Una misteriosa voragine nel cuore dell’antico Foro Romano oggi passa quasi inosservata anche ai più attenti visitatori della Città Eterna. Il Lacus Curtius oggi appare come un semplice sito di forma trapezoidale, ricoperto da vecchie lastre di pietra, vicino all’antica Curia, sede del Senato di Roma. Eppure un tempo questo era un luogo avvolto da molte leggende, forse una porta verso gli inferi.
Le vere origini del Lacus, e del suo nome, si perdono nella notte dei tempi, tanto che già nel tardo periodo repubblicano i romani stessi potevano fare solo delle ipotesi. Ovviamente, il termine Lacus induce a pensare ad un lago, che probabilmente in tempi antichi si trovava all’interno del Foro. In un’epoca successiva quasi tutta l’area del Foro fu bonificata e pavimentata, così nel corso dei secoli il Lacus divenne sempre più piccolo, fino a che non si ridusse ad un piccolo bacino, il Lacus Curtius.
Secondo tre versioni diverse degli storici romani Tito Livio e Marco Terenzio Varrone, il suo nome è riconducibile alla nobile famiglia conosciuta come Gens Curtia. Una semplice spiegazione, per il nome attribuito al lago, la fornisce lo storico Varrone: il luogo divenne sacro nel 445 aC, quando un fulmine lo colpì. Secondo il costume romano, il console Gaio Curzio Filone fece recintare e consacrare l’area, che da lui prese il nome.
Una versione di Tito Livio parla di una profonda voragine che improvvisamente si aprì nel cuore del Foro, forse all’inizio del periodo regale. Furono fatti numerosi tentativi per riempirla con della terra, ma inutilmente. Il responso degli àuguri fu, come sempre, di difficile interpretazione: l’abisso poteva essere chiuso solo con il sacrificio di “quo plurimum populus Romanus posset”, ciò che il popolo romano aveva di più caro.
Il cavaliere Marco Curzio pensò che la cosa più preziosa dei Romani fosse il valore dei suoi giovani soldati. Fu così che, rivestito con l’armatura da battaglia, montò in sella al suo cavallo e si gettò nella voragine, che immediatamente si richiuse. Il giovane eroe offrì il suo sacrificio ai Mani, le anime dei defunti, talvolta identificati anche con gli dei dell’oltretomba. Forse nasce da questa leggenda la superstizione di un possibile collegamento tra la voragine – chiamata poi Lacus Curtius in onore del giovane cavaliere – e il regno degli inferi.
Al tempo di Augusto il Lacus Curtius non esisteva più, era solo “terra asciutta sede di Altari” con un pozzo al centro, dove, secondo il racconto di Ovidio, tutti i romani lanciavano annualmente una moneta, per adempiere ai voti sulla sicurezza dell’imperatore. Tuttavia, secondo lo storico Kobbert, la connessione del Lacus con il mondo degli inferi lo aveva reso un luogo “religiosus”, e quindi le monete erano in realtà offerte agli dei dell’oltretomba.
Secondo un’altra versione, sempre di Tito Livio, il cavaliere sabino Mevio Curzio cadde nel pozzo mentre tentava di sfuggire ai Romani, durante la battaglia seguita al ratto delle Sabine.
Poco lontano dal bacino sono stati scoperti gli scheletri di un uomo, una donna e un bambino, legati insieme e annegati nel lago. Le storie narrate da Tito Livio, sia quella di Marco Curzio, sia quella di Mevio Curzio, rimandano forse ad ancestrali racconti su antichi rituali di sacrificio avvenuti nel Lacus Curtius. Anche se la decifrazione non è ancora certa, una delle più antiche iscrizioni in lingua latina, risalente al VI secolo aC., prescrive la consacrazione agli dei degli inferi di chiunque avesse violato il sito sacro (oggi conosciuto come Lapis Niger) dove forse era stato sepolto Romolo, o qualche altro importante “pater” romano.
Non si può sapere con certezza se il sacrificio avvenisse nel Lacus Curtius, ma indubbiamente la voragine nel cuore dell’antico Foro era legata al mondo oscuro dell’oltretomba, almeno in quei tempi lontani in cui Roma si apprestava a diventare la Città Eterna.