Nata e cresciuta in una famiglia benestante di origini svizzere, nel lontano 1915, Irene Bernasconi compie una scelta di vita inconsueta per gli standard dell’epoca e del suo ceto sociale.
«Avevo scelto di fare scuola in un posto dove non vuole andare nessuno. Fra gente primitiva, bisognosa d’affetto; bambini anche sporchi, scalzi, stracciati: bambini vicini alla terra»
Irene lascia il suo verde Canton Ticino e si dirige a Palidoro, in quella stessa campagna romana che farà da sfondo alla tragica vicenda del brigadiere Salvo D’Acquisto.

Palidoro è flagellata dalla malaria e dalla povertà, ma Irene decide ugualmente di aprire la sua “Casa dei bambini secondo il metodo Montessori”, una scuola che accoglierà bambini di età compresa tra i 2 ed i 6 anni.

Scrive Irene nel suo diario: «Ero venuta tra questi derelitti che non sanno, non s’accorgono d’esser tali…».
E ancora, parlando dei suoi 36 piccoli alunni: «Le mamme avevano detto loro: la signorina ti mena se non stai buono, così ogni volta che mi avvicinavo per porgere loro un libro illustrato o un giocattolo, per parlare o per accarezzare i loro visi gialli e spauriti, essi alzavano bruscamente le braccia all’altezza del capo in atto di difesa!».
Sconsolata, Irene descrive anche i primi approcci al materiale scolastico: «Tutto vidi distrutto in meno di due ore!».
Quanto al pranzo: «L’apparizione della scodella di minestra fu salutata da un rumoroso picchiare di piedi, da manine protese: a me, a me! Ottenere il silenzio dai piccoli alunni è praticamente impossibile, come pure stare seduti o pulirsi!».

Irene, che ha un gran cuore, vuole aiutare questi sfortunati bambini e non demorde, anzi, si arma di pazienza, li osserva e, attraverso le sue parole, i piccoli alunni prendono vita: Irma, Assunta, Angelino, Anito, Giovannino, Peppiniello, Attilio, Augusto e tanti altri.
Irene decide che, oltre a nutrire i bambini di Palidoro e tentare di dar loro un’istruzione, insegnerà ai suoi piccoli alunni come lavarsi.
«Ho indossato un grembiulone da cucina e…avanti! Ho lavato loro il viso, il collo, gli orecchi, le mani e le braccia»

Ma su quei bimbi già così poveri e affamati si abbatte il flagello della malaria e del morbillo, che strappano a Irene ben 5 alunni. A proposito di questa tragedia, Irene scrive: «A Toto è morto un fratellino di pochi giorni e stamattina gli ho chiesto: “Ti dispiace che sia morto il tuo fratellino?”. “E’ meglio che sia morto se no dovevo sempre dormire sulla panchina col cappotto”»
Alcuni bambini come Augusto o Anito, che hanno solo 4 anni, all’inizio sono aggressivi, poi iniziano a cambiare: chiedono di lavarsi, imparano a colorare negli spazi, a scrivere e a contare.

«Oggi Remo ha scritto il proprio nome nel suo disegno, non riusciva ad aprire bocca e rideva, mi guardava con gli occhi lucidi. […] Checchiniello, Toto, Romeo e Remo hanno imparato a dire permesso. Anito s’è fatto buono, non bestemmia, non morde più! […] Alla fine di giugno Augusto si presenta in classe con fiori gialli e lillà: “tiè per quando te ne vai agliu paese teo”. Salì sul banco, mi gettò le braccia al collo e dopo essersi ben pulito il naso mi chiamò “Signorì” e si mise a piangere».

Irene farà ritorno in Svizzera e non rivedrà mai più i suoi scolari, ma affiderà alle pagine del suo diario i frammenti delle loro vite: tante piccole esistenze afflitte da povertà, lutti e dolori, ma, grazie a lei, più propense alla speranza in un domani migliore.