“Io, Olga Hepnarová, vittima della vostra bestialità, vi condanno a Morte”

Tra le notizie di cronaca nera più seguite dall’opinione pubblica, un posto di tutto rilievo è occupato dai delitti commessi da adolescenti e ragazzi. Non sono moltissimi, ma di quei pochi si parla sempre a lungo, con inevitabili, interminabili sequele di trasmissioni televisive di approfondimento, nelle quali un esercito di psicologi, criminologi e pedagogisti (di solito, sempre gli stessi) ripetono di continuo la medesima tiritera sulla società priva di veri valori (come se nelle società del passato i valori avessero mai contato qualcosa) e sulla scarsa attenzione che molte famiglie dedicano alla reale personalità dei figli (e su questo non hanno tutti i torti).

Probabilmente, molta parte del pubblico segue queste trasmissioni perché le trova autoassolutorie. Nel senso che si può essere stati pessimi genitori o pessimi figli, o entrambe le cose, però non si è mai arrivati ad ammazzare i propri familiari stretti, nemmeno quando si avevano buone ragioni per farlo, quindi tutto sommato non bisogna sentirsi troppo in colpa.

Sotto, il video racconto dell’articolo sul canale Youtube di Vanilla Magazine:

In realtà, nei delitti che coinvolgono i giovani, le famiglie c’entrano fino a un certo punto. In alcuni casi, il contesto in cui cresce un essere umano è talmente disfunzionale da non lasciargli altra possibilità se non diventare un violento e un criminale, ma non sono casi comuni. In altre occasioni, il delitto diventa per l’adolescente l’unica via d’uscita da una situazione altrettanto disfunzionale, che gli impedisce di avere qualsiasi prospettiva futura: pensiamo ai giovani oggetto di continui maltrattamenti familiari o testimoni di continui maltrattamenti ad altri.

La società nel suo complesso si ritrova messa sotto accusa nei casi come quello che coinvolse, nel 1991, il giovane veronese Pietro Maso, assassino di entrambi i genitori con la complicità di tre amici più giovani e, verosimilmente, da lui plagiati. La futilità del movente (ereditare le sostanze di famiglia per darsi alla bella vita), maturato in un contesto di opulenza economica e ipocrita moralismo provinciale, sembrò sollevare il velo su una realtà da tempo denunciata da tutti gli studiosi, quella per la quale nella società borghese occidentale si viene allevati nel culto di un solo dio, il Dio Denaro.

L’arresto di Pietro Maso

Immagine di pubblico dominio

Il che forse è vero, ma potrebbe non essere stato l’elemento decisivo per armare la mano assassina. Il fatto che Maso, una volta libero, dopo aver scontato gran parte della pena ed essere passato per un complesso percorso riabilitativo abbia continuato ad avere problemi con la giustizia e con la propria vita, fino a essere ricoverato in una clinica psichiatrica, porta a pensare che nel suo comportamento potesse esserci anche qualcosa di patologico.

Non è il solo caso in cui si palesa una simile realtà. Se ne può citare uno più clamoroso, risalente a un decennio prima.

Nel 1981, il giovane veneziano Roberto Succo uccise i genitori in modo particolarmente barbaro. Durante il processo, le perizie psichiatriche accertarono che il ragazzo era affetto da schizofrenia paranoide, e si decise quindi di internarlo per almeno 10 anni in un ospedale psichiatrico giudiziario a Reggio Emilia.

L’arresto di Roberto Succo nel 1981

Immagine di pubblico dominio

Succo sembrò rispondere benissimo alle terapie: non solo fu un detenuto modello ma riprese con buon successo gli studi. Ma nel 1986, in permesso per sostenere un esame all’università, scappò e se ne andò in Francia, dove uccise cinque persone scelte a caso. Poi, attraverso la Svizzera tornò in Italia e venne arrestato di nuovo; tentò una improbabile evasione e, infine, momentaneamente detenuto nel carcere di Vicenza, si uccise soffocandosi con un sacchetto, nel 1988.

Questi racconti non devono peraltro far perdere la fiducia nella validità dei percorsi rieducativi, portati avanti dalle autorità giudiziarie in collaborazione con quelle sanitarie. Il numero di giovani criminali violenti riabilitati è enormemente più alto di quello dei giovani criminali violenti recidivi, solo che i secondi fanno sempre notizia, mentre i primi passano inosservati.

Tra i casi di adolescenti responsabili di gravi delitti familiari che nel tempo sono pervenuti a una completa riabilitazione, si possono citare le protagoniste di due delitti spaventosi, Erika Di Nardo (nel 2001, a Novi Ligure, insieme al suo ragazzo, uccise la madre e il fratello minore) e Doretta Graneris (nel 1975, a Vercelli, pure lei insieme al suo ragazzo, uccise i genitori, il fratello e i nonni).

Doretta Graneris nel 1975

Immagine di pubblico dominio

La questione è, dunque: quando possiamo identificare una serie di concause esterne che possono aver indotto il giovane assassino a commettere il suo delitto e quando, invece, in presenza o meno di altrettante concause, il delitto sarebbe maturato comunque, se non in quella specifica occasione, in un’altra, perché il giovane nascondeva dentro di sé delle turbe che prima o poi sarebbero esplose in ogni caso?

In questo senso, l’appello alla maggiore attenzione da parte delle famiglie non è mai fuori posto. Quanti genitori si rendono intimamente conto, ma poi negano di fronte agli altri, che il proprio figlio ha qualche problema comportamentale serio?

La follia, la malattia mentale, rappresenta ancora oggi uno stigma che nessuno è disposto a portare volentieri. Un matto in famiglia, in certi casi, significa essere guardati con sospetto e segnati a dito alle spalle, perché non si sa mai che la follia possa essere congenita o ereditaria. Oppure l’ammissione che il figlio ha problemi può essere interpretata come la dichiarazione di non saper essere stati buoni genitori.

Magari il figlio, se andasse da uno specialista, potrebbe rivelare delle cose vergognose o essere addirittura sottratto alla famiglia stessa per finire in mano a chissà chi. In realtà, l’ordinamento giuridico prevede l’allontanamento dei figli da casa solo in casi estremi ma quando prevalgono i “si dice”, “si è visto a Striscia la notizia”, “l’ho letto sui social”, non ci sono spiegazioni che tengano.

Né si può pensare che eventuali “vizietti” di un genitore debbano per forza avere la conseguenza di far perdere la ragione ai figli. Solo in Italia si consumano tanta di quella prostituzione e tanta di quella pornografia che, se davvero esistesse un collegamento, gli adolescenti italiani dovrebbero commettere decine di stragi ogni giorno. Evidentemente, salvo i casi di abusi (che sono ben altro ma sono anche molto più rari) il collegamento non esiste, quindi l’argomento non riveste il minimo interesse per il terapeuta che dovesse occuparsi di un ragazzo con problemi.

Ma questa mentalità diffidente e chiusa è dura a morire e i potenziali giovani assassini che potrebbero essere scoperti e curati prima di nuocere sono quasi sempre abbandonati a sé stessi.

Dopo però, tutti chiedono la testa del giovane criminale, sulla base della sgangherata teoria per la quale, dando retta agli psichiatri, nessuno sarebbe da ritenersi responsabile e tutti sarebbero da assolvere.

Sull’importanza, per la nostra civiltà, del riconoscimento dell’infermità mentale come causa di assoluzione, quando attesta l’incapacità di intendere e volere, abbiamo già parlato a proposito di uno dei primi delitti che sollevarono ufficialmente la questione, quello di Pierre Rivière del 1835.

Non tutti i Paesi del mondo hanno recepito questa esigenza nello stesso tempo, alcuni non l’hanno proprio recepita e non sono stati affatto rari i casi, anche in tempi recenti, di esecuzioni capitali di criminali affetti da seri disturbi mentali. La documentazione al riguardo è ricca soprattutto per quanto riguarda gli USA, ma sicuramente lo stesso accade in tutti i Paesi in cui è ancora in vigore la barbara legge del taglione.

La storia che raccontiamo oggi si svolge invece in un Paese che la pena capitale l’ha abolita appena si è liberato dal giogo della dittatura, ossia nel 1989.

La storia di Olga Hepnarova

In Cecoslovacchia – stimate per difetto perché le cifre relative al tempo dell’occupazione nazista non sono certe – circa 1200 persone sono morte per mano del boia, dal 1918 al 1989. La maggior parte di esse per ragioni militari o politiche, come Milada Horáková sopravvissuta alla deportazione nazista per finire impiccata nel 1950 dopo un processo farsa. Più raramente per delitti comuni. Poche le donne. L’ultima, si chiamava Olga Hepnarová e fu impiccata nel 1975.

Era giovanissima ed era schizofrenica

Olga Hepnarová, nata il 30 giugno 1951 in una famiglia benestante, aveva cominciato a dare segni di squilibrio già da molto giovane, cosa che aveva molto influito sulla sua difficile carriera scolastica. Aveva un rapporto difficilissimo con il padre e la sorella maggiore, mentre la madre cercava in tutti i modi di sostenerla, sebbene ricambiata con sempre maggiore odio. Alla difficoltà di trovare una sistemazione soddisfacente, rendendosi finalmente indipendente, si sommava una sessualità non ben definita, oggi diremmo fluida, che la portava ad avere rapporti sia con uomini sia con donne (preferibilmente con queste ultime), ma mai stabili.

Nel 1970, Olga cercò di uccidere padre, madre e sorella durante una vacanza in campagna, facendo esplodere delle bombole di gas nel cottage in cui dormivano. I familiari però si svegliarono in tempo e riuscirono a salvarsi, avvalorando poi la versione per cui l’esplosione e il successivo incendio sarebbero stati accidentali.

Avendo trovato un lavoro come autista, Olga se ne andò a vivere lontano dalla famiglia, in un ostello. La sua situazione non migliorò. Da che era convinta che i familiari ce l’avessero con lei e tramassero per ucciderla, si convinse che a volerla morta fosse l’intera umanità. Lasciò diversi scritti in cui esponeva questi pensieri paranoici e cercò a lungo, inutilmente, di procurarsi un’arma da fuoco per “difendersi”.

Nel 1973 arrivò al punto di rottura. I genitori le avevano messo a disposizione una casetta in campagna in cui ritirarsi. Vi andò nell’estate, ma solo per lasciare lì la sua auto, una berlina Trabant di fabbricazione tedesca, con cui fino ad allora aveva avuto un legame morboso. La mattina del 10 luglio doveva sostenere, a Praga, l’esame per la patente che l’avrebbe abilitata a guidare anche i camion e, per farlo, ne affittò uno, modello Praga RN. Prima di partire, però, spedì a due agenzie giornalistiche internazionali una lettera, nella quale dichiarava di non poter più vivere nel terrore di essere uccisa e che, prima di cadere vittima di qualcuno, avrebbe ucciso lei. Concludeva, in tono delirante, con la frase

“Io, Olga Hepnarová, vittima della vostra bestialità, vi condanno a morte”

Sostenne e superò l’esame, poi sembrò che volesse tornarsene a casa. Alle 13:30 arrivò in piazza Strossmayer, dove un gruppo composto da circa 30 persone stava aspettando il tram alla fermata e, all’improvviso, accelerò al massimo e diresse il camion contro di loro.

Tre persone restarono uccise sul colpo, altre tre morirono nel corso della stessa giornata e altre due nei giorni successivi, per un totale di otto vittime. Ci furono anche dodici feriti, sei dei quali destinati a rimanere invalidi.

Olga non si era fatta niente e fuggì dal mezzo, inseguita dai passanti. Questi, in realtà, credevano che avesse perso il controllo del camion accidentalmente e che stesse fuggendo in preda allo choc. La raggiunsero e cercarono di confortarla, ma lei si mise a ripetere i suoi discorsi paranoici, per cui venne immediatamente arrestata.

Foto: Národní archiv

Il processo durò diversi mesi, tra perizie e controperizie psichiatriche. Non fu certamente equo, perché lo stato patologico di Olga era fin troppo evidente. Ma l’opinione pubblica era contro di lei, che continuò, anche durante le udienze, a ripetere discorsi paranoici, ad esempio dichiarando di essere dispiaciuta solo di due cose: la prima, di aver ucciso così poche persone; la seconda, che i suoi familiari non fossero tra le vittime.

La scena del crimine, con il camion a sinistra

Foto: Archiv bezpečnostních složek

Alla fine, fu dichiarata capace di intendere e volere, giudicata colpevole e condannata a morte, il 6 aprile 1974.

Per undici mesi, i genitori riuscirono a far differire l’esecuzione, proponendo appelli a tutte le corti possibili e infine chiedendo la grazia, che fu rifiutata.

Olga fu impiccata nel carcere praghese di Pankrác, il 13 marzo 1975

Il suo fantasma agita ancora qualche coscienza, da quando il silenziatore della dittatura è stato eliminato.

Nel 2006 Viktor Kalivoda, un poliziotto che aveva commesso una strage uccidendo tre persone a caso, dichiarò di essersi ispirato a lei (condannato all’ergastolo, si uccise in carcere).

Lo scrittore ceco Bohumil Hrabal, noto anche in Italia, nel 1990 scrisse un romanzo, “L’uragano di novembre”, in cui immaginava il boia che aveva impiccato Olga sconvolto dall’esperienza fino a diventare un attivista per l’abolizione della pena capitale.

Nel 2016 le è stato anche dedicato un film, una produzione internazionale diretta da Petr Kadza: non è mai arrivato in Italia, ma ha ottenuto un buon successo e diversi riconoscimenti all’estero.


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