Al giorno d’oggi molte città sono costrette a limitare l’uso delle automobili per ridurre la concentrazione di polveri sottili nell’aria, eppure, appena poco più di un secolo fa, quasi nessuno scommetteva sul futuro di quelle macchine sbuffanti e rumorose come mezzo di locomozione per lunghi percorsi.
Qualcuno però ci credeva, e per dare una dimostrazione concreta dell’affidabilità o meno delle automobili, il giornale francese Le Matin, propose una “prova” che sembrava impossibile da superare, un Raid Pechino – Parigi:
“Quello che dobbiamo dimostrare oggi è che dal momento che l’uomo ha l’automobile, egli può fare qualunque cosa ed andare dovunque. C’è qualcuno che accetti di andare, nell’estate prossima, da Pechino a Parigi in automobile?”
E’ il 31 gennaio del 1907. La sfida lanciata da Le Matin non è una gara, non è previsto alcun premio all’arrivo, anzi: per partecipare occorre versare una quota di 2.000 franchi. Nonostante ciò, dei circa quaranta iscritti, a Pechino si presentano solo cinque equipaggi. Forse i circa 14/16.000 chilometri di un viaggio attraverso deserti, valichi di montagne e piste sterrate scoraggia i meno avventurosi.
Mappa dell’itinerario
Immagine condivisa via Wikipedia – licenza CC BY-SA 3.0
Alla partenza ci sono due De Dion Bouton francesi, con equipaggi composti da meccanici della fabbrica automobilistica, una Spyker olandese, una saltellante sei cavalli Contal a tre ruote, guidata sempre da un francese. Tutte vetture leggere e poco potenti, apparentemente la scelta più indicata per quel percorso.
Le due De Dion Bouton
La Contal
E poi c’è l’Itala del principe Scipione Borghese, pesantissima ma forte dei suoi 40 cavalli di potenza, con il suo autista e insostituibile meccanico di fiducia Ettore Guizzardi. A loro si aggiunge il giornalista del Corriere della Sera Luigi Barzini senior, che deve tenere il diario di viaggio sia per il quotidiano italiano sia per l’inglese Daily Telegraph.
L’Itala al Museo Nazionale dell’Automobile
Immagine di Tony Harrison via Wikipedia – licenza CC BY 2.0
Barzini ha già alle spalle una lunga esperienza come corrispondente da varie parti del mondo: racconta la rivolta dei Boxer da Pechino, va dal Golfo del Bengala alla Siberia, partecipa come cronista al primo pellegrinaggio italiano in Terra Santa, e poi si sposta in Argentina, a Mosca, a Belgrado, e quindi in Giappone, nel 1905, per dar conto della guerra russo-giapponese. Proprio questa corrispondenza gli dà notorietà a livello mondiale. Quando parte per il Raid quindi, non gli manca certo l’esperienza necessaria a un’impresa del genere.
Luigi Barzini
A occuparsi di tutti gli aspetti tecnici c’è Ettore Guizzardi, l’insostituibile tecnico che ha potuto sviluppare la sua passione per i motori e la meccanica grazie a Scipione Borghese. E’ il principe che, dopo averlo assunto come autista, lo manda prima alla FIAT e poi all’Ansaldo di Genova, per studiare i motori a scoppio. Inevitabile quindi che proprio a lui Borghese chieda di accompagnarlo al Raid.
Ettore Guizzardi
Scipione Borghese, X principe di Sulmona, è un personaggio illuminato, che fonda il Consorzio agrario cooperativo in quel di Brescia, viene eletto come deputato nelle fila Partito Radicale, promuove le bonifiche dell’Agro Pontino. Ma è soprattutto un uomo curioso del mondo, che prima del Raid aveva già viaggiato attraverso l’Asia, dal Golfo Persico al Pacifico, e poi in Cina.
Il Principe Scipione Borghese
Certo, solo con l’esperienza da viaggiatore non avrebbe probabilmente concluso molto. Spende 80.000 lire, qualcosa come trecentomila euro attuali, per organizzare minuziosamente il raid: esplora a cavallo 500 chilometri di territorio a Nord di Pechino, per misurare con una canna di bambù gli stretti valichi di montagna; predispone, a intervalli regolari, i rifornimenti di carburante, gomme e pezzi di ricambio.
Pirelli, sponsor dell’equipaggio italiano
In territorio cinese erano carovane di cammelli a provvedere al trasporto dei rifornimenti, mentre in Russia è la ferrovia transiberiana che trasporta il necessario.
La Partenza
Il 10 giugno 1907, dal cortile della Concessione francese a Pechino, baldanzosamente parte il piccolo corteo di automobili, accompagnato dalla musica della Banda Militare francese e dall’esplosione di petardi fatti scoppiare dai cinesi in segno di buon augurio.
Ma già alla periferia di Pechino iniziano i guai: una pioggia torrenziale inzuppa gli equipaggi (le auto sono tutte scoperte) e fa perdere anche parte dei bagagli. Il Triciclo francese, con ruote non adatte ai solchi della strada, sobbalza talmente tanto da rischiare di smontarsi. L’autista torna indietro e lo spedisce, via ferrovia, a Nankow, prima tappa del viaggio.
Ma questo è solo l’inizio: le montagne che separano la Cina settentrionale dalla Mongolia sembrano invalicabili dalle automobili. Ci sono solo strette piste scavate nella roccia, che si affacciano su spaventosi burroni, e il percorso è disseminato di macigni. Per lunghi tratti, l’unico modo per procedere, dopo avere sgombrato il percorso, è quello di far trascinare le auto legate a funi, da cavalli, muli, e (ahimè) a coolies.
Il dubbio si insinua nella testa dei partecipanti:
L’automobile è veramente un mezzo rapido per spostarsi?
Sembra di no, visto che gli equipaggi sono sorpassati agevolmente dalle carovane di cammelli e dalle portantine dei commercianti cinesi, che non nascondono sguardi di derisione ai poveri automobilisti.
Ancor peggio della salita sulle impervie montagne è la discesa: bisogna trattenere le auto, che in questa fase rischiano di precipitare nei burroni. Come fa in un’occasione l’Itala guidata da Guizzardi, che simile a un cavallo imbizzarrito prende la corsa sbandando e sobbalzando, ma arriva miracolosamente intatta alla fine del sentiero, con l’autista illeso.
Dopo cinque giorni di viaggio, l’Itala di Borghese, avanti a tutti gli altri, ha percorso appena 250 chilometri: con quel passo, per arrivare a Parigi ci vuole più o meno un anno. E davanti c’è l’infinito del deserto di Gobi, forse la prova più dura.
Auguste Pons, alla guida del Contal, consapevole dei limiti del suo mezzo, si ritira, ma gli altri quattro equipaggi proseguono.
Borghese e i suoi si avventurano per primi nella immensa distesa di sabbia, prendendo a riferimento i pali del telegrafo. Per il gran caldo l’Itala si beve anche l’acqua potabile di scorta per l’equipaggio, ma riesce ad arrivare al primo punto di rifornimento, a Pong-Hong, un agglomerato di case intorno a un pozzo, dove è stata portata la benzina, e da dove Barzini riesce a spedire i suoi dispacci, attesissimi in Italia e nel resto d’Europa. Il giornalista racconta di aver notato che sul suo telegramma c’è il numero 1. Allora chiede all’operatore se è il primo della giornata, e quello gli risponde che no, è il primo in sei anni di attività del punto telegrafico.
Tutto sommato, la traversata del deserto si dimostra meno complicata del previsto, ma non solo: l’automobile si dimostra un mezzo di locomozione efficiente e rapido. L’Itala impiega quattro giorni per compierla, mentre alla carovana più veloce occorrono all’incirca 17 giorni.
Dopo altri due giorni di percorso attraverso sentieri di montagna, finalmente Borghese arriva a Kiakhta, al confine siberiano. Ormai sembra fatta, ma sulla carta sono segnate strade che, in realtà, non esistono. C’era una strada usata per scopi militari, abbandonata e inghiottita dalla prateria, dopo la realizzazione della ferrovia transiberiana.
La Siberia, con le piogge, si trasforma in un mare di fango che incrosta l’Itala e i suoi passeggeri; i ponti di legno che servivano la vecchia strada sono tutti sul punto di crollare, e Borghese li attraversa di corsa, sperando che non cedano.
Quando invece i ponti non ci sono più, il guado è l’unico modo per proseguire: bisogna smontare tutti i componenti elettrici, cospargere di grasso il motore, e poi trovare buoi e cavalli per il traino. In alcune occasioni, i tre osano l’inosabile: usando i ponti della ferrovia, con due ruote da un lato all’interno nei binari, e le due dall’altro lato all’esterno, fanno lentamente scivolare l’auto, con le orecchie ben tese ad avvertire l’arrivo di un treno. E proprio quella volta che il treno sta sopraggiungendo, quando loro sono giusto in tempo arrivati alla fine del ponte, l’automobile s’incastra nelle rotaie. Ma anche questa volta se la cavano, liberando la macchina con delle sbarre di ferro.
In un paio di occasioni il principe pensa al ritiro: la prima volta quando una ruota si rompe irrimediabilmente, e il primo posto dove è possibile sostituirla si trova a 1500 chilometri di distanza. Ma interviene la provvidenza nelle vesti di un falegname di uno sperduto villaggio, che costruisce una robustissima ruota di legno servendosi solo di un’accetta; la seconda volta è quando pare che l’equipaggio sia irrimediabilmente bloccato in un’altra remota località siberiana, perché il rifornimento di benzina non è arrivato (com’era già accaduto). Per puro caso Borghese scopre che in una bottega del villaggio c’è una consistente scorta di benzina per smacchiare. L’Itala sbuffa un po’ più del solito, ma riparte.
Il 20 luglio, quaranta giorni dopo la partenza, l’equipaggio si trova davanti a un obelisco di marmo, sugli Urali, che segna il confine tra Asia e Europa. Dopo una settimana l’automobile arriva a Mosca, dove viene accolta trionfalmente, e da lì è praticamente una passeggiata, passando per Pietroburgo e Berlino, fino a Parigi.
Durante l’ultima tappa, in Belgio, un vigile li ferma perché l’auto ha superato di 15 chilometri il limite orario consentito. A sentire le spiegazioni di uno che si presenta come il Principe Borghese, ma è sporco e lacero come un mendicante, e pretende di arrivare addirittura da Pechino, la guardia si sente presa in giro, ma alla vista dei documenti si decide a lasciarli passare.
Sono le ore 16 del 10 agosto quando l’Itala entra a Parigi. Borghese, Guizzardi e Barzini hanno compiuto un’impresa che sembrava impossibile:
61 giorni per percorrere metà del globo con un’automobile
Barzini pubblica “La metà del mondo vista da un’automobile”, con l’introduzione di Scipione Borghese, nella quale il principe dà gran parte del merito della riuscita dell’impresa a Ettore Guizzardi.
E gli altri? Arriveranno con molta calma, chi venti giorni dopo, chi due mesi dopo…