Casse ricolme d’oro seppellite sotto un albero, un’insidiosa foresta tropicale, una marcia difficile e indiani bellicosi: sembrerebbe il soggetto di un romanzo d’avventura, ma è solo una piccola parte della storia di una spedizione tedesca alla ricerca della mitica El Dorado.
Sotto, mappa del 1599 del Venezuela, Guyana e Brasile, fonte Wikipedia:
La nostra storia ha inizio in Europa, agli inizi del XVI secolo. Carlo V, Re di Spagna, ha appena ereditato la corona d’Asburgo, per ottenerla ha però dato fondo a tutti i suoi risparmi, indebitandosi con diverse banche europee. Per estinguere il debito con la banca della famiglia tedesca dei Welser, gli concesse un territorio ancora inesplorato, la Piccola Venezia, oggi conosciuta come Venezuela. I banchieri accettarono, e mandarono un loro agente di fiducia, Ambrosius Ehinger, a prendere possesso della provincia, già abitata da alcuni spagnoli, stabilitisi lì per cercare oro, schiavi, perle e gemme.
Sotto, dipinto di Ambrosius Ehinger:
Una volta arrivato a Coro, città spagnola di recente fondazione, si fece incantare dai racconti del regno d’oro, perduto in quelle foreste ancora vergini, governato da un sovrano dorato. Così, predispose subito una spedizione che durò ben due anni e mezzo, nella quale si ammalò di malaria. Una volta tornato non perse tempo, e, appena guarito, iniziò il reclutamento di soldati e volontari. Il 1° settembre 1531, centinaia di spagnoli e schiavi, catturati nei villaggi delle tribù vicine, si inoltrarono nella foresta tropicale segnata da sporadici sentieri dei precedenti esploratori. Poco si sapeva di quella terra.
Ehinger stesso era convito che il Venezuela fosse un’isola, bagnata a sud dall’Oceano
Camminavano a ritmo serrato, sotto il pugno di ferro del capitano. Valicarono le montagne della Sierra colombiana. Gli indigeni gli muovevano costantemente guerra. Conoscevano bene quelle zone e fuggivano con la rapidità di un leopardo, ma Ehinger non si faceva certo intimidire e rispondeva con immensa crudeltà.
Sotto, alcuni soldati sparano con gli archibugi. Dipinto di Jean Baptiste Debret del 1830:
Centinaia di chili d’oro e pietre preziose furono raccolti in quella distruttiva avanzata, furono rasi al suolo interi villaggi, cancellate culture e lingue che mai più saranno udite in quella giungla crudele, e, inoltre, furono catturati schiavi in gran quantità, utili a trasportare il bottino.
Giunto in un villaggio situato sulla riva del fiume Magdalena, Ehinger decise di rimandare a Coro un gruppo di uomini con i tesori fin lì raccolti. A capo di quel piccolo contingente di ventiquattro uomini fu messo Iñigo de Vascuña, il quale partì con l’ordine di raccogliere cavalli, provviste e reclute, e tornare indietro in quel villaggio.
Egli pensò bene di non ripercorrere la strada dell’andata, per paura della vendetta delle tribù trucidate
Cercò dunque un’altra via per arrivare a Coro, tagliando attraverso la giungla, rinunciando, dunque, a seguire il corso del fiume. Presto gli spagnoli si trovarono persi in un territorio impraticabile, un vero e proprio dedalo di lagune, paludi, liane, alberi e fiumi sconosciuti. Il terreno paludoso favoriva le infezioni delle ferite e persino una puntura di zanzara poteva essere fatale.
Coccodrilli, giaguari e serpenti stavano sempre in agguato. I portatori indigeni morivano o scappavano alla prima occasione, i febbricitanti europei dovettero trasportare da soli quel tesoro, raccolto con tanta voracità, che avrebbe potuto alleviare, un giorno, le loro pene, ma che era ormai divenuto una specie di fardello di Atlante, dal quale non si potevano, o meglio, non si volevano più separare. A fatica si muovevano tra gli alberi, fradici per via dell’umidità, appesantiti dal loro equipaggiamento (spada, pistole, archibugi, elmo, corazza e gambali). Solo il miraggio della vita che avrebbero condotto una volta giunti a Coro gli dava la forza di andare avanti.
Sotto, alcuni soldati spagnoli conducono due donne indios con 4 bambini. Dipinto di Jean Baptiste Debret del 1830. Immagine via Wikipedia:
Procedere in quel labirinto tropicale divenne presto impossibile, presero dunque una triste decisione, seppellire il tesoro sotto un grosso albero, le cui dimensioni pensavano potessero servire da punto di riferimento quando sarebbero tornati a riprenderlo con i rinforzi. Liberatisi da quel peso ripartirono. Sennonché, per scherzo del destino, più si spingevano avanti più le difficoltà aumentavano. Vascuña e il suo seguito divenivano sempre più deboli.
I piedi, pieni di lividi, vesciche e ferite, dolevano. Finirono, o persero, le provviste. La fame si elevò a disperazione, la disperazione in pazzia. Gli spagnoli cominciarono a litigare sulla via da percorrere e si divisero in piccoli gruppi.
Alcuni uccisero un portatore per consumarne la carne
Vascuña rimase indietro con altri due compatrioti e un ragazzo indiano, il quale subì la stessa sorte dell’altro sventurato. Il resto del gruppo proseguì sotto la guida di un certo Portillo. Durante una notte quasi tutti gli indigeni del gruppo sparirono. Presto scapparono anche gli altri, tranne uno, che cadde, e dopo esser stato ricatturato venne servito come cibo.
Non sappiamo che fine abbiano fatto quegli sventurati europei. Forse alcuni furono divorati dalle belve, morirono per le ferite, per la fame, furono presi dagli indiani, o si ammalarono. Sappiamo solo che nessuno di quegli sbandati raggiunse mai Coro.
Solo uno di essi, Francisco Martìn, lasciato indietro e fatto prigioniero dagli indigeni, sopravvisse riuscendo a guadagnarsi la loro benevolenza, cominciò ad adottare i costumi locali, mettendo su famiglia. Fu l’unico sopravvissuto della spedizione di Vascuña.
Intanto, Ehinger, dopo aver aspettato per mesi, iniziò a pensare di essere stato tradito e abbandonato dai suoi nella giungla, fuggiti a fare la bella vita con l’oro della spedizione. Non verrà mai a conoscenza del destino dei suo compagni d’avventura, in quanto morì nella strada di ritorno sotto i colpi delle frecce avvelenate degli indios.
Un triste paragrafo, questo, della storia della colonizzazione americana, che ci insegna quanto la cupidigia e la bramosia di ricchezze possano diventare fatali; una colonizzazione costellata di fatti simili, e di uomini che non rividero mai più le proprie famiglie, i propri figli, la propria patria, schiavi di un desiderio ardente, intenso e fremente per quel freddo e luccicante metallo…
Il tesoro di Vascuña è ancora disperso nella giungla, cercato nei secoli da innumerevoli spedizioni, e forse lì sepolto giacerà per sempre.
Fonti: Hamburgische festschrift zur erinnerung an die entdeckung Amerika’s, Spanish dependencies in South America, an introduction to the history of their civilization. Alla scoperta dell’El Dorado, Robert Silverberg.