Il Passatore: un Brigante di strada divenne il “Robin Hood” della Romagna

Briganti e miseria, briganti e ingiustizia sociale, briganti e “resistenza” politica. Il fenomeno del brigantaggio in Italia affonda le sue radici in svariate situazioni, accumunate comunque dalla troppa disparità tra ricchi e poveri e da momenti storici di grande travaglio sociale e politico. Un fenomeno trasversale che ha interessato l’intera penisola, anche se viene spesso associato solo al Meridione (argomento spinoso e controverso) post-unitario.

Eppure, di briganti famosi è piena l’Italia pre-unitaria, passati alla storia, più o meno tutti, come personaggi esacerbati dalla miseria e dall’ingiustizia, talvolta in lotta contro oppressori stranieri.

La Romagna, per secoli governata dallo Stato Pontificio, è una terra di “mangiapreti” dove, se anche non vanno a braccetto, comunque convivono idee rivoluzionarie di socialisti, repubblicani e anarchici, che sono l’espressione, tra le altre cose, di un anticlericalismo diffuso, ma anche del carattere sanguigno e generoso, un po’ iracondo e pregno di passione politica, dei romagnoli.

Con queste premesse è facile comprendere come un brigante di strada sanguinario e per nulla eroico, sia stato trasformato in una leggenda, una sorta di Robin Hood della nebbiosa Romagna: Stefano Pelloni, meglio conosciuto come il Passatore, che compie le sue gesta tra il 1842 e il 1851.

Era forse questo l’aspetto reale del Passatore, tracciato dal prof. Silvio Gordini di Russi
(Museo del Risorgimento, Faenza)

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Nasce a Boncellino (provincia di Ravenna), paese di quattro case sul fiume Lamone, nel 1824, ultimo di dieci figli. Certo, la vita non è facile, ma la famiglia non è poi così povera, visto che i genitori sono contadini (e non disgraziatissimi braccianti) che oltretutto si danno parecchio da fare: intagliano zoccoli nel legno e, sopratutto, il padre fa il “passatore”. Da decenni i Pelloni hanno l’appalto come traghettatori da una riva all’altra del fiume, all’altezza del loro paese. Nel 1830 poi il capofamiglia, Girolamo, diventa anche custode della riva sinistra del Lamone, incarico che garantisce un’entrata magari non troppo cospicua però sicura. Tanto è vero che Stefano ha addirittura la possibilità di frequentare la scuola elementare, per tre anni. Pare però che non studiasse con molto profitto, visto che prima dei vent’anni non era già più in grado di scrivere nemmeno il suo nome.

La casa di Stefano Pelloni a Boncellino

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Chi vuole vedere nella storia di Stefano Pelloni una rivalsa nei confronti dei ricchi, racconta di un episodio avvenuto nel 1833: la madre, preoccupata dalla salute precaria del suo Stuvané, lo manda alle Terme di Riolo. Lui, bambino di nove anni, vede con i suoi occhi la differenza fra il suo tenore di vita e quello dei ricchi frequentatori dei bagni termali, e inizia a pensare a una rivalsa.

Andando avanti con gli anni, Stefano si forma alla “scuola della vita”, e impara quanto sia difficile tirare avanti per braccianti e contadini, scariolanti e artigiani. Lui li vede quando affianca il padre come “passatore”, e nelle nebbiose notti della Bassa Romagna, quasi al limitare delle paludose Valli ferraresi, incontra briganti di strada e ladri, contrabbandieri e malfattori di ogni genere.

La Romagna, terra “grassa” e generosa, non riesce a sfamare i suoi figli, perché il governo delle Legazioni pontificie è non solo oppressivo e autoritario, ma anche disinteressato alle condizioni di vita dei suoi sudditi: circa il 20% della popolazione campa di elemosina.

Una condizione che sarà premessa delle grandi lotte contadine che infuocheranno la regione a cavallo tra Ottocento e Novecento, un tentativo di riscatto da una miseria atavica che ha bisogno anche di simboli: Stefano Pelloni diventa il ribelle per eccellenza, romantico eroe positivo che porta nutrimento alla speranza di una vita più giusta, un obiettivo possibile.

Ma Stefano Pelloni è, nella realtà, molto lontano dall’essere un ribelle animato da un ideale politico di giustizia e libertà.

Il carattere del ragazzo si rivela presto violento, tanto che a quindici anni prende a sassate una ragazzina solo perché lei lo ha trovato a raccogliere erbe nel suo campo. D’altronde ha una buona scuola nella sua stessa famiglia: due dei suoi fratelli sono spesso ospiti delle carceri locali, per rapine ed episodi di violenza, come pure uno zio materno e il cugino.

Insomma, Stuvanèn d’ê Pasadôr (Stefano [figlio] del Passatore, com’è conosciuto da tutti), vuoi per inclinazione personale, vuoi per imitazione dei fratelli maggiori, diventa presto un criminale: a diciotto anni inizia con il rubare dei fucili a due guardie private, insieme a un paio di amici.
Certo, non sono i soli delinquenti della zona. Sono anni difficili e pericolosi nella Bassa Romagna, dove imperversano bande di ladri che, mescolandosi fra loro, terrorizzano contadini e “signori”, facendosi consegnare soldi, gioielli e prodotti alimentari sotto la minaccia di incendi e violenze fisiche.

Non ha ancora vent’anni Stefano, quando viene arrestato per la prima volta, e da quel momento sarà un continuo andirivieni tra carcerazioni ed evasioni. Quando scappa per la seconda volta, a gennaio del 1844, viene riacciuffato da un muratore che poi pagherà caro quell’atto di coraggio: Pelloni andrà a cercarlo e lo ucciderà nel 1847, quando era latitante già da due anni.

Nel 1845 infatti, mentre lo stavano portando ai lavori forzati ad Ancona, riesce a scappare e non sarà più ripreso. Prima del povero muratore, Stuvanèn aveva già ucciso due guardie che casualmente erano entrate proprio nell’osteria di campagna dove lui stava mangiando.

Eppure, nonostante le terribili violenze di cui era capace, la vita del Passatore si ammanta di leggenda, addirittura mentre è ancora in vita. Una versione sull’inizio della sua carriera criminale racconta di un episodio, come fosse una bravata giovanile, che avrebbe poi segnato per sempre il destino del ragazzo: sul sagrato della chiesa di Pieve Cesato (vicino Faenza), un ragazzetto avrebbe provocato Stuvané, che con l’ardore del suo giovane sangue non si sottrae alla rissa, presto degenerata in sassaiola. Lo sfortunato Stefano avrebbe per sbaglio colpito e ucciso una donna, per giunta incinta, che era lì presente. Segue l’accusa di omicidio colposo, il carcere, l’evasione e quindi, inevitabilmente, la vita da brigante.

Fatto sta che Pelloni aggrega una banda molto numerosa (forse addirittura 130 compari), composta non solo da latitanti come lui, ma anche da braccianti e contadini, artigiani e addirittura qualche prete di campagna, che opera in una zona molto estesa, dalla Bassa Romagna fino alle colline al confine con la Toscana. In realtà la “banda” si riunisce e si disfa, a gruppi, a seconda delle necessità e non ha un capo riconosciuto: Pelloni è però la maggiore figura di riferimento, quello che si distingue per audacia e sfacciataggine.

Quando compie qualche rapina ama dichiararsi e urla alle vittime il proprio nome: “Stuvanèn d’ê Pasadôr”. Forse si sente imprendibile, fidando su tutti quelli che per un motivo o per l’altro ne favoriscono la latitanza: fa ovviamente affari con i ricettatori, paga generosamente delle spie che lo informano dei movimenti delle guardie pontificie, ricompensa chi lo accoglie in casa e riesce a corrompere anche qualche gendarme.

Questa generosità dettata dal bisogno è probabilmente alla base della sua fama, immeritata, di ladro che rubava ai ricchi per dare ai poveri. Lo dice a chiare lettere una delle sue sorelle, Lauretana:

Non ha mai dato niente a nessuno: se dava qualcosa lo faceva perché aveva bisogno di complicità o altro

Lauretana, sorella del Passatore

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E’ così sicuro di sé Pelloni, che non si accontenta di derubare (e uccidere) persone ricche o di fermare, più volte, la diligenza dello Stato Pontificio, pure fornita di scorta.

Va oltre: quasi fosse un contingente militare, con la sua banda occupa addirittura dei paesi, sette in tutto tra febbraio del 1849 e gennaio 1851. Durante queste vere e proprie invasioni, i briganti saccheggiano le case delle persone facoltose, che spesso vengono brutalmente torturate e in qualche caso anche uccise. Non mancano stupri e violenze gratuite.

L’ultima di queste imprese, avvenuta il 25 gennaio 1851, è l’occupazione di Forlimpopoli.

I briganti si presentano al Teatro Comunale, dove derubano tutti i presenti, saccheggiano le case dei più facoltosi, e stuprano diverse donne. Tra queste c’è anche la sorella di Pellegrino Artusi (celebre gastronomo, scrittore e critico letterario), che a seguito dello choc perderà la ragione, tanto da morire in manicomio. Quella terribile esperienza convince la famiglia dell’Artusi (che fra l’altro riconosce tra i criminali un prete) a prendere armi e bagagli e trasferirsi in Toscana.

Quell’evento così drammatico è l’inizio della fine per il Passatore: quella parte di Romagna governata dal Granducato di Toscana smette di considerare quei briganti dei facinorosi politici e collabora con le autorità pontificie, anche perché i territori montuosi di confine tra i due stati sono il rifugio della banda.

Stranamente il Passatore, sulla cui testa pende una taglia altissima (tremila scudi, che al cambio attuale equivarrebbero a oltre 200.000 euro), non cerca rifugio nei boschi dell’Appennino toscano, che pure pratica da molto tempo, ma si attarda nella sua zona d’origine, nella nebbiosa campagna del ravennate. Eppure deve essere consapevole che le guardie pontificie gli stanno facendo il vuoto attorno: molti dei suoi compagni vengono arrestati e fucilati, ma altri, per salvarsi la pelle, raccontano dei rifugi sicuri, dei fiancheggiatori, delle case ospitali.

Stefano Pelloni dorme in un capanno di caccia insieme al compare Giuseppe Tasselli, detto Giazzolo, quando i gendarmi, grazie alla soffiata di uno dei suoi uomini, circondano il rifugio e iniziano a sparare. Giazzolo, ferito a una gamba, riesce comunque scappare, mentre il Passatore, pur se colpito alla schiena tenta di alzarsi ma viene finito con un colpo alla nuca.

Il 23 marzo 1851, in una fredda domenica di inizio primavera, termina la carriera criminale di Stefano Pelloni. Ha solo 26 anni.

Immagine stereotipata del Passatore, marchio del Consorzio Vini di Romagna

Immagine via Wikipedia – licenza CC BY-SA 3.0

Muore il brigante Pelloni e nasce il mito del Passatore, alimentato da un numero impressionante di romanzi, poesie, canzoni, spettacoli di burattini e, andando avanti nel tempo, film e sceneggiati televisivi.

Cadono nella retorica del “brigante sociale” anche personaggi di spicco, come il poeta Giovanni Pascoli, che nel suo componimento “Romagna” scrive:

Romagna solatìa, dolce paese
cui regnarono Guidi e Malatesta;
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada e re della foresta

sdoganando così definitivamente la figura del Passatore, non più brigante di strada ma eroe ribelle.

Prima di lui era caduto nell’equivoco addirittura Giuseppe Garibaldi, che in quelle campagne paludose ci era passato, proprio negli stessi anni in cui scorrazzava il Passatore, per sfuggire agli austriaci e arrivare a Venezia, insieme alla moglie Anita, che morirà proprio in quelle terre.

Il 10 dicembre 1850, dall’esilio statunitense, Garibaldi scrive una lettera dove si mostra entusiasta:
Le notizie del Passatore sono stupende… pare fare prodigi.
Noi baceremmo il piede di questo bravo italiano che non paventa, in questi tempi di generale paura, di sfidare i dominatori.
E spera addirittura di poter essere, un giorno, tra i “soldati del Passatore” che lottano contro gli austriaci.

Probabilmente Garibaldi non sa di uno dei tanti episodi criminosi compiuto da Pelloni, che in qualche modo lo riguardano.

Nel 1849 Garibaldi “esce” da Roma, occupata dai Francesi, per “portare l’insurrezione nelle province” dello Stato pontificio. Viaggia verso nord e capisce che le sue idee di rivolta sono velleitarie, e decide di raggiungere Venezia. Gli austriaci però, che lo temono, gli danno la caccia, dal’Umbria alla Toscana fino in Romagna. La fuga è rallentata dalla sofferente Anita, che oltretutto è al sesto mese di gravidanza.

Giuseppe e Anita vengono aiutati da molte famiglie della zona, dalle Valli di Comacchio scendono in Romagna e sono accolti alla Cascina Guiccioli, nella piccola località di Mandriole.

Anita viene portata nel suo ultimo rifugio

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Qui Anita muore, ad agosto del 1849, e Garibaldi deve ripartire in tutta fretta senza nemmeno avere il tempo di assistere alla sepoltura della moglie. Scappa, aiutato da patrioti, contadini e fittavoli, sosta in un “capanno” (che oggi si chiama appunto Capanno di Garibaldi) e riattraversando la Toscana trova finalmente riparo in Liguria, da dove poi partirà per il suo secondo esilio.

A settembre del 1849 Stefano Pelloni e la sua banda assaltano la Cascina Guiccioli, perché una vox populi raccontava di una forte somma di denaro lasciata da Garibaldi a Stefano Ravaglia, l’uomo che aveva ospitato il generale fuggiasco e sepolto Anita. Il disgraziato patriota viene torturato perché riveli il nascondiglio del presunto tesoro, e con lui anche tutta la sua famiglia, tanto che il fratello Giuseppe rimane ucciso.

Questa vicenda però, secondo Paola Novara e Alessandro Luparini (ne parlano in “Storia di Ravenna dalla preistoria all’anno duemila”), è solo una delle tante leggende fiorite intorno alla gesta del Passatore, definito dagli autori “efferato e sanguinario criminale, forse addirittura uno psicopatico”, che “curiosamente” assurge, nell’immaginario popolare, a difensore dei poveri e dei deboli.

E pure non erano ignote le gesta violente del bandito, che in un caso era arrivato addirittura a sezionare il cadavere di una delle sue vittime (una presunta spia), disseminandone i resti lungo le strade.

A lui, da morto, va un po’ meglio: i gendarmi si limitano a caricare il suo corpo su un carro per trasportarlo in giro per tutti i paesi della Romagna, perché nessuno potesse dubitare della sua fine. Poi viene seppellito nella Certosa di Bologna, nel “campo dei traditori”, in una terra ovviamente sconsacrata.

Anche l’immagine che abbiamo oggi del Passatore, quella che raffigura un brigante barbuto armato di trombone (peraltro mai usato da Pelloni), del tutto stereotipata e non rispondente al vero, nasce nel dopoguerra, quando l’Ente Tutela Vini di Romagna la adotta per il suo marchio. In realtà quel volto ricorda molto da vicino quello di un altro famoso brigante, il lucano Carmine Crocco.

Carmine Crocco

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Stefano Pelloni aveva tutt’altro aspetto, almeno secondo i connotati forniti dalla polizia della Legazione di Ravenna, che lo descrivono con occhi castani e capelli neri, fronte spaziosa, dal colorito pallido, il viso oblungo e senza barba. L’unico segno particolare è lo sguardo “truce”, forse conferito da una cicatrice da polvere da sparo rimediata sotto l’occhio sinistro.

Nulla di tutto questo però cambia l’immagine consolidata del Passatore che la Romagna vuole conservare: vuoi mettere un brigante di strada con un “bandito sociale”, ribelle coraggioso e simbolo di una mai domata volontà di riscatto?

Annalisa Lo Monaco

Lettrice compulsiva e blogger “per caso”: ho iniziato a scrivere di fatti che da sempre mi appassionano quasi per scommessa, per trasmettere una sana curiosità verso tempi, luoghi, persone e vicende lontane (e non) che possono avere molto da insegnare.