Quattro fermate del tram e ancora non finisce la facciata del più lungo edificio residenziale del mondo: è il Karl Marx-Hof di Vienna, costruito durante quel periodo tra le due guerre mondiali conosciuto come “Rotes Wien”, Vienna Rossa.
Immagine di Bwag via Wikipedia – licenza CC BY-SA 4.0
Alla fine della prima guerra mondiale l’Austria non se la passa molto bene e Vienna non è più la capitale dell’impero asburgico, ma di una repubblica, proclamata nel novembre 1918, con nuovi confini, un territorio assai più piccolo e una realtà tutta da riorganizzare. Arrivano a Vienna ex militari e profughi, mentre sono in tanti, tra i funzionari dell’ex impero, a tornarsene nei loro paesi d’origine.
Immagine di Christian Hellmich via Wikimedia Commons – licenza CC BY-SA 4.0
Alle elezioni del maggio 1919 il Partito Socialdemocratico ottiene la maggioranza assoluta, ma poco più di anno dopo finisce all’opposizione, non prima di aver introdotto la giornata lavorativa di otto ore, fondato la Camera del Lavoro e aumentato i sussidi di disoccupazione. Vienna però continua ad essere governata da un’amministrazione socialdemocratica, fino all’avvento dell’austrofascismo, nel 1934.
Immagine di Kasa Fue via Wikimedia Commons – licenza CC BY-SA 4.0
La priorità della giunta viennese è una sola: dare una casa alle migliaia di persone a basso reddito che si sono riversate in città, in un contesto dove l’edilizia abitativa lasciava molto a desiderare, con il 95% delle abitazioni senza servizi igienici e acqua corrente.
Il prezzo degli affitti privati viene bloccato, ma nonostante ciò sono tante le persone costrette a convivere in poco spazio e con poca igiene, tanto che in città aumenta di molto il numero di persone che si ammalano di tubercolosi e sifilide, per non parlare della diffusione del contagio durante l’epidemia di spagnola.
Gli amministratori della capitale austriaca, con un massiccio piano di edilizia popolare, in meno di un decennio riescono a costruire oltre 60.000 nuovi alloggi, in strutture chiamate Gemeindebau: grandi complessi che accolgono le famiglie della classe operaia. Vienna Rossa era però qualcosa di più profondo di un mero, per quanto ambizioso, progetto edilizio: era un’idea di progresso sociale, il punto di partenza di un nuovo modo di vivere, dove il benessere psicofisico e la possibilità di accesso alla cultura degli abitanti doveva andare di pari passo con il diritto ad avere un tetto sulla testa.
Immagine di Francesco Bandarin via Wikimedia Commons – licenza CC BY-SA 3.0 igo
Il Karl Marx-Hof è l’esempio più conosciuto dell’edilizia popolare di quell’epoca, progettato dall’architetto Karl Ehn e inaugurato nel 1933. Il gigantesco edificio, con una facciata lunga 1.100 metri e con 1.382 appartamenti, diventa da subito il simbolo tanto dell’orgoglio proletario quanto dell’idea di progresso portata avanti dall’amministrazione socialdemocratica: in ogni appartamento c’è il gabinetto e l’acqua corrente (solo fredda, ma che conquista!), e uno straordinario lusso fino ad allora ritenuto inutile per i proletari, un balcone…
Immagine di Gerald Wintersperger via Wikimedia Commons – licenza CC BY-SA 4.0
Ma il progetto di progresso non si esauriva con quelle comodità casalinghe, perché l’intento era quello di creare un forte senso comunitario tra le circa 5.000 persone che avrebbero abitato il Karl Marx-Hof, e offrire i servizi sociali necessari alle famiglie a basso reddito: nel complesso c’erano due bagni pubblici (le docce), due asili, il doposcuola, una biblioteca, due lavanderie, ambulatori medici, un centro di assistenza per le donne in gravidanza, un centro giovanile e un ufficio postale, oltre a negozi di vario genere.
E sopratutto c’era (e c’è ancora) quell’immensa area verde al centro di tutto, dove le famiglie potevano incontrarsi e socializzare: per questo l’edificio occupava solo il 18,5% dell’area edificabile, mentre il resto era destinato appunto ad aree giochi e giardini. L’architetto Ehn addirittura progettò il condominio in modo da favorire l’uscita verso i cortili interni piuttosto che sul fronte, lato strada.
Immagine di Gerald Wintersperger via Wikimedia Commons – licenza CC BY-SA 4.0
Tutto il progetto di edilizia popolare di Vienna Rossa fu realizzato in parte con contributi federali e in larga misura grazie a tasse sul lusso, applicate a chi possedeva grandi automobili, alberghi prestigiosi, lussuose pasticcerie nel centro città. Il denaro pubblico venne usato non solo per l’edilizia, ma anche per finanziare la salute pubblica (ambulatori gratuiti, vacanze nelle colonie e cure termali) e il sostegno alle famiglie (ad esempio: un “pacchetto di vestiti” per i bambini, perché non fosse più necessario coprirli con carta di giornale). L’amministrazione, per far comprendere come venivano spesi i soldi incassati dall’erario pubblicò un resoconto di quanto realizzato solo con i proventi arrivati dalla famiglia Rothschild.
Immagine di Bwag via Wikimedia Commons – licenza CC BY-SA 4.0
Il progetto politico Vienna Rossa si interrompe bruscamente nel 1934, con la “rivolta di febbraio”, dopo la quale tutto cambia in Austria: il Partito Socialdemocratico viene messo fuori legge e si instaura un governo definito “austrofascista”, conservatore e autoritario con una forte ingerenza del clero cattolico, simile al fascismo italiano per quanto riguarda il corporativismo statalista, ma che poco ha da spartire con il regime nazista della Germania. Uno degli ultimi baluardi di resistenza in quella guerra civile austriaca (che segna la fine della prima repubblica) è proprio il Karl Marx-Hof, dove si barricano gli insorti, fino a quando l’esercito, la polizia e le forze paramilitari fasciste non iniziano a bombardare l’edificio, nonostante la presenza di civili disarmati, donne e bambini.
Il resto è storia: nel 1938 la Germania annette l’Austria (con una significativa fetta di popolazione favorevole), il mondo si incammina verso il baratro, ma alla fine della seconda guerra mondiale il Karl Marx-Hof è sempre lì, in piedi, e ancora oggi continua a svolgere la sua funzione, pur con i limiti dell’inevitabile obsolescenza. Quello che pare non esista più, purtroppo, è lo spirito comunitario tanto sentito negli anni pre e immediatamente post bellici, andato disperso, come tante altre cose, in questi nuovi e solitari “tempi moderni”.