Gioachino Rossini sosteneva che un vero artista “ha sempre tempo a farsi strada, quel che importa è che non si sciupi nella monotonia della vita.” E proseguiva ammettendo che un musicista, un pittore, un poeta potessero lavorare “ma è doveroso da parte loro divertirsi onestamente il più possibile”.
Rossini era figlio del suo tempo e il divertimento fu parte integrante della vita dell’aristocrazia per almeno tre secoli a partire dalla fine del ‘500. Certamente è lecito interrogarsi su quanto questo divertimento fosse “onesto”, dal momento che molto spesso consisteva in scherzi piuttosto pesanti alle spalle dei malcapitati.
Gioacchino Rossini:
Gli scherzi ai danni del popolo, degli ebrei o di esponenti dell’aristocrazia si differenziavano a seconda del ceto sociale cui apparteneva il bersaglio. Grazie alle vecchie cronache, ai diari e agli Avvisi di Roma, che descrivono nel corso dei secoli la vita nella città, abbiamo avuto modo di scoprire, descritte nei minimi dettagli, le stravaganze di aristocratici e artisti che combattevano la noia quotidiana.
Possiamo leggere in un Avviso datato 25 giugno 1585 che “di estate, venendo a Roma i contadini a mietere, si ponevano a dormire sopra la scala dell’Aracoeli, alta di molti scalini…”. Un nobile “fece chiudere in una botte una quantità di sassi e poi lasciolla precipitare giù per le scale per spaventare quei contadini addormentati”. Per questo scherzo “un contadino restò morto ed altri stroppiati et feriti”.
In un diario che risale all’incirca allo stesso periodo si legge che un nobile “si dilettava d’intimorire i contadini con l’appiccare nascostamente il fuoco ai loro carri di fieno”.
Nelle Memorie di G. Gigli leggiamo di un certo Giuliano Cesarini, morto il 4 gennaio 1613, di cui l’autore ricorda la grossa mole e il fatto che “chiamava li suoi servitori et li faceva giocare a dadi et a carte, et poi mandava secretamente a chiamare i sbirri et li faceva tutti legare et menar in prigione, se bene egli poi gli pagava tutta la spesa; ma voleva pigliarsi quel piacere.”
Sempre dello stesso Cesarini si legge ancora “Chiamò una volta un ricottaro et si fece dare un bocale di fiorita et se lo portò in camera; poi di lì a un pezzo glie la riportò in sala dicendo che non gli piaceva, ma che per haverlo fatto aspettare gli donava un testone. Si partì il ricottaro contento et andò a casa di un gentiluomo al quale era solito portar la fiorita la mattina, et egli diede per sorte quello stesso bocale che gli aveva reso il Duca. Quello lo fece vuotare in un bacile d’argento et si vide nel bacile una quantità di escrementi che stava nel bocale coperto di fiorita”.
Sono note le trovate del pittore Salvator Rosa soprattutto ai danni degli uomini che interpretavano ruoli femminili nei teatri della capitale, e celebre è l’episodio dell’incisore della Roma dell’800, Pinelli. Infastidito dal vicino che si esercitava a tutte le ore col suo violino protestò e si sentì rispondere “sto a casa mia e faccio er commodo mio”. Ma il violinista non sapeva che Pinelli abitava proprio sopra di lui, e quando un giorno si vide gocciolare sempre più acqua dal soffitto si precipitò furioso al piano superiore e trovò Pinelli seduto sul letto a fumare la pipa mentre teneva una lenza in mano, la cui estremità scompariva in un lago improvvisato nella stanza. Alle proteste del vicino l’incisore rispose “Sto a casa mia e vojo pesca’ quanno me pare”.
Nella Roma papalina l’ossessione per lo scherzo ai danni del prossimo raggiunse l’apice. Si assisteva di frequente a scene in cui le sedie venivano tolte da sotto le terga degli invitati quando stavano per sedersi, e poi si spalmavano le poltrone di pece perché un malcapitato vi restasse invischiato; gli invitati potevano aspettarsi di tutto: dalle code di carta attaccate alle marsine, a rospi e topi morti nei letti, agli scarafaggi con moccoli accesi nella stanza da letto.
Il Marchese del Grillo
Il film di Monicelli del 1981 è ambientato in un’affascinante Roma dei primi dell’800 in cui il Marchese Onofrio del Grillo, interpretato da Alberto Sordi, passa le giornate a divertirsi ed escogitare scherzi ai danni del prossimo. Ma quanto di vero c’è in questo personaggio bizzarro? Le fonti in cui si parla di lui provengono soprattutto da una salda tradizione orale. Di certo il vero marchese del Grillo non visse nel XIX secolo, ma probabilmente nel secolo precedente.
Sappiamo che un Onofrio del Grillo (1714-1787), originario di Fabriano (AN), dopo la morte della madre, trovandosi in gravi ristrettezze economiche, fu affidato alle cure del ricco zio Bernardo, che viveva a Roma. Quando quest’ultimo morì, nel 1757, Onofrio ereditò tutto il suo patrimonio e venne ammesso alla Corte Pontificia, dando l’avvio così alla sua brillante carriera che lo vide acquisire i titoli di dignitario pontificio, Marchese di Santa Cristina (Gubbio) e Conte di Portula (in provincia di Biella). Sempre nel 1757 sposò Faustina Capranica, della quale riuscì a sperperare l’intera ingente dote con facilità estrema.
A differenza di quanto riportato nella pellicola, il Papa con cui il Marchese del Grillo ebbe a che fare non fu Pio VII bensì Benedetto XIV, il quale lo investì di prestigiosi ruoli come quello di Sediario Pontificio (un collegio di laici che hanno il compito di occuparsi del Papa nell’ambito del cerimoniale), di Cameriere di Coppa e Spada di Sua Santità, nonché quello di Guardia Nobile. Pare che alla Corte Pontificia divenne celebre per la sua eccentricità.
Il primo accenno al “Marchese del Grillo” venne fatto dal romanziere romano Raffaello Giovagnoli (1838-1915), il quale tuttavia non lo identificò con l’Onofrio del Grillo di Fabriano: “Quantunque non mi sia riuscito di apprendere, per quante ricerche abbia fatto, il nome con cui fu battezzato, né la data precisa della sua nascita, ho potuto verificare dalle affermazioni recise de’ suoi discendenti ch’egli è un personaggio storico, vero, realmente esistito e che molte delle bizzarre avventure, dalla leggenda popolare unite al suo nome, fan parte effettivamente delle gesta compiute da quest’uomo, che io sarei disposto a chiamare l’ultimo e il più stravagante dei feudatari romani”.
Oltre agli scherzi che abbiamo visto rappresentati nel film di Monicelli, il poeta e commediografo Giggi Zanazzo (1860-1911) nel suo “Novelle, favole e leggende romanesche” ne riporta molti altri ancora.
Una volta ad esempio, racconta Zanazzo, il Marchese convinse un suo fattore di aver acquistato un tegame miracoloso che senza fuoco cuoceva le migliori pietanze del mondo e, visto l’entusiasmo con cui quello lodava le castagne che il marchese gli aveva fatto assaggiare, ebbe il buon cuore di regalarglielo. Perché il tegame funzionasse, bisognava che il fattore si attenesse scrupolosamente ad alcune regole. Il tegame infatti doveva essere appeso al soffitto e messo al centro della stanza pieno della pietanza da cuocere, dopodiché bisognava farlo girare con un bastone per circa due ore. L’uomo ringraziò molto e fece mille inchini di ossequio al suo Marchese e si affrettò a tornare a casa per provare il magico tegame insieme a tutta la sua famiglia. Dopo alcune ore che girava pieno di uova appeso nella stanza più grande della casa, il tegame non accennava a scaldarsi e dopo un colpo di bastone assestato con troppa forza si ruppe drammaticamente facendo schizzare le uova dappertutto imbrattando la stanza e tutti gli astanti. Il fattore si disperò pensando di aver sbagliato qualcosa nel procedimento e tornò qualche giorno dopo a Roma per raccontare l’accaduto al Marchese chiedendo se fosse possibile ottenere un nuovo tegame miracoloso.
Un altro episodio narrato da Zanazzo è quello in cui il Marchese scommise con i doganieri che sarebbe riuscito a introdurre un maiale in città senza pagare il dazio. Nei giorni successivi si adoperò quindi per organizzare un funerale in pompa magna, fece porre una cassa da morto molto grande su un carro funebre che sfilò lentamente attraversando la porta della città. Arrivato al posto di blocco, i doganieri impettiti salutarono il convoglio, che sfilò ancora per pochi metri fino a quando il Marchese arrestò il corteo e sbellicandosi dal ridere fece aprire la cassa mostrando non solo di aver fatto entrare in città un porco senza pagare il pedaggio ma di averlo fatto salutare anche con tutti gli onori dalle forze dell’ordine.
Si sa che all’epoca tra romani e Giudii i rapporti fossero piuttosto tesi, il popolo accusava gli ebrei di arricchirsi alle spalle dei poveri applicando tassi di interesse smisurati sui prestiti concessi e il Marchese ne fece i suoi bersagli preferiti.
Il carbonaio Gasperino in preda a una crisi d’identità:
Tra gli scherzi ai danni di questi ultimi Zanazzo cita quello che vide il marchese offrire una lauta ricompensa a due ebrei se avessero accettato di immergersi in due botti piene di feci. Quelli accettarono, a patto di poter lasciare la testa fuori dai liquami. Il Marchese acconsentì ma appena i due furono immersi fino al collo impugnò la spada e fece per decapitarli, mossa che li costrinse istintivamente a nascondere le teste sotto la melma nauseabonda, tra le grandi risate del nobile. A quanto riporta l’autore della raccolta, una volta fatti ripulire diede loro una lauta ricompensa.
Perfino in occasione della sua morte pare che egli non si tirò indietro dalla sua vocazione, e ormai vicino al trapasso a causa di una polmonite incaricò il maestro di casa di confezionare delle torce con un petardo posto all’estremità da distribuire durante la cerimonia. Così nel momento in cui il Marchese del Grillo passò a miglior vita, durante la celebrazione del rito a cui una gran folla era convenuta, quando le candele si consumarono scoppiò un finimondo tra botti assordanti e lo scompiglio generale.
I romani commentarono “Puro dopo morto fa caciara”