13 Settembre, 1816. Superata la prima pagina del Journal des débats, i parigini s’imbattono in un singolare resoconto. Il titolo desta curiosità: Naufrage de la Méduse. La storia li lascia col fiato sospeso. Si discute. Lo scandalo è grande. L’incompetenza di pochi, e soprattutto del capitano, ha mietuto ben più di un centinaio di vittime, mentre i restanti hanno dovuto rinunciare a tutto ciò in cui credevano pur di sopravvivere.
1814-15. Napoleone è stato sconfitto, prima a Lipsia, poi a Waterloo. Mentre si trova in esilio le potenze europee firmano i Trattati di Parigi. La Francia si vede riconosciuto il dominio sulla colonia del Senegal, contesa da tempo agli inglesi. Non è il caso di perdere tempo; bisogna subito mandare una flotta a prenderne possesso.

Giugno, 1816. Una flottiglia di quattro navi, la Meduse, la Echo, la Loire e la Argus, lascia Rochefort, sulla costa occidentale della Francia, per la colonia di St Luis, in Senegal. L’Ammiraglia è la Meduse, fregata di oltre mille tonnellate, più di quarantasei metri di lunghezza e quarantaquattro cannoni, varata nel luglio del 1810; comandata dal capitano Hugues Duroy de Chaumareys, sostenitore della dinastia borbonica, privo di encomiabili capacità nautiche e di comando.

Una fresca brezza spinge le navi verso sud. Si prospetta una crociera tranquilla, inframmezzata da qualche acquazzone e alcune ore di calma piatta. La Meduse sferza le onde del Golfo di Guascogna; supera Capo Finisterre e distanzia alla grande gli altri bastimenti. E’ la Costa della Morte, teatro di tante battaglie e infiniti naufragi. I marinai non sono turbati, intenti ad ammirare i salti delle focene, tanto ammalianti da trascinare un giovane negli abissi del Mare. Prima un tonfo, poi grida d’aiuto; infine, il silenzio. Proseguono; arrivano alle isole atlantiche; punti di rifornimento per tantissime navi, fin dal medioevo. Ne ammirano i colori e i profumi.
“Madeira appare come un anfiteatro; le case di campagna che lo ricoprono sembrano di ottimo gusto e le conferiscono un aspetto affascinante. Tutte queste deliziose abitazioni sono circondate da bei giardini, e campi coperti di aranci e limoni, che quando soffia il vento dalla riva, diffondono per mezza lega piena in mare aperto, il più gradevole profumo. Le colline sono ricoperte di vigneti, bordate di banani: insomma tutto è combinato per rendere Madeira una delle isole più belle dell’Africa”

Superano le Canarie; la nave rischia di prendere fuoco a causa di una disattenzione del fornaio. Alle dieci del mattino, il primo luglio, doppiato Capo Bojador, punto di non ritorno per parecchie navi, habitat ideale di leggendarie creature affamate di uomini e legni, porta d’accesso a un deserto impietoso con i naufraghi, oltrepassano il Tropico. Si applaude e si acclama a gran voce il superamento della linea immaginaria.
2 Luglio. La destinazione è vicina. Alcuni uomini credono di scorgere Capo Blanco; in realtà è solo un banco di nubi. La Echo invia segnali, quasi del tutto ignorati dagli ufficiali della Meduse. La prima vira verso ovest, la seconda prosegue verso sud. Il Ministero della Marina, prima della partenza, aveva ammonito i capitani: passare lontano dal Banco di Arguin. Chaumareys non sente ragioni. Si rifiuta di accettare di essere troppo vicino ai banchi di sabbia.
“Il colore dell’acqua era completamente mutato… abbiamo anche pensato di aver visto la sabbia ondeggiare tra i piccoli flutti che si alzavano; a bordo della nave si videro numerose alghe e furono catturati moltissimi pesci. Tutti questi fatti provavano indubbiamente che eravamo in acque poco profonde: infatti il piombo annunciava solo diciotto braccia”

Si cerca di virare, di spostarsi a occidente, ma è troppo tardi. A nulla valgono gli sforzi. Se il capitano non avesse dato retta a consiglieri poco avvezzi alla navigazione, se lui stesso fosse stato un marinaio capace, se avesse dato retta a lupi di mare ben consci dei pericoli di quelle acque, avrebbero evitato il principio di un disastro immensamente più grande. Quindici braccia, nove, sei… poi un boato. La Meduse si è arenata.
“Ci siamo arenati il 2 luglio, un quarto dopo le tre del pomeriggio a 19° 36′ di latitudine nord e 19° 45′ di longitudine ovest”
La frenesia delle manovre lascia il posto allo sbigottimento, alla costernazione, alla paura e alla disperazione. E’ il panico. Gli ufficiali gridano ordini a destra e a sinistra; i marinai tremano, gridano disperati, imprecano come mai in vita loro, mentre moglie e figlia del governatore del Senegal, imbarcate sullo sfortunato veliero, parevano quasi “indifferenti” al disastro.

Inutili sono i tentativi di disincagliare il bastimento; si prova di tutto e si riposa solo la notte. Bisogna abbandonare la nave. Si convoca un consiglio, presso l’argano della nave, e si delibera di costruire una zattera, da utilizzare insieme alle altre sei barche. Sono quattrocento le persone da evacuare.
“Se la perdita della nave era certa, era opportuno assicurare la fuga dell’equipaggio: fu convocato un consiglio, nel quale il governatore del Senegal diede il progetto di una zattera, capace, si diceva, di trasportare duecento uomini”
Con le piccole imbarcazioni avrebbero raggiunto il deserto e avrebbero marciato sino a St Louis. Circa cinquecento chilometri. La nave imbarca acqua. Si lavora incessantemente, il più velocemente possibile. Il brutto tempo rallenta le operazioni. La fune che tiene la zattera legata alla Meduse si spezza; si teme il peggio, ma, fortunatamente, viene recuperata. Alcuni uomini vorrebbero abbandonare il capitano e gli ufficiali sulla nave, e fuggire a bordo delle barche. L’ordine viene prontamente ristabilito, ma l’angoscia è alta e il tempo stringe, mentre si cerca di salvare più provviste possibile.

“Centoventi soldati, compresi gli ufficiali dell’esercito, ventinove uomini, marinai e passeggeri, e una donna” prendono posto sulla zattera. Quasi tutti gli altri salgono sulle altre imbarcazioni. Alcuni si rifiutano di lasciare la nave, per paura o per la sbronza. E’ il caos. La gente si ammassa; la scala della fregata li regge a mala pena; alcuni si calano con una fune, cadendo rovinosamente in acqua. Finite le operazioni di imbarco, la zattera prende il largo, mentre i marinai buttano un occhio indietro, osservando con malinconia il vascello smembrato e accasciato morente sulle secche.
“Benché in una situazione così terribile, sulla nostra zattera fatale, gettammo gli occhi sulla fregata, e ci rammaricammo profondamente di questa bella nave, che, pochi giorni prima, sembrava comandare le onde, che sferzò con sorprendente rapidità. Gli alberi, che avevano sorretto immense vele, non esistevano più, la barricata fu interamente distrutta: la nave stessa fu gettata sulla murata di babordo”

Il sole è sorto da poco. Le fragili imbarcazioni, unite tra loro da semplici funi, sono stracariche di uomini. Si parte al grido di “Vive le Roy!!!”. La zattera è stracolma di uomini; non ci si riesce a muovere. Pare possa affondare da un momento all’altro. Il carico viene gettato a mare; dopo un’accesa discussione si delibera di salvare solo i barili d’acqua e di vino, mentre un sacco di biscotti viene lanciato loro dalla Meduse.
Il vento è leggero e favorevole. La navigazione è abbastanza tranquilla, ma ancora per poco lo saranno gli abitanti della zattera. La fune che la tiene legata agli altri legni si spezza o viene slegata. Tutti guardano atterriti e nessuno reagisce. Le barche si allontanano, mentre i naufraghi si chiedono “perché?”. Un ufficiale tenta di convincere il suo equipaggio ad andare a soccorrerli, ma viene brutalmente contestato; hanno tutti paura e nessuno vuole rischiare di perdersi insieme agli sfortunati. Così tutti si allontanano.
“… non avevamo dubbi che eravamo abbandonati; eppure non ne fummo del tutto convinti finché le barche non furono scomparse”

Rabbia, sgomento e paura si impadroniscono di queste povere anime. Giurano vendetta. Come se non bastasse, la bussola è caduta tra i pezzi di legno che compongono la zattera; non si trova più; l’unica guida è il sole. I morsi della fame iniziano a farsi sentire. Il biscotto è stato frantumato e unito al vino; lo mangiano tutto. Rimangono solo un po’ di vino e l’acqua. Non c’è cibo. S’improvvisa una vela, così da sfruttare quanto possibile il vento. Al crepuscolo si alza lo sguardo a cielo e si levano preghiere. Si spera di scorgere un pennone all’orizzonte; un salvatore. Ma il fato continua a essere impietoso con i naufraghi. Le onde sono divenute più violente. Il mare s’è ingrossato.
“…onde pesantissime ci si scagliavano addosso, e spesso ci gettavano a terra con grande violenza; le grida del popolo si mescolavano al ruggito dei marosi; un mare terribile ci sollevava in ogni momento dalla zattera e minacciava di portarci via. Questa scena fu resa ancora più terribile dagli orrori di una notte molto buia; per qualche istante abbiamo pensato di vedere dei fuochi da lontano… facevamo segnali bruciando moltissime cariche di polvere; abbiamo anche sparato qualche colpo di pistola, ma sembra che questi fuochi fossero solo un’illusione della vista”

Un terrore ancora più grande s’è impadronito dei volti e delle menti dei naviganti. Urla, pianti, lamenti e preghiere. Ci si tiene il più saldamente possibile a qualunque cosa. Il rollio minaccia di gettarli nel mare in tempesta. Tutti sanno di poter cadere e morire annegati da un momento all’altro. Alcuni vengono portati via dai marosi; altri, rimasti incastrati, annegano sulla zattera; c’è poi chi viene schiacciato dal peso dei propri compagni caduti su di loro.
L’alba porta con sé un po’ di pace. Iniziano a sparire delle razioni. E’ impossibile sapere chi siano i ladri. Alcuni optano per il suicidio: un saluto e, poi, l’ultimo tuffo. Giunta la notte la tempesta riprende più furiosa di prima, portando con sé “montagne d’acqua” che s’infrangono con immensa violenza sulla zattera, trascinando fuori bordo altri uomini. Le preghiere non bastano più; si cerca conforto nel vino. Gli ubriachi vogliono uccidere gli ufficiali e distruggere la zattera. Ne nasce uno scontro violento a colpi di ascia, spade, coltelli, baionette e pugni. Corpi esanimi e mutilati giacciono sul precario campo di battaglia. Una guerra tanto caotica quanto violenta. Corpi vivi buttati a mare; alcuni vengono salvati grazie al coraggio dei compagni che si tuffano per raggiungerli, dopo essersi legati alla zattera con solo una fune. Al sorgere della luna i due schieramenti si dividono, osservandosi e studiandosi l’un l’altro, stanchi e gravemente feriti. Marito e moglie, prima caduti fuori bordo e poi salvati, stanno insieme, illuminati dai tenui e argentei raggi lunari, abbracciati e felici di essere ancora insieme, vivi.

Si passa il tempo chiacchierando, conoscendosi meglio. Alcuni ammutinati si avvicinano implorando perdono. A mezzanotte lo scontro riprende furioso; il delirio causato da stress, fatica, fame e sete, rende gli uomini violenti. Quando non si combatte si dorme e si sognano paesaggi tranquilli, piacevoli stralci di vita quotidiana, incantevoli piantagioni, il ponte della Meduse, grandi città, pianure italiane. Si hanno visioni, dalle quali è difficile destarsi.
“Tremiamo con orrore per essere obbligati a menzionare ciò di cui ci siamo serviti! Sentiamo la nostra penna cadere dalla nostra mano; un freddo mortale pervade tutte le nostre membra; abbiamo i capelli ritti sul capo! Lettore, ti supplichiamo, non provare indignazione verso uomini che sono già stati troppo sfortunati; ma abbi pietà e versa qualche lacrima di pietà per la loro infelice sorte”

Le prime luci del sole rendono ben visibile l’esiguità del numero dei sopravvissuti e la mancanza delle restanti riserve d’acqua. Rimane solo una botte di vino. La fame porta gli uomini alla disperazione. Non riescono a pescare nulla, così prendono a nutrirsi col cuoio, carta, indumenti… c’è chi tenta di mangiare i propri escrementi… e chi si nutre di carne umana. La disgrazia li ha portati a compiere un’azione che mai avrebbero pensato di eseguire: il cannibalismo. Si tagliano i pezzi più polposi e li si lascia un po’ al sole ad asciugare. Chi mangia riacquista le forze, anche se poche; gli altri continuano a gemere e a morire di fame. L’amico di ieri è il pasto di oggi. Si fa tutto con estrema solennità. Alcuni corpi vengono lasciati al mare, altri conservati per la sopravvivenza del gruppo. Si catturano alcuni pesci volanti, ma la carne dei compagni caduti rimane la parte più consistente dei pasti. Sono passati quattro giorni; gli scontri continuano.
“Presto la fatale zattera fu coperta di cadaveri, e scorreva di sangue che avrebbe dovuto essere sparso per altra causa, e da altre mani”

Solo trenta persone rimangono sulla zattera il quinto giorno. Le ferite bruciano, sono infette. L’acqua marina scortica la pelle dei sopravvissuti. Il settimo giorno si decide di uccidere i malati e i feriti più gravi, così da avere più provviste. L’esecuzione è straziante; faticano a sentirsi ancora umani; gettano a mare le armi, tenendo solamente una spada. Hanno dovuto uccidere amici, persone da cui in passato, in altre occasioni, sono stati salvati; persone che conoscono da anni e che, ora, possono rivedere solo negli incubi da cui ogni notte sono tormentati. Restano in vita quindici uomini.

Il nono giorno alcune farfalle e un gabbiano si avvicinano alla zattera. La terra pare vicina. L’entusiasmo cresce, ma in realtà la terra è ancora lontana. Si cerca di dissetarsi bevendo la propria urina e si litiga per un limone trovato per caso e per il pochissimo vino rimasto. Intanto, la zattera è circondata da grossi squali.
“Tre giorni trascorsero in un’angoscia inesprimibile; disprezzavamo la vita a tal punto che molti di noi non temevano di fare il bagno con gli squali che circondavano la nostra zattera… Il 17, al mattino, il sole apparve del tutto privo di nuvole; dopo aver rivolto le nostre preghiere all’Onnipotente, ci siamo spartiti una parte del nostro vino; ognuno prendeva con gioia la sua piccola porzione, quando un capitano di fanteria, guardando verso l’orizzonte, scorse una nave, e ce la annunziò con un’esclamazione di gioia”

Raccolgono le poche forze rimaste e prendono a sventolare una bandiera. Il brigantino pare avvicinarsi, e in un attimo non si vede più. I volti trasudano sconforto. Aspettano solo la morte. Con le vele improvvisano una tenda e cadono assopiti. Un cannoniere esce, cammina lungo la zattera, mentre il sole è alto nel cielo, e all’improvviso desta tutti con un grido: “Salvi! Guardate il brigantino vicino a noi!”
Il salvataggio si è fatto in poche ore e lo racconterò in poche parole. Quella nave è la Argus, inviata dai passeggeri delle altre barche alla ricerca della zattera. Dei circa centocinquanta imbarcati dalla Meduse, non rimangono che in quindici. Questi vengono portati a bordo seminudi, sfigurati dal sole e dalla salsedine, feriti, scheletrici e distrutti. Poi li conduce a Saint-Louis, dove li prodigano le cure più commoventi. In cinque moriranno nei giorni successivi; gli altri potranno finalmente tornare a casa.

“Dopo la scomparsa delle barche,
lo sgomento fu estremo: tutti i terrori della
sete e della fame sorsero davanti
alla nostra immaginazione,
e dovevamo inoltre fare i conti con un
elemento perfido, che già copriva la metà dei nostri
corpi: recuperati dal loro stupore, i marinai e i
soldati si abbandonarono alla disperazione;
tutti vedevano davanti a sé l’inevitabile distruzione,
e sfogavano in lamenti i cupi
pensieri che li agitavano”
