Il violino è uno strumento capace di affascinare e rapire con i virtuosismi della sua melodia, sapendosi avvicinare con acume alle corde dell’animo umano. Ma esso fu per Giuseppe Tartini, celebre violinista vissuto tra la fine del seicento e gli inizi del settecento, molto di più.
Custode di un animo ribelle e tempestoso, Tartini era forgiato da una sensibilità acuta e appassionata. Una sensibilità finemente levigata dai tumulti che accompagnarono i giorni di quella sua esistenza, dibattuta tra il rifiuto dell’abito da frate, la rifuggita condizione da coniuge, la passione per l’arte da spadaccino e infine l’assordante, snervante studio del violino; che lo accompagnò sino all’ultimo dei suoi giorni. Nell’eco di ripetute tribolazioni ed inebrianti vocazioni, lo strumento assunse spesso per Tartini le sfumature di un’ossessione cocente ed alienante.
Sotto, il video racconto dell’articolo sul canale Youtube di Vanilla Magazine:
Certo, avere innanzi un mezzo capace di intrappolare e dare espressione alle più remote note dell’animo umano doveva essere una tentazione troppo grande per Tartini, e negli anni i suoi studi galopparono senza remore, assumendo a tratti toni massacranti, capaci di accecare e allontanare dagli affetti e dalla realtà circostante.
Grandemente noto al pubblico per i successi in ambito musicale, oggi il suo nome è diffusamente impresso nella memoria collettiva per quella che viene considerata la più peculiare e luminare delle sue composizioni: la “Sonata per violino in sol minore”, ben più celebre come:
Il “Trillo del diavolo”
Opera dal titolo altisonante, il “Trillo del diavolo” è ritenuto essere uno dei più difficili brani per violino mai composti nella storia della musica. Di esso colpisce oltre che la memorabile bellezza e la complessità tecnica del tratto, una celebre quanto misteriosa leggenda.
Sotto, il maestro Uto Ughi interpreta il Trillo del Diavolo:
Si dice infatti che prima di iniziare a scrivere Tartini si rifugiasse nella lettura di qualche composizione del Petrarca, cercando di instillare in sé stesso quella predisposizione fertile e affine all’arte e a ogni sua più accorta espressione, ma nel caso del “Trillo del diavolo”, il germoglio dell’ispirazione giunse da qualcosa di molto più remoto e misterioso.
Come Tartini ebbe a dire, il primo palpito del brano fu assaporato nel limbo di un sogno da allora mai più dimenticato.
In quella che divenne una notte memorabile, Tartini disse di essersi visto innanzi il diavolo. Questi, osservandolo superbo e scaltro, gli avrebbe detto che per l’incontro avrebbe dato sfogo a ogni suo capriccio o desiderio
Tartini allora, senza farsi attendere, agguantato il suo violino sfidò il demonio con l’estro di chi sa di non poter essere battuto. Ma quale fu il commosso stupore quando il demone, ghermito il prezioso strumento, iniziò a intonare la più soave e sopraffina delle melodie mai concepite o anche solo immaginate da mente umana.
Una melodia tanto sublime da non poter contemplare altro paragone. Con beffarda naturalezza, il diavolo sembrava infatti manovrare tutte le umane passioni e disfatte, le sensazioni di gloria e di ardimento, le tristezze e le intemperanze nell’ode di una ballata stridente e suggestiva.
La raffinatezza di un Allegretto dapprima lento e delicato si gettava corposo nel turbinio di un ghigno sinistro e impetuoso, declinando la sua essenza in una danza vorace e struggente; memore dell’eco del genio malefico che in quel frangente la dipingeva con estro e caparbia sulla tastiera levigata.
In quell’istante la maestosa opera vibrata dai sapienti, malevoli artigli fece apparire a Tartini ogni altra melodia come scialba e inespressiva. Entusiasta e rapito, egli ascoltava ogni nota e inclinazione musicale traboccando di beatitudine e ammirazione. La verità di quella melodia doveva essergli apparsa allora a un breve, piccolo passo dalla conquista.
Eppure ciò che colpì ancor più Tartini fu l’impassibilità impressa sul volto del suonatore. La ridondante incapacità del demone di contrarre la virgola di una sola emozione era indelebile, assordante. Apparve allora a Tartini lo scioccante mistero di quell’emozione spietata che affiorava vorace sulle corde tese dagli artigli della bestia; quegli artigli che tutto sembravano conoscere, si dimenavano famelici, proferendo le storie di tormenti e passioni cui il malefico appariva totalmente estraneo.
Lo stupore non durò però a lungo. L’ultima delle note fece improvvisamente riemergere Tartini da quel sogno ispirato e straripante.
Appena riavuta coscienza della realtà circostante egli si sentì colto dallo smarrimento. Afferrato il violino tentò di riprodurre ciò che aveva udito poc’anzi. Eppure, quale atroce sorpresa lo attendeva. Incespicava afflitto e sgomento su quelle corde che gli urlavano l’impossibilità di ricreare il suono originale.
Ma quel suono era entrato nelle fibre del suo essere, in qualche modo doveva essere ancora lì in qualche anfratto nascosto della sua mente
Eppure, il pathos rivoltoso e galoppante di quella melodia sembrava aver lasciato il posto a un brano dalla corteccia valorosa, ma grezza. Una melodia conturbante, ma priva del guizzo feroce ed ammaliante che in sogno lo aveva fatto vibrare sin nelle ossa.
Quel nettare che sembrava essergli appartenuto sino a pochi istanti prima appariva ora rifuggire qualsiasi materializzazione. La desolazione fu devastante. Essa fu tale che a un tratto Tartini desiderò distruggere lo strumento di una vita. Ma non poté farlo: per lui il violino era la vita stessa.
Fu così che la pulsione di quella notte speciale e inspiegabile diede luogo a una serie di interminabili studi ed elaborazioni, sino alla realizzazione di ciò che oggi viene definita “una delle più geniali trovate del Settecento violinistico”.
L’opera vide la luce ben 17 anni dopo il famoso “sogno rivelatore” e data alle stampe dopo la morte dell’autore stesso
Di essa, si annovera la celebre comparsa nel fumetto di Dylan Dog, ma anche nel romanzo thriller dello scrittore Carlo Lucarelli, nell’anime Yami no matsuei e nel libro autobiografico di Uto Ughi, uno dei più grandi violinisti italiani.
Il mistero che ha avvolto parte della genesi dell’opera fu il sale costante di una vita per il musicista. Avvezzo ad una vena di misticismo, egli era solito inserire nelle sue opere testi cifrati quali citazioni letterarie o invocazioni ai Santi, e non smise di affascinare e stupire anche dopo la morte, quando all’apertura della sua tomba e di quella della moglie si scoprì che le ossa erano incredibilmente scomparse lasciando posto a un materiale sconosciuto; identificato dagli studiosi solo in seguito quale conseguenza dell’uso di acido solforico volto a coprire in passato gli odori effusi dalle tombe.
In seguito alcune interpretazioni hanno voluto attribuire la figura di quel “diavolo” impresso nel ricordo di Tartini al ben più recondito simbolo dello strumento che tanto ossessionò i giorni del talentuoso violinista; vivendolo come carnefice del suo allontanamento dalla famiglia e dalla fede.
Molti pensarono inoltre che, visto che si era infortunato la mano in un incontro di scherma, la complessità studiata per il brano volesse essere in parte una vendetta elaborata dal Maestro verso gli altri violinisti: se egli non la poteva suonare, nessun altro avrebbe potuto eseguire la sua opera.
Divenuto celebre anche per la scoperta del terzo suono, o suono di combinazione per differenza, chiamato suono di Tartini, Giuseppe Tartini smise infine di suonare nel 1765 a causa di disturbi psicosomatici e di ulteriori dolori. Così, negli ultimi anni si concentrò di più sullo studio dei problemi di teoria musicale, dando al contempo alle stampe molte delle sue composizioni e lasciando in eredità al mondo oltre 200 manoscritti strumentali e circa 80 pubblicazioni.
Alla fine i successi musicali duramente conquistati trasformarono per Tartini ciò che era stato vissuto come la fonte di frustrazione di una vita intera nella via per una rivincita sociale tanto agognata, cui il trillo fece quasi da colonna sonora; trasformando un sogno nel mezzo di una rivalsa che assaporò soltanto al crepuscolo della sua vita…