Il Suicidio: estrema forma “d’Arte” Giapponese

I Giapponesi sono un popolo che, ai nostri occhi, non può che sembrare particolare. Simile eccezionalità induce non poche persone ad avere un atteggiamento ambivalente verso la loro cultura. Profonda stima in certe dinamiche (senso civico, educazione, rispetto), perplessità in altre (rigidità comportamentale, eccessiva sottomissione ai superiori).

Comunque la tradizione più difficile da comprendere è quella del suicidio. I giapponesi sono stati gli unici nella Storia ad aver reso questo atto disperato qualcosa di molto simile a una forma d’Arte. Il jisatsu era talmente qualcosa di naturale che persino un cristiano come lo scrittore Inazo Nitobe lo condivideva, definendolo un “atto nobile”. Le ragioni più probabili di simile attitudine risiederebbero nelle due religioni del Giappone. Quella più antica, lo Shintoismo, vede nell’Aldilà (Yomi-no-kuni) un mondo migliore dove ci si tramuta in spiriti e la più recente, il Buddhismo Zen, predica il principio della transitorietà della vita e, di conseguenza, la noncuranza della morte.

Sotto, Inazo Nitobe (1862-1933)

Lo psichiatra di fama mondiale Miyamoto Masao ha sostenuto che “i giapponesi non vedono nel suicidio qualcosa di male, essendo diventato parte dell’estetica e del comportamento socialmente accettato”. Perciò, nella lunga storia del Sol Levante, si idearono svariati modi per darsi la morte. Oltre al famoso Seppuku (volgarmente harakiri) cioè il suicidio rituale dei samurai dove ci si lacerava il ventre con una spada corta, questi mettevano fine alla propria vita anche in altre maniere, anche molto spettacolari.

Al momento opportuno, cavalcando, si facevano sbalzare dalla sella per andarsi a infilzare su una spada conficcata in terra. Anche le donne non erano da meno. Avevano il loro modo “al femminile”: l’ojigi. Consisteva, generalmente, nel tagliarsi la gola con un coltello affilato. Un’altra pratica era lo jinshu (andare insieme), secondo la quale chi era vicino al proprio Signore doveva seguirlo anche nella morte. Spesso, comportava lo sterminio dell’intera famiglia del capo e di centinaia tra guerrieri e servitori del suo casato.

Un esempio tra i più famosi è quello del generale Nogi Maresuke, comandante delle forze di terra nella guerra con la Russia (1904-05). Alla morte dell’Imperatore Meiji, nel 1912, mentre le spoglie venivano trasportate sul ponte che attraversa il fossato del Palazzo Imperiale, si tolse la vita insieme alla moglie.

Sotto, il Generale Nogi Maresuke (1849-1912)

Tra i tanti altri, ricordiamo il suicidio per sentimento di colpevolezza (inseki jisatsu), il suicidio di amanti (jōshi), il suicidio di madre e figlio (oyako shinjū), il suicidio di padre e figlio (fushi shinjū), il suicidio di famiglia (ikka shinjū) e il suicidio al fine di proteggere un bambino (kobara).

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Nel secolo scorso l’attrattiva di questo gesto non è scemata. Nel 1933, una studentessa di 21 anni, Kiyoki Matsumoto, si gettò nella bocca del vulcano Mihara, nell’isola di Ozu Oshima. Il toccante scritto che aveva lasciato arrivò alla stampa locale. In brevissimo tempo, la location divenne molto di moda tra gli aspiranti suicidi. Basti pensare che, in quel solo anno, ben 944 persone si buttarono nel Mihara e, in seguito per fermare l’assurda escalation, la polizia provvide a creare un servizio di sicurezza nella zona e ad arrestare coloro che compravano un biglietto di sola andata per il traghetto che conduceva sull’isola. Più che sorprendente.

Sotto, il vulcano dei Suicidi nel 1933 con il punto di osservazione sostenuto da cavi:

Il luogo in assoluto “più amato” per l’estremo gesto rimane la foresta di Aokigahara – Mare di Alberi – ai piedi del sacro Monte Fuji. Questa predilezione sembra derivi dai tempi passati, quando gli anziani ammalati vi si recavano per finire i loro giorni (trasformandosi poi in spaventosi yurei, spiriti vendicativi giapponesi simili ai nostri fantasmi). Negli ultimi anni sono usciti due film sull’argomento, uno intitolato “La Foresta dei Sogni” con Matthew McConaughey e Ken Watanabe (il più celebre attore nipponico, protagonista nell’Ultimo Samurai con Tom Cruise) dove un americano s’imbarca per il Sol Levante per suicidarsi e l’altro, dal titolo “Jukai, la Foresta dei Suicidi”, è un horror.

Una guida, qualche anno fa, riferì all’inviata Tracy Dahlby del National Geographic: “Qui la gente entra e non esce più. Due anni fa tra i rami di quest’albero abbiamo trovato una testa umana“. Al fine di combattere il perverso fenomeno, si è pure costituito un corpo di volontari che opera per dissuadere i disperati che si addentrano in questa macabra foresta. Inoltre, ci sono una miriade di cartelli in cui si cerca di far capire quanto la vita sia bella e degna di essere vissuta e che è meglio cercare aiuto medico.

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Se guardiamo alle pubblicazioni a tema suicidi, l’interesse è sempre elevato. Pochi anni fa, l’autore Tsurumi Wataru vendette quasi 700.000 copie del suo Manuale completo del Suicidio, nel quale si produce in un’accurata analisi del gesto e dove l’impiccagione viene considerata il metodo più “artistico” per porre fine all’esistenza.

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In sostanza, nonostante la società giapponese si sia molto trasformata negli ultimi secoli, questa terribile tradizione non vede diminuire il proprio appeal tra i suoi abitanti.


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