Nel 1962 la Cina era in ginocchio. L’economia stentava a riprendersi e fame, povertà, carestie imperavano in ogni angolo della Repubblica. Il leader del Partito Comunista, Mao Zedong, aveva promesso un grande balzo in avanti, uno sforzo di qualche anno che avrebbe proiettato il paese in un benessere pari a quello dell’Unione Sovietica, della Gran Bretagna e degli Stati Uniti d’America. Il popolo aveva ubbidito, il popolo aveva lavorato…
Il popolo, però, stava morendo

Mao credeva nella mobilitazione delle masse, credeva che la fede politica avrebbe trasformato la Cina, ma, dati alla mano, furono circa 40 milioni le vittime della sua politica del Grande balzo in avanti; una scellerata riforma socio-economica che, fra inedia, atti di cannibalismo e impossibilità a procreare per il troppo lavoro, rischiò di far implodere il paese.

A partire dal 1963 il Partito cambiò registro e cercò di rimediare a un decennio di errori e orrori.
Ma come si era giunti a quel punto?

Tutto ebbe inizio il 1° ottobre del 1949, quando i comunisti cinesi vinsero la guerra civile e proclamarono la nascita della Repubblica Popolare. Mao ereditò la gestione di una Cina rurale, dove usi e costumi antiquati scandivano l’esistenza della popolazione. L’economia era basata per lo più sull’agricoltura e la classe dominante corrispondeva ai grandi e ricchi proprietari terrieri. Nella sua visione, però, il paese doveva imboccare la via del comunismo e chiese aiuto a Stalin. Il leader sovietico gli fornì armi, strumenti agricoli e consulenti. Dal canto suo, la Cina si impegnò a rimanere nella sfera d’influenza sovietica, ad adottarne il modello economico e a ripagare il debito contratto.

La tappa successiva fu la pianificazione di una grande rivoluzione delle fondamenta socio-economiche del paese. Mao voleva che l’agricoltura passasse subito sotto il controllo dello stato e sovvenzionasse lo sviluppo industriale. Si trattava di una mossa molto azzardata e, dopo lunghe discussioni con i membri più moderati del partito, si giunse a un compromesso.
Il governo requisì le terre dei grandi agricoltori, circa 47 milioni di ettari, e le ridistribuì alle classi meno agiate. Quel gesto alla Robin Hood, però, ebbe delle conseguenze. I contadini indigenti si ritrovarono a possedere degli appezzamenti che potevano sfruttare a proprio piacimento, ma a patto di cedere una percentuale del raccolto allo stato. I grandi agricoltori, invece, si ribellarono e nacquero delle sommosse popolari che il partito sedò con la forza.
Grazie alla sottrazione delle terre, Mao e i suoi collaboratori si guadagnarono la fiducia del popolo e avviarono, in maniera graduale, un programma di collettivizzazione delle campagne. La replica di quel che era successo nei territori dell’Unione Sovietica con l’esproprio delle terre dei Kulaki.

Già nel 1949 nacquero le Squadre di mutuo soccorso, che riunivano dai 5 ai 15 nuclei familiari. I contadini unirono le forze, le terre, il bestiame e gli strumenti per produrre sia abbastanza raccolto per nutrirsi, sia eccedenze da vendere a basso prezzo allo stato. Con quelle eccedenze il partito avrebbe finanziato lo sviluppo industriale, ma, nonostante dei risultati incoraggianti, dopo pochi anni Mao ebbe il sentore che il benessere degli agricoltori avrebbe portato alla nascita di una nuova classe di grandi proprietari terrieri. Una simile eventualità equivaleva a un passo indietro, perciò, nel 1953, istituì le Cooperative semplici, con un massimo di 40 famiglie. In sostanza, il passo indietro ci fu eccome, ma chi lo vide fu il popolo, che si ritrovò a restituire allo stato gli appezzamenti che da anni gestiva in quasi totale autonomia. Per rispondere al malcontento delle zone rurali della Cina, però, Mao rincarò la dose e, nel 1956, ci fu il passaggio alle Grandi cooperative, composte da 300 unità familiari.

Questa prima fase della riforma agraria portò a risultati modesti, e i membri più moderati del partito sollevarono dei dubbi sulla strategia di Mao. Mentre in Cina i vertici ragionavano sul da farsi, in Russia, Nikita Chruščëv denunciò tutti i crimini di Stalin. Ne condannò il culto della personalità e la scellerata politica di collettivizzazione delle campagne. La notizia ebbe un’eco impressionante e Mao si ritrovò nell’occhio del ciclone. Le analogie fra lui, Stalin e le rispettive riforme erano palesi, e c’era il rischio che il partito perdesse il consenso popolare. In parole povere:
Doveva rinsaldare il suo legame con i cinesi e distaccarsi dal modello sovietico

A quel punto si giocò la carta della Campagna dei Cento Fiori. Con la frase “lasciate che fioriscano cento fiori, che cento scuole di pensiero si confrontino”, in un discorso alla nazione inaugurò un periodo di libero dibattito, dove, appunto, il governo si svincolò dall’ombra di Stalin e invitò il popolo a esprimersi in critiche costruttive.
Le critiche arrivarono eccome, e gli intellettuali sollevarono un numero impressionante di dubbi sui leader comunisti. Nel complesso, le reazioni negative, che prima giacevano nel silenzio, superarono le aspettative e, dacché cento fiori dovevano sbocciare, circa mezzo milione di nemici del partito furono deportati nei campi di lavoro, dove morirono di stenti. È bene sottolineare che non conosciamo la vera natura della Campagna, se partì con le giuste intenzioni o se si trattasse di un’astuzia per individuare i dissidenti politici. In ogni caso, Mao emarginò chi gli era ostile e rinsaldò il suo legame con i filo-maoisti.

Alla scadenza del primo piano quinquennale concordato dal partito, ovvero nel 1957, i risultati non erano quelli sperati, ma la Cina doveva diventare una grande nazione e Mao fissò nuovi obiettivi: chiese un raccolto annuo di 450 milioni di tonnellate di cereali e il raddoppio della produzione di acciaio. Voleva spingere il piede sull’acceleratore e raggiungere, se non superare, l’industria siderurgica dell’Inghilterra entro quindici anni.

Con una folle e irrealistica promessa, ebbe inizio, nel 1958, la politica del Grande balzo in avanti. Già dal nome si poteva intuire l’eccessivo ottimismo di Mao. La Cina doveva compiere un grande balzo in avanti per spingere al massimo le sue fabbriche e rivaleggiare con delle economie straniere molto più avanzate. Per fare ciò ribadì che industria e agricoltura dovevano viaggiare in parallelo: dei grandi raccolti equivalevano a grandi eccedenze da esportare per sostenere l’industria pesante. Com’è facile immaginare, chi pagò il dazio della sua utopia fu il popolo.

Circa 100 milioni di cinesi si prodigarono per costruire strade, ferrovie e infrastrutture che favorissero l’avanzamento tecnologico. Nelle campagne, invece, ci fu la definitiva abolizione della proprietà privata e nacquero le Comuni popolari, che ospitavano fino a 20.000 famiglie.
All’interno di questi immensi campi agricoli la comunità era al primo posto
Nessuno possedeva niente e tutto era in comune. La sua sorveglianza spettava a delle piccole milizie e ai quadri, ovvero i membri del partito che dovevano regolamentare lo svolgimento delle attività per raggiungere gli scopi prefissati. Il concetto di unità familiare scomparve e ogni persona che abitava nella comune era una sorta di ingranaggio che, insieme agli altri, andava a completare un gigantesco macchinario. Intorno alle comuni sorsero grandi distese di campi, caserme, dormitori e mense. Era necessario che anche le donne si prodigassero per lo sforzo agricolo e, grazie alla costruzione di asili e scuole, il partito le liberò dagli obblighi della maternità. Le persone dovevano raggiungere degli obiettivi giornalieri e, anziché una normale retribuzione in denaro, i quadri gli riconoscevano dei punti lavoro, che servivano per riscattare agi e, in alcuni casi, maggiori quantità di cibo.

Ogni comune era studiata per essere autosufficiente ma si trattava di tanti piccoli regimi totalitari, dove non c’era alcuna libertà d’espressione. La propaganda politica era ovunque, nei dibattiti, negli incontri e nelle canzoni che accompagnavano, dall’alba al tramonto, le giornate lavorative, e i quadri spingevano i propri sottoposti a compiere degli sforzi immani per il bene della Cina. Proprio i quadri, che, come si è detto, rappresentavano il partito all’interno delle comuni, non avevano un’istruzione specifica, ma decidevano il modus operandi delle coltivazioni. Le loro direttive non seguivano alcuna logica scientifica e, pur di produrre raccolti molto più alti delle aspettative, si affidavano a teorie agricole prive di fondamento, come la semina ravvicinata o in profondità. Secondo questa bizzarra rilettura della botanica, due semi diversi non sarebbero mai entrati in competizione fra loro e, addirittura, si poteva arare fino a 3 metri di profondità per favorire la crescita di radici più forti.

Ma le assurdità non si esaurirono qui. Il partito individuò anche una serie di nemici naturali e fomentò la controversa Campagna di eliminazione dei quattro flagelli. Per far fronte alla scarsità dei raccolti, Mao ordinò l’eliminazione dei passeri, che, a suo dire, si nutrivano dei cereali e danneggiavano i campi. I contadini si dovettero impegnare giorno e notte nello spaventarli e impedirgli di posarsi sugli alberi, affinché morissero di sfinimento. Ne uccisero milioni in tantissimi modi. L’evento, però, ebbe delle ripercussioni. Con piccoli volatili fuori dai giochi, il titolo di nemico dello stato passò alle cavallette, che, in assenza dei loro predatori naturali, dilagarono e contribuirono alla futura carestia. Il partito volse le sue attenzioni anche ai ratti e alle zanzare, ma, nonostante i provvedimenti, la situazione delle campagne non migliorò e, fra la quasi totale estinzione dei passeri e l’uso eccessivo di veleni e pesticidi, l’unico risultato concreto fu un colossale squilibrio ecologico.

L’ultimo dei grandi errori di Mao fu sul piano anagrafico e logistico. All’epoca la Cina godeva di una formidabile crescita demografica e i cinesi aumentavano di circa il 2% ogni anno. L’agricoltura, martoriata da politiche assurde, non poteva sfamare tutti e, al contempo, produrre grandi eccedenze.
Con lo sfruttamento intensivo di un popolo sempre più numeroso da un lato e l’evidente impreparazione tecnica dei quadri dall’altro, dal 1959 al 1961, ebbe inizio una grande carestia.
Gli insuccessi non scoraggiarono Mao, che pur di proseguire con il suo utopico balzo in avanti mise in competizione fra loro le varie comuni. Chi riusciva a produrre di più otteneva delle ricompense, e la prospettiva di un riconoscimento personale da parte del partito spinse i quadri a raggiungere gli obiettivi stabiliti a discapito del benessere della popolazione.
Ciò che prima era destinato a sfamare i lavoratori andò allo stato, e i morti per inedia aumentarono a dismisura

Nella primavera del 1959 i raccolti continuavano a scarseggiare, ma il leader comunista si dimostrò sordo alle problematiche della sua politica e, anziché fermarsi per salvaguardare il benessere delle persone, chiese la produzione di circa 100 milioni di tonnellate d’acciaio entro tre anni. Quel nuovo e, a dir poco, irragionevole progetto, coinvolse ancora una volta gli agricoltori e, all’interno delle comuni, nacquero dei rudimentali altiforni da cortile.

Molte donne si tagliarono i capelli per mescolarli al fango e creare una sorta di amalgama atta a rinforzare quelle nuove strutture improvvisate. Più in generale lo sforzo umano si concentrò sull’industria e la stragrande maggioranza dei cinesi iniziò a trascurare i campi di grano. Per il bene della Cina tutti dovevano contribuire e, poiché nelle comuni non esisteva il concetto di proprietà privata, i quadri requisivano qualsiasi oggetto metallico e lo gettavano negli altiforni. Ad esempio, nessuno più cucinava in casa e, grazie alle mense in comune, pentole e vettovaglie non servivano. Lo stesso ragionamento lo si applicava al mobilio, che divenne il carburante principale per alimentare le fornaci. Nei fatti la produzione si moltiplicò, ma, com’è facile intuire, l’acciaio delle comuni si rivelò inutilizzabile.

Nell’estate del 1959 il partito si riunì per fare il punto della situazione. Era in corso una grande carestia, gli altiforni delle comuni erano inefficaci e bisognava correggere la rotta del Grande balzo. Il ministro degli esteri, Peng Dehuai, si schierò contro Mao e, ironia della sorte, lo sollecitò a fare un passo indietro. Dal suo canto, Mao credeva che tutti i problemi logistici derivassero dalla negligenza delle comuni e non dall’infattibilità dei suoi progetti, perciò costrinse Dehuai alle dimissioni.

L’eco della sua folle visione politica giunse alle orecchie di Chruščëv, che intravide delle similitudini poco incoraggianti con la collettivizzazione di Stalin e pregò Mao di non commettere gli stessi errori. Il suo omologo cinese, però, fece orecchie da mercante e i rapporti fra le due nazioni comuniste si interruppero.

Sempre nel 1959 fu eletto, come presidente della Repubblica Popolare, il moderato Liu Shaoqi, che, proprio come Dehuai, non era affatto entusiasta delle conseguenze del Grande balzo in avanti. Con una situazione interna gravissima e un numero di vittime che non accennava a diminuire, nel 1961 ordinò un’indagine per far luce sulla vicenda e scoprì che, su ordine di Mao, il partito aveva fornito delle statistiche molto ottimiste, sia per quanto riguardava i morti, sia per le quantità di grano e di acciaio prodotte. Seppe che la carestia aveva colpito anche i suoi familiari e che i quadri locali gli avevano nascosto la verità.

Ormai era chiaro che la Cina non poteva permettersi di assecondare ancora la follia di Mao e, nel 1962, Shaoqi riunì tutti i membri del partito e oltre 7000 quadri per fermare il Grande balzo. Ancora una volta Mao sostenne che la carestia aveva come colpevoli i contadini delle comuni e la loro negligenza, oltre che una serie di calamità naturali, come siccità e alluvioni. Nonostante le sue proteste, Shaoqi non volle sentir ragioni e ribadì la totale responsabilità del partito. Il braccio di ferro fra i due si risolse con l’abbandono del programma di collettivizzazione e la cessazione dell’inutile produzione di acciaio attraverso gli altiforni da cortile. Da quel momento la Cina si aprì al mercato libero e alla privatizzazione dei campi.

I dissidi fra Mao e Shaoqi continuarono con la Rivoluzione Culturale degli anni ’60 e il celebre Libretto Rosso, ma questa è un’altra storia.

In conclusione, il secondo piano quinquennale di Mao fu un fallimento e, anziché durare fino al 1963, si chiuse con due anni di anticipo. Il perché corrisponde a un numero: oltre 40 milioni di vittime (ma le stime sono variabili di molte milioni di persone morte), senza contare il drastico calo di natalità dovuto all’impossibilità di procreare a causa dei disumani turni di lavoro. Quello che doveva essere un grande balzo in avanti si era rivelato un nefasto passo indietro a discapito del popolo.