L’arrivo a Mosca è un salto indietro nel tempo color verde scuro e marrone tabacco, come le insegne non digitali dell’aeroporto. Tutto inizia con una lente d’ingrandimento: il passaporto viene riverificato più volte, nei minimi dettagli, ed è come se la poliziotta, con il suo neo sul lato destro nel naso, potesse vedermi dentro.
La periferia riempie subito gli occhi di luci, indirettamente connesse alle vite che scorrono e sussultano all’interno di palazzi identici ed enormi che passano veloci lungo la strada verso il centro. Ogni esistenza ha la propria temperatura: i Kelvin aumentano di tanto in tanto, andando dal giallo al blu e creando così un ritmo e una tensione che conferiscono una certa umanità a quelle strutture oscure dalla simmetria quasi spaventosa.
La città al risveglio è imponente, esagerata. Il grigio, nelle sue mille gradazioni, è il colore dominante, sia che esso si declini nel cielo sempre nuvoloso, nella neve inquinata o nei fumi che escono dalle ciminiere e dai tubi di scappamento di auto talmente sporche che hanno perso la targa. Questa idea di Mosca in monocromo sparisce solo di notte, quando il cielo si trasforma in mille sfumature artificiali e il grigio si nasconde dietro una quantità enorme di neon lampeggianti, saltellanti, accecanti. I secondi scorrono rapidi alla rovescia, indicando il tempo che resta per attraversare le strade che hanno troppe corsie.
Il luogo che vuoi raggiungere si trova costantemente dalla parte opposta, giusto di fronte a te che cerchi disperatamente quelle strisce pedonali di dimensioni sovrumane che si rivelano una delle cose più rare da trovare. Il traffico pedonale scorre infatti incalzante sottoterra, sfruttando i corridoi dedalici delle stazioni della metropolitana, a volte in marmo, con decori opulenti e a volte talmente bassi da rischiare di toccare il soffitto ricoperto di piastrelle con la testa. Le persone che si spostano sono così tante che esiste un senso di percorrenza, da rispettare assolutamente per non essere riconosciuti e giudicati con sguardo di rimprovero.
Le distanze sono diverse da quelle cui siamo abituati, e i minuti passano molteplici tra una fermata e l’altra. Nel caso in cui tu debba cambiare linea, essendo la segnaletica rigorosamente solo in russo, non puoi far altro che improvvisare, sperando di aver scelto la direzione giusta mentre le scale mobili ti portano lentamente verso il centro della Terra.
Lo zaino, al ritorno verso Bruxelles, è pieno di cosmo e conquista dello spazio, del profumo del borsch rosso mattone (zuppa tipica a base di barbabietole) e di tante contraddizioni: da un lato un vecchio luna park abbandonato con un ottovolante in movimento e dall’altro un’immagine di Mosca dove tutto è sotto il controllo vigile di poliziotti con il colbacco e il mantello che tocca i piedi.
Verso lo spazio:
Gli angoli retti e il quasi monocolore delle Sette Sorelle (gruppo di grattacieli costruiti tra il 1947 e il 1957 durante la fine del periodo stalinista ) si accostano e scontrano con le cupole delle chiese ortodosse disseminate ovunque ed immediatamente riconoscibili, come quella di San Basilio che, grazie ai suoi colori, è entrata nell’immaginario comune insieme alla Piazza Rossa. Chiese, musei, icone di legno e oro di Madonne che toccano con la loro guancia quella del Bambino, in un gesto di tenerezza infinita che è lontano dalla percezione generale di tutti quegli spazi immensi che sembrano inabitati ed inabitabili.
Mosca va osservata di notte, quando il freddo, pungente e illuminato, lascia un segno visibile del tuo respiro, ma soprattutto necessita di tempo per essere capita: lei non fa altro che invitarti a perderti nelle sue strade e in un Paese così grande, da non riconoscersi più.
Solitudine da Taxi: