Dal punto di vista religioso la Sardegna ebbe una vita molto movimentata. Fu investita da molte culture, che andarono ad assemblarsi, scontrarsi e convivere durante le molte dominazioni che la segnarono. Dal paganesimo nuragico a quelli greco, fenicio, romano, passando al cristianesimo romano e vedendo, poi, influssi ortodossi, ebraici e musulmani.
Con non poche difficoltà la retta dottrina riuscirà a penetrare nell’isola. Le autorità aragonesi ed ecclesiastiche cercheranno di imporre il cattolicesimo, accolto in varia misura dagli isolani, che sovente tendevano a intrecciarlo con le pratiche tradizionali, alcune delle quali arrivavano addirittura dal periodo nuragico.
Il confronto tra le tradizioni sarde e la religione cattolica si esprimerà efficacemente con l’arrivo dell’Inquisizione, che cercherà di imporre i giusti dogmi su questo mondo prevalentemente rurale, abitato da un popolo superstizioso e dedito alla stregoneria, ricorrendo anche alla tortura (che non era una pena – difatti vigeva la presunzione di colpevolezza – serviva piuttosto a ottenere le prove del reato) pur di estorcere le confessioni sui patti conclusi tra streghe e diavolo (ciò che effettivamente interessava agli inquisitori, la fede in altro rispetto a Dio, impuntandosi più a sradicare le credenze non cattoliche che a credere ad atti di stregoneria vera e propria, a voli su scope, trasfigurazioni e adunanze sataniche, pur non escludendoli a priori). Peccati gravissimi che andavano espiati innanzitutto con la penitenza pubblica, sfilando scalzi nella piazza vestiti di una tunica e un cappello conico, con frustate, procedendo a dorso d’asino dalla città al paese di residenza.
Le pene non furono semplici punizioni, ma penitenze da assolvere per ottenere il perdono. Ebbero, dunque, un fine pedagogico mirato all’estirpazione delle false fedi e dei falsi riti e alla reintegrazione nella comunità cattolica dei penitenti, i quali dovevano assistere alla lettura delle sentenze e alla messa di fine processo. Se il penitente abiurava veniva riconciliato, se rifiutava finiva sul rogo. Abbastanza frequenti furono gli esili per tempi più o meno lunghi (gli uomini divenivano rematori nella galere spagnole) e le multe, utili per sostenere le spese dei tribunali.
Pur di evitare il rogo si raccontava qualsiasi cosa, forse anche sotto consiglio degli avvocati difensori. Ciò rende difficile stabilire quali fossero realmente le credenze degli imputati, che dichiaravano di aver stretto patti col demonio e aver avuto rapporti sessuali con esso in occasione delle sue visite sotto forma di uomo adulatore, particolarmente avvenente e dai modi garbati. La sua colpa stava nel tentare le sue vittime e portarle a rinnegare Dio, per diventare oggetto di adorazione. Ciò che portava le sue adepte in tribunale erano, ufficialmente, i rituali che compivano sotto il suo nome, anche se in realtà le cause alla base delle denunce erano principalmente paura e vendetta da parte di compaesani e altri processati.
Simbolo dell’Inquisizione:
La proclamazione, nei villaggi, degli editti di fede, elenchi dei delitti perseguibili e obbligo di denuncia, era l’occasione ideale per una rivalsa verso i nemici. Nondimeno anche la paura giocava un ruolo importante. Le denunce venivano raccolte durante le confessioni obbligatorie, e chi non denunciava rischiava di non venire assolto o anche la scomunica. Bastava poco per rischiare di essere denunciati. I più colpiti furono coloro che ricorrevano a riti “magici” e fatture.
Non di rado ci si rivolgeva a donne di grande sapere per risolvere questioni di vario genere, accluse nella sfera amorosa, in quella della salute e persino della fortuna. Facendo ricorso a queste pratiche si poteva pensare di uccidere, devastare i raccolti, spazzare via il bestiame, scatenare gli elementi. Era questo che i popolani denunciavano, disinteressandosi di ciò che importava veramente alla Chiesa, il patto col diavolo e l’apostasia. Non è un caso che se la “magia” giungeva in soccorso delle persone laddove la medicina falliva o non arrivava, essa non essendo efficace destava il risentimento di chi si affidava ad essa. Quando le pratiche non sortivano gli effetti sperati, provocavano frustrazione nei “pazienti”, che sentendosi imbrogliati e truffati (i riti erano molto costosi) potevano denunciare l’accaduto a una Chiesa ben lieta di accogliere le loro rimostranze, vedendosi riconosciuto un potere superiore a quello delle streghe, che con troppa audacia si arrogavano i compiti che per volere di Dio erano prerogative del clero. Dalle indagini dell’Inquisizione scaturivano intrecci culturali particolari.
Un certo Elia Pira, ad esempio, soffriva di forti dolori, a suo dire causati dall’acqua bevuta a casa del suo compaesano Baingio Usai. Per questo si affidò a Giulia Carta, nota fattucchiera, che praticò un “suffumigio facendo bollire nel vino, nell’acqua santa e nell’urina tre pezzi di tegola di chiesa, tre pezzi di pietra pomice, polvere nera, palma benedetta, rosmarino, ruta e fili d’oro”.
Successivamente dispose, sopra una tegola con braci, altri oggetti. “Dalla tegola si levano fiamme scure che Giulia Carta interpreta, ad alta voce, come un segno della malattia che si allontana”. Il rito si svolgeva in concomitanza della fase di luna calante e in un giorno di numero pari, quando le forze del male erano più deboli. Elementi cristiani e pagani si intrecciavano in una pratica originale: il potere sacrale di un frammento di chiesa, dell’acqua santa e della palma benedetta, la purezza dell’oro; il rosmarino, pianta con proprietà antinfiammatorie, già usata dagli antichi greci, così come la ruta, pianta medicinale e scaccia-spiriti.
Goya, Scena da una Inquisizione:
Ogni cosa aveva un significato ben preciso per quelle persone, che trovavano nella combinazione dei vari elementi una miriade di modi per liberarsi dal male. La conoscenza di queste pratiche era ereditaria, tramandata quasi sempre di donna in donna. Le insegnanti istruivano le proprie allieve sulle pratiche e sulle formule (berbos) da recitare durante le funzioni, frasi rituali costituite soprattutto da scongiuri, preghiere (anche cristiane) e invocazione di Santi, in particolare la Vergine e Santa Margherita, protettrice delle donne in travaglio, secondo il clero insegnate in origine dal demonio.
Talvolta potevano consegnare in dono anche del materiale utile, come successe ad Antonia Orrù, recatasi a Nurri per chiedere la guarigione del nipote, che ricevette in regalo dalla sua maestra dell’olio santo. Questo non era poi così difficile da procurarsi: bastava avere abbastanza denaro (di qui l’alto costo dei rituali) per comprarlo dai chierici che imbastirono un mercato nero di prodotti sacri: ostie, olio e acqua benedetta (nella quale si colava il piombo fuso, che dava forma a varie figure nelle quali si leggevano presagi), pur di vivere in modo più agiato rispetto ai poveri abitanti dei villaggi.
I frati talvolta si recavano nelle chiese per compiere fatture: “dopo aver consumato l’Eucarestia, prima di purificare il calice, mischiò la farina e il pezzo di carta con il sangue (eucaristico), impastò tutto con l’acqua e il vino delle ampolline e fece degli amuleti assieme a una donna” che poi vendevano. Neppure gli uomini di fede erano, dunque, immuni alla tentazione. Molti preti accoglievano nelle chiese ladri e banditi, sfruttando il diritto d’asilo, spartendo con loro il bottino, praticando il contrabbando e falsificando il denaro.
I santi svolgevano un ruolo fondamentale, spesso uniti al culto dell’acqua di matrice nuragica. Molte fonti d’acqua, già importanti nel periodo delle grandi costruzioni in pietra, vennero rinominate con nomi di Santi e investite di poteri taumaturgici, come le fonti di Santa Lucia, protettrice della vista e castigatrice dei delinquenti, che poteva rendere cechi. Ciò rimanda alla più tarda ordalia, secondo cui i colpevoli di un crimine, se immersi nelle acque sacre, venivano accecati. La Chiesa spiegava, invece, la perdita della vista con l’intervento del diavolo, anch’esso associato ai corsi d’acqua, in prossimità del quale, sotto il nome di Santoro, uccise il marito di Pasca Serrau (avvenimento che riporterà in tribunale), reo di aver tradito il loro legame mentre lo aiutava a badare alle vacche.
Ma non erano solo le rive dei torrenti i luoghi privilegiati dal diavolo o dai demoni (ogni imputata riportava un nome diverso). Esso era associato anche ai boschi, dove lo si poteva chiamare a mezzogiorno suonando lo zufolo di canna. Ciò rimanda al culto di Pan, il dio dei boschi, luoghi favoriti dal diavolo come palcoscenici dei Sabba, riunioni degli adoratori del demonio, durante i quali ci si abbandonava ai più svariati peccati: balli, canti, grandi banchetti, bestemmie e lussuria più sfrenata. Non è un caso se la Chiesa condannò il ballo tondo, praticato girando e cantando in cerchio durante le festività in onore del santo da celebrare, ove uomini e donne “mescolati assieme e intrecciati gli uni con gli altri con le mani… ballano fino a provare persistenti sensazioni di piacere o a cedere alla stanchezza”. Le feste dovevano svolgersi nell’austerità e non essere occasione di bagordi. Ma di questo i sardi parevano non curarsi, nonostante lo facessero per celebrare il Santo, al quale dedicavano dei voti, come digiunare, recarsi a piedi nelle chiese e accendere candele, preferendo abbandonarsi agli eccessi, spesso col consenso e la partecipazione dei parroci locali, cantando e ballando dal giorno alla notte dentro le chiese campestri, dove consumavano banchetti e si ubriacavano, cedendo poi alle tentazioni della carne, corruzione, quest’ultima, molto gradita sia a laici che a ecclesiastici, sovente dediti al concubinato (del quale molti si vantavano) e alla bigamia.
Il papa e l’inquisitore, di Jean-Paul Laurens, 1882, Musée des Beaux-Arts (Bordeaux):
Pur di avere l’amante desiderato ci si affidava anche alla magia: si praticavano “orazioni rivolte al sole e alla luna… nel giorno di San Giovanni”, unzioni con l’olio santo (che i preti consegnavano anche come rimedio per disfunzioni erettili, da applicare sull’organo genitale), si davano da mangiare erbe “nel nome del diavolo e dello Spirito Santo”. Vi erano persino rimedi contro le violenze: bere polvere di ossa umane rendeva deboli i mariti, non più in grado di maltrattare le mogli. Il carnevale era la festa dell’eccesso per eccellenza, dove c’era chi “andava mascherato e faceva segni di croce mettendo la mano sul membro virile, passando alla gamba destra e toccandosi la sinistra”, o chi girava a cavallo vestito da ecclesiastico “dando benedizioni con la mano a forma di fiche… accompagnato da un’altra persona mascherata da donna che indicava qualcosa di indecente fatto di legno”. Alla fine dei festeggiamenti toccava ai preti accogliere le moltissime persone che avevano commesso peccati o infranto i divieti posti dagli stessi chierici, per confessarle e assolverle.
La Sardegna era dunque teatro di continui mescolamenti culturali che davano forma a pratiche sempre nuove (talvolta aiutate dal basso clero locale), che l’alto clero cercava di combattere mediante divieti, punizioni e penitenze. La retta dottrina venne tal volta ben accolta, altre volte osteggiata consapevolmente o ingenuamente, o addirittura sfruttata per ottenere guadagni personali: accuse mosse dal desiderio di vendetta, contro-accuse lanciate per alleggerire la propria posizione, dichiarazioni false su patti e rapporti intrattenuti col diavolo rilasciate sotto consiglio degli avvocati e per paura di essere torturati e uccisi. Vi era anche chi per arricchirsi, sfruttando il timore delle persone, si spacciava per ministro del Sant’Ufficio. Nei tribunali nascevano i racconti sui patti col diavolo, che servivano a spiegare la messa in pratica di alcuni riti, malattie improvvise e inspiegabili che colpivano gli accusatori, morti sospette di uomini ma soprattutto di bambini, spesso casuali ma addebitate alle levatrici, sovente incastrate da quella “fama pubblica” che aleggiava sopra di loro. D’altronde non vi erano molti modi per evitare la tortura e il rogo: fare il nome del diavolo e ammettere il patto era ciò che poteva salvarle da una fine atroce. Di fatto l’Inquisizione non puntava allo sterminio degli eretici, ma al loro pentimento e all’abiura, decisamente più utili allo scopo di diffusione della fede e di organizzazione di una società cristiana osservante della retta dottrina sotto il segno del Papa, del Cristo e di Dio.
Fonti:
Cultura Popolare in Sardegna tra ‘500 e ‘600 (Salvatore Loi);
Inquisizione, Magia e Stregoneria in Sardegna (Salvatore Loi);
Inquisizione, Sessualità e Matrimonio. Sardegna, Secoli XVI-XVII (Salvatore Loi);
Storia di una Strega, l’Inquisizione in Sardegna. Il Processo di Giulia Carta (Tomasino Pinna).