Oggi chiunque deturpi o imbratti cose mobili e immobili è punibile dalla legge, ma è sempre stato così ? Disegni allusivi, commenti, illustrazioni: i graffiti nascono con l’uomo. Fin dal Paleolitico Superiore l’essere umano ha sentito l’esigenza di usare le pareti per comunicare, famose le grotte di Lascaux con disegni e simboli, forse con l’intento di un complesso rito religioso che non cogliamo.
Nella romana Pompei, invece, alcune incisioni lasciate sui muri, di religioso avevano ben poco. Pensiamo al commento sotto il muro “CACATOR SIC VALEAS UT TU HOC LOCUM TRASIAS” (cacatore, possa tu stare cosi bene da passare oltre questo luogo).
Cosa dire della prima recensione stile tripadvisor della storia: “MIXIMUS IN LECTO FATEOR PECCAVIMUS HOSPES SI DICIS QUARE NULLA MATELLA FUIT” (Pisciammo nel letto. Lo riconosco, abbiamo sbagliato, (mio) ospite. Se chiedi perché, non c’era nessun vaso da notte”.
Tristi lamenti o sagaci versetti, come il romantico romano che incise: “VOS MEA MENTULA DESERUIT DOLETE PUELLAE PEDICARE VOLO CUNNE SUPERBE VALE” (Il mio pene – in volgare – vi ha abbandonato; doletevene, o ragazze; voglio fare il pederasta. Fica superba, addio!).
Con il Medioevo si diffonde una nuova versione: la pittura infamante, e compaiono sulle case dipinti di traditori appesi e rime come didascalie. Curioso il caso del 1344 quando i fiorentini fanno dipingere il duca d’Atene e sotto fecero scrivere “Avaro, traditore e poi crudele /lussurioso, ingiusto e spergiuro / giammai non tenne ilsuo stato sicuro”. Ancora a Siena nel 1391 comparvero questi versi “A te volò il cervello” o “ sucìna mangia il padre, ch’al figliolo / alega e denti” per concludere con “Non è usanza de li contadini entrare in ballo co’ li citadini”.
Durante il Rinascimento si continuò appendendo versi a muri, pilastri e statue. Celebri quelli lasciati di notte sul busto della statua romana in Piazza di Pasquino, vicino a piazza Navona. Contro Papa Urbano VIII Barberini comparve il cartello con la scritta:
Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini
Niccolò Franco, scrittore e avventuriero fu preso dopo aver prodotto un capolavoro “Pio V, avendo compassione / per tutto quel che si ha sullo stomaco / eresse come opera nobile questo cacatorio”.
Ovviamente gli costò la testa
Non solo artisti, ma anche aristocratici annoiati, amanti traditi, vicini infastiditi. La Repubblica di Venezia non fu da meno e sul colonnato di Rialto e sulla statua del Gobbo di Rialto, nei pressi del Ponte di Rialto, comparvero fin dal 1532 versi satirici, caricature, libelli. Un anonimo dedicò al celebre architetto Palladio questi versi “Non va il Palladio per mal a puttane / che se pur qualche volta suoi andar / lo fa perché le esorta a fabbricar / un atrio antiquo in mezo a Carampane (prostitute anziane)”.
Al pittore vicentino Giambattista Maganza “El Maganza carogna è in questa cassa / poeta goffo, e pittor da do soldi / fiol d’un zaffo (poliziotto) e re di manegoldi / viator, turate il naso e guarda e passa”.
Il dissenso politico tra il Seicento e il Settecento viaggia sulla scrittura:
Oltre ai cartelli, molti infilano foglietti nei bossoli della votazione in Maggior Consiglio o in Senato
Nel 1630 qualcuno prende di mira il procuratore Sagredo e fa trovare il 20 giugno in Piazza San Marco il cartello con su scritto “El Boggia Pianze e la Giustizia dorme allegramente Boggia la giusticia no saggia. Pianziste torsi la morte del ebreo no ma tardar tanto el Gieneral Sagreo”.
Altro cartello contro lo Stato veneziano, pur senza tante rime, venne ritrovato una mattina e recitava “Dennari et amicicia caccio in cullo alla Giusticia / La Giustitia et chi la precia / Dico quella di Venetia / E chi nol crede sono / bestie fotude perche la / prova cotidiana il mostra / ma dio fara vedetta.”
Nel 1751 a Murano eleggono un nuovo parroco e così il giorno dopo compare il classico in rima: “ Un podestà che magna / Tre Piovani mal fatti / ricchi, e poveri matti / cancellier, che si lagna /questa è la descrizion / chi più de mi ghe penza è un gran cogion”.
E quando si trattava di eroi l’arte non si frena, contro Angelo Memo scrissero il sonetto “Alle gloriose gesta dell’eccellentissimo Provveditor General Angelo Memo / ladro, ardito, felon, furbo, rapace / Scelerato, crudel, iniquo, e vio: / ignorante, superbo, empio vorace / senza fede, o pietà, nimico à Dio” continuando per poi concludere “A come Aseno, N come Negoziante ingordo Z come Zavagion O come Orsso L come Ladro O come Odioso M come Magnion di sangue umano E come Empio M come Maligno e O come Obbligar a non parlare”.
A volte, per render meglio il verso, lo si abbinava a qualche disegno. Sotto questo aspetto troviamo nei vari archivi molto materiale. Celebre fu quello rintracciato dalla dott.ssa Michela Dal Borgo in un processo del Sant’Uffizio risalente al 1566. Il cartello fu trovato sulla porta della casa del prete Francesco di Allegri, Canonico di San Marco e che rappresentava un grande fallo con al centro la scritta “Questo Cazzo in culo al vescovo, et l’altro al magnifico podestà, i quai sono i dui cuionj di questa magnifica nostra città”.
Di tutt’altra natura sono i vari graffiti sparsi per la città: pensiamo a quelli presenti al Fondaco dei Tedeschi, oggi store di lusso, al tempo luogo di mercato dove annoiati personaggi anonimi si divertirono ad incidere firme, croci, giochi vari.
Presso la Scuola Grande di San Marco, ovvero ciò che oggi è l’Ospedale civile, sono presenti sugli stipiti numerosi velieri, altro tema che si può rintracciare sulle pareti dei “tezoni” ovvero magazzini del Lazzaretto Nuovo, isola della Laguna Nord.
A San Marco, lungo le procuratie nuove, in molti si son divertiti a scrivere in rosso slogan sui dogi da eleggere. Di fronte al Florian vi è la scritta in rosso amaranto “Viva San Marco – Viva la Repubblica”.
Le pene spesso erano più simboliche che concrete. Premettendo che il reato non era certo il deturpare la città, piuttosto la diffamazione. Per fermare l’esuberanza dei giovani rampolli di famiglia poteva capitare che i genitori facessero appello per una buona condotta e le istituzioni inviassero i giovani aristocratici qualche mese al confine in Dalmazia o nella fortezza di Palmanova. Capitava anche che li facessero dormire qualche notte ai piombi, giusto per poi elencare le possibili pene se mai avessero continuato con il loro comportamento. Se il cartello infamante era contro lo Stato rischiavano il bando a tempo o un anno di carcere, più una cospicua somma da versare.
Il 21 gennaio del 1716 gli Inquisitori di Stato, massimo organo di controllo, decretano che il giovane nobile Girolamo Bembo fosse consegnato a suo padre e spedito fuori città per tre mesi senza che si sapesse dove fosse.
Cos’aveva combinato?
Dopo aver consumato con una meretrice le aveva preso per scherzo e portato via la vestaglia da letto facendo agitare la donna che urlando dalla finestra aveva messo in allerta tutta la contrada di Santa Maria Formosa. Qualcuno inseguì il nobile che spaventato si rifugiò nella bottega di un certo Evangelista. Trovandosi smascherato si fece riconoscere e restituì la vestaglia, non prima che lo stesso Evangelista decidesse di avvisare gli Inquisitori di Stato. Dopo averlo fatto passare sotto i famigerati piombi di palazzo Ducale lo consegnarono al padre, con le istruzioni sopra dette. Oggi qualcuno potrebbe dire “son solo ragazzate”.