapporto con i tuoi haters e con i tuoi fan e a cosa si deve, secondo te, questa polarizzazione di pubblico? Lo Sgargabonzi si ama o si odia, senza mezze misure?”
A.G. Io non vorrei essere né amato né odiato: vorrei – e lo dico con grande educazione – essere lasciato in pace. Negli anni ’90 prima di interagire con qualcuno ci si facevano mille scrupoli: “Mi sa che ha avuto una brutta giornata e non vorrei stressarlo oltre”, “Non adesso dai, che sta mangiando tranquillo il suo Piedone Eldorado”, “Devo ricordarmi assolutamente di ridargli la penna Bic”. Oggi invece siamo tutti ironici, arguti, caustici. Il set base dell’interazione col prossimo sui social è cercare di infastidirlo, metterlo in difficoltà o come minimo punzecchiarlo. Oppure idolatrare qualcuno solo per accumulare l’energia cinetica che serve per fomentarsi una croccante delusione subito dopo. Io voglio che tornino i tempi dei vocalizzi educati di Leigh Nash dei Sixpence None The Richer.
“Nei tuoi libri, e Jocelyn non fa eccezione, vengono citate numerosissime celebrità, sia del passato che attuali (tanto per nominarne alcune: David Bowie, Nanni Moretti, Vinicio Capossela, Roberto Saviano, i Baustelle), catapultate nelle situazioni più assurde e alle prese con accostamenti di fantasia surreali. Ti è mai capitato che qualcuno di questi personaggi famosi ti abbia contattato incuriosito o magari infastidito?”
A.G. Mi è capitato con un personaggio particolarmente paranoico. Però ho avuto anche sorprese spettacolari, vedi Christian Raimo che mi ha dato il semaforo verde per renderlo protagonista di un racconto di rara cattiveria. Solo a libro pubblicato mi ha detto: “Non lo so se ti ridarei il nulla osta. Vederlo stampato su carta mi fa tutto un altro effetto”.
“In effetti fa ridere vederlo in un racconto che pare scritto da Bret Easton Ellis! A proposito di paragoni, la tua scrittura e il tuo stile sono stati accostati ad autori del calibro di Aldo Nove, Gadda, Rocco Tanica, addirittura David Foster Wallace. Il tuo genere tuttavia rimane indefinibile. Mi chiedo quali siano i tuoi riferimenti in campo letterario (se ne hai)?”
A.G. I libri che ho letto in vita mia sono pochissimi e per niente significativi. I miei riferimenti arrivano tutti da altri campi. I fumetti bonelliani, gli album degli Squallor, il cinema di Todd Solondz, i giochi da tavolo di Reiner Knizia. Non è assolutamente vero che per essere bravi scrittori bisogna essere voraci lettori. Magari aiuta, ma non è una legge. Anche perché penso che più impari cose più ne disimpari altre. Siamo tutti destinati ad essere album di figurine incompleti. E’ più importante essere curiosi, vivere in profondità le proprie passioni, essere refrattari agli automatismi di pensiero, al gioco delle parti e ai luoghi comuni, e soprattutto cercare di essere simili solo a se stessi.
“Una definizione che spesso viene data del tuo stile, e che in molte interviste hai dichiarato di non amare, è quella di un umorismo politicamente scorretto. Tu prendi le distanze da questa categoria, così come spesso hai rifiutato l’etichetta di “cinico”. Eppure i tuoi contenuti non sono per tutti, in diversi casi hai visto spettatori abbandonare indignati i tuoi live a metà spettacolo, quando non hai subito vere e proprie contestazioni dal pubblico. Chi si avvicina alle tue opere, cosa deve aspettarsi?”
A.G. Non ci si deve aspettare niente da uno che viene dalla Val di Chiana e ha i geni che sono l’onda lunga di tanti accoppiamenti fra consanguinei. Spero solo che abbia l’apertura mentale per capire che la comicità non è una pornografica somma di risate ma un atto libero, personale, liquido e astratto. A me piace intenderla come una crepa dove penetrare, armati solo di una scatola di cerini, per esplorare i nostri meandri. La comicità è sì consonante alla risata, ma non è detto che quest’ultima ne sia il fine. Spesso per me non ne è nemmeno il mezzo.
“Molti non sanno che sei laureato in psicologia. A che punto della tua vita hai capito che il tuo futuro non sarebbero stati ambulatori e lettini? E quanto i tuoi studi hanno influenzato la tua capacità di andare in profondità nell’animo umano, e la tua decisione poi di scriverne?”
A.G. Non ho imparato assolutamente niente sui libri di scuola. Mi sono laureato in Psicologia solo per prolungare l’adolescenza, ma non ho mai voluto fare lo psicologo. Se potevo copiare agli scritti lo facevo. E ho studiato solo in funzione degli esami. Mi dimenticavo tutto appena mi riconsegnavano il libretto. E per fortuna, direi. Ho sempre odiato studiare, pure quando ero il primo della classe.
È vero che odi essere fotografato e chiedi ai tuoi fan e ai tuoi amici di non pubblicare sul web foto e filmati che ti ritraggono? In un’epoca dominata dalla visibilità a tutti i costi, la scelta di non apparire paga, o a lungo andare rischia di limitare le tue possibilità? E come si concilia questo tuo senso del pudore con il tuo lavoro sul palco?”
A.G. Pensa che io la trovo una scelta così normale. Sono i cellulari puntati in faccia che sono una violenta e invadente anomalia diventata ambiente e che nessuno nota più. A me piacerebbe uscisse un decreto che si possono sì fare foto (ci mancherebbe), ma con un limite, ovvero che restano 70 foto che il genere umano può fare da qui alla fine dei tempi, poi basta. Se li gestisca come vuole. Hai presente quei bei vocalizzi educati di Leigh Nash in Kiss Me, quelle chitarre nitide e confortevoli del power-pop anni ’90? Siam sempre lì. A me piace palesarmi ma poi tornare nella mia tana, senza lasciare tracce, memore anche degli errori del Mostro agli Scopeti. Quando mi è stato proposto di scrivere per la televisione ho sempre rifiutato, non esiste che lascio il mio paesino, quello che mi piace, e che invece di scrivere le mie cose inizio a far riunioni.
“Quindi, in un’epoca in cui si fa a gara di visibilità, tu dici no alle foto, no alla tv. In più, hai una pagina Facebook che sembra la parodia di come andrebbe gestita una pagina, mentre sugli altri social sei quasi assente. In compenso organizzi con successo delle serate dove intervisti altri artisti dello spettacolo, della musica, e dove è centrale il dialogo (non più il monologo). È destinata a finire, secondo te, l’era dell’individualismo a tutti i costi?”
A.G. Penso che si diventi vecchi quando non si riesce più a fare il tifo per qualcuno di diverso da noi stessi. A quindici anni è naturale, a trenta già è una rarità, un errore di sistema. Io ho sempre avuto la fortuna di poter mettere le mie passioni come priorità su tutto e spero di continuare a farlo più a lungo possibile. Poter interagire con un cantante indie poco conosciuto che però io reputo un mito a me crea un’emozione che non ci dormo la notte. Quando in un mio live venne a vedermi il Dr. Pira, il geniale autore dei Fumetti della Gleba e del Gatto Mondadory, per me fu come essermi ritrovato davanti Noel Gallagher e Andrew Latimer dei Camel insieme.
“Ti abbiamo appena visto in uno spettacolo nella tua città Natale, ma sappiamo che giri molto. Dove potremo vederti live prossimamente?”
A.G. Sono legato profondamente alla riviera romagnola. Ho passato lì tutte le estati della mia vita. L’ho sempre trovata una terra poco compresa da noi toscani. Del resto la riviera romagnola parla solo a chi la capisce. Quando arrivo io trovo sempre un mare caraibico. E lo prego che resti così, non per me, ma perché il giorno dopo arriva un mio amico aretino che va al mare in Sardegna ed è già pronto a rompere i coglioni. Ma come quel mio amico arriva ecco che l’adriatico gli tira fuori sotto gli occhi mucillagini, siringhe e gabbiani morti. Che magicamente spariscono appena lui se ne va.
“Parlando di Riviera, mi viene in mente che negli ultimi anni le meduse sono diventate sempre più frequenti e diffuse in Adriatico. Queste creature mi affascinano e tempo fa mi ero documentato, scoprendo che esiste uno specifico esemplare di medusa, unico organismo di questo genere sulla faccia della Terra, in grado di tornare indietro nelle sue fasi e rigenerarsi praticamente all’infinito, ossia in parole povere immortale. Senza spoilerare il finale del tuo libro, quanto ti fa incazzare questa cosa, da 1 a 10?”
A.G. Mi fa incazzare fino a un certo punto. Io penso che anche noi non siamo tutti destinati alla morte. Voglio dire: ci sono sette miliardi di persone vive, mica bruscolini. E’ vero che ne sono morte tante di più, ma quelle vive non è che sono dieci o dodici: sono la bellezza di sette miliardi! E sono perfettamente vivi. Non è che sono morti ma vestiti da vivi come Bernie Lomax in Weekend con il Morto. No, sono vivi, punto. Sette miliardi. Ora, a te sembra realistico che sette miliardi di persone muoiano tutte? E’ come pensare che venga fatta un’elezione mondiale ed esce fuori che tutti hanno votato lo stesso simbolo: il Patto di Mariotto Segni. Improbabile, dai. E lo dico da scienziato.