L’abito del medico della peste è uno dei simboli più riconoscibili della “Morte Nera”, le celebri epidemie di peste che decimarono la popolazione europea fra il Medioevo e l’età Moderna. L’origine della maschera risale probabilmente alle prime epidemie che colpirono l’Europa durante il XIV secolo, fra il 1347 e il 1353, e che sterminarono circa un terzo della popolazione complessiva del nostro continente.
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L’abito del medico della peste in un disegno del 1656
Il costume completo del medico, caratterizzato da un lungo abito nero in tela cerata e un pronunciatissimo becco di fronte a bocca e naso, è di molto successivo, e assume la sua forma all’inizio del ‘600 circa, in Francia, dopo che la maschera era diventata celebre in Italia fra Roma e Venezia.
Perché i medici si vestivano in questo modo?
Il motivo è da ricercarsi nella teoria di trasmissione del morbo mediante la dottrina miasmatico-umorale. Secondo questa tesi, che venne coniata da antichi medici greci come Ippocrate e Galeno, le malattie si trasmettevano per lo squilibrio fra i vari umori del corpo: sangue, flegma, bile gialla e bile nera. A causa dei miasmi dell’aria (escrementi riversati in strada, acqua stagnante, scarti di produzione e via dicendo) combinati a eventi come eruzioni, congiunzioni astrali, inalazione di aria proveniente da corpi in putrefazione, acque paludose o simili, gli antichi pensavano che le malattie riuscissero ad attecchire nel corpo umano.
Maschera utilizzata da un medico della peste: maschera indossata alla fine del 17 ° secolo dai medici che visitano le piante pestifere. Maschera proveniente dal lazzaretto di Venezia:
La maschera del medico della peste aveva un lungo becco all’interno del quale venivano inseriti fiori secchi, lavanda, timo, mirra, ambra, foglie di menta, canfora, chiodi di garofano, aglio e spugne imbevute di aceto, tutti elementi i quali avrebbero dovuto ridurre al minimo il rischio di contagio per la respirazione di “miasmi” da parte dei medici.
Un componimento del XVII secolo fa capire quanto i nostri antenati fossero convinti dell’invulnerabilità del medico:
“Le loro maschere hanno lenti di vetro
i loro becchi sono imbottiti di antidoti.
L’aria malsana non può far loro alcun male,
né li mette in allarme.”
Rappresentazione della peste bubbonica che colpì Tournai nelle cronache di Gilles Li Muisis (1272-1352), abate del monastero di San Martino dei giusti, conservata nella Biblioteca reale del Belgio:
Chi era il medico della peste
I medici della peste erano dei dipendenti pubblici assunti dai villaggi o dalle città quando una pestilenza colpiva la popolazione. I loro compiti principali erano due: alleviare le sofferenze degli appestati e compilare il libro pubblico in cui venivano registrate le ultime volontà dei moribondi. Durante le fasi acute delle epidemie erano gli unici a poter girare liberamente per le città, nelle quali solitamente vigeva il coprifuoco perenne con pena di morte, e si occupavano di compilare anche i registri funebri per avere una stima completa della conta dei morti.
“Alzavamo le vesti dei malati con un lungo bastone e operavamo i bubboni con bisturi lunghi come pertiche” – Alvise Zen
Medico della peste dal trattato di Jean-Jacques Manget, “Traité de la peste” del 1721:
Oltre a questi compiti pratici, i medici della peste erano anche coloro i quali trasmettevano la memoria storica degli eventi, ricordando alla città cosa era successo durante l’epidemia. Ne è un esempio il famoso Alvise Zen, medico della peste a Venezia durante l’epidemia del 1630, che scrive una lettera a monsieur d’Audreville:
“Eccellentissimo monsieur d’Audreville, vi racconterò quei terribili giorni solo perché sono convinto che senza memoria non c’è storia e che, per quanto amara, la verità è patrimonio comune“.
Trionfo della morte, Palazzo Sclafani, Galleria regionale di Palazzo Abatellis, Palermo (1446), affresco staccato:
Alvise Zen si riferisce al racconto della pestilenza del 1630/1631 e all’edificazione della grande Basilica della Madonna della Salute, a Punta della Dogana, che festeggiò la fine dell’epidemia che in 17 mesi aveva sterminato il 40% della popolazione veneziana, con un numero di morti pari a 80.000 persone.
I medici della peste operarono nelle diverse zone d’Europa colpite dalle pestilenze fra la metà del XIV secolo e la fine del XVIII secolo, e hanno permesso a noi esseri umani moderni di conoscere nel dettaglio le modalità di diffusione dell’epidemia, il numero di morti che provocavano le diverse ondate di “morte nera” e anche la socialità modificata di quei terribili periodi, quando, sempre con le parole di Alvise Zen:
“Non c’era più chi seppelliva i cadaveri. Per i canali transitavano barche da cui partiva il grido “Chi gà morti in casa li buta zoso in barca”. Per le strade cresceva l’erba. Nessuno passava“.
La sentenza data ai rei di vari avvelenamenti a Milano nell’anno 1630:
Oppure si incuneavano nella società gli scettici, come li definisce il medico:
“Illustrissimi medici dell’università di Padova, chiamati per un consulto, disconoscevano addirittura l’esistenza del morbo; guaritori e ciarlatani inventavano inutili antidoti; preti e frati indicavano nell’ira divina la vera causa di tutto quell’orrore calato su Venezia“.
Medici della peste, sì, ma soprattutto cronisti di un lungo periodo della storia umana durante il quale il dilagare di un’epidemia poteva con facilità sterminare i piccoli villaggi e ridurre di centinaia di migliaia di persone la popolazione delle città più grandi.