Opere d’arte erotica talmente esplicite da risultare imbarazzanti – almeno per i casti occhi dei visitatori dell’800 e del ‘900 – quelle rinvenute a Pompei ed Ercolano fin dall’inizio dei primi scavi moderni, voluti dai sovrani di Napoli, i Borbone, a partire dal 1748 e proseguiti anche attraverso le varie vicissitudini politiche del secolo successivo, come l’effimera parentesi della Repubblica Napoletana e del breve regno del francese Gioacchino Murat.

Nel 1816 Ferdinando di Borbone, unificando diverse collezioni d’arte, istituisce il “Real Museo Borbonico” (oggi Museo archeologico nazionale di Napoli), dove trovano collocazione anche i reperti provenienti da Ercolano e Pompei, fino ad allora custoditi nella Reggia di Portici. Già in quella prima sistemazione, chi cura l’esposizione delle “cose oscenette”, suggerisce che siano radunate in una sala riservata, come di fatto accade a partire dal 1794, per volere del pittore di corte e consulente artistico Philipp Hackert.
Sempre lui consiglia di riservare, nel futuro Real Museo in fase di allestimento, “alcune stanze libere per riporvi il Priapismo ed altre cose, per cui ci vuole un Dispaccio particolare per vederle”.

Il consiglio del pittore non viene inizialmente ascoltato, almeno fino al 1819, quando l’erede al trono Francesco I, in compagnia della moglie Maria Isabella di Borbone-Spagna e della figlia Luisa Carlotta, di nove anni, rimane letteralmente scioccato alla vista di quei reperti d’arte erotica considerati scandalosi, perché veramente troppo espliciti, e non solo per le pudiche fanciulle e donne maritate, ma più in generale per tutti i visitatori.
Occorre provvedere, per salvare la rispettabilità dei Borbone e del Museo stesso, oltre che evitare sia inutili imbarazzi a chi si trovi davanti a simili sconcezze, sia il sarcasmo di qualche visitatore europeo, che non esita a fare paralleli tra il libertinaggio dei Pompeiani e quello dei Napoletani dell’epoca.
Francesco I dunque esorta (leggi: ordina) a “chiudere tutti gli oggetti osceni, di qualunque materia essi fossero, in una stanza; alla quale stanza avessero poi unicamente accesso persone di età matura e conosciuta morale”: nasce così il Gabinetto Segreto degli oggetti osceni, poi rinominato degli oggetti riservati, dove sono inizialmente raccolti centodue “infami monumenti della gentilesca licenza”, secondo un primo inventario curato dal direttore dell’epoca.

Negli anni successivi il furore censorio porta a nascondere al pubblico anche tutte le opere d’arte, non solo pompeiane, considerate “oscene”, ovvero le Veneri ignude, come ad esempio la Venere Callipigia, della Collezione Farnese.
Nel corso degli anni il Gabinetto Segreto continua comunque a suscitare la curiosità di molti visitatori, anche stranieri, come i giovani della nobiltà europea impegnati nel Gran Tour, e lo sdegno di chi si fa paladino della moralità, come quel preoccupatissimo sacerdote (di cui non si conosce il nome) che supplica il re di distruggere tutte le opere contenute nel Gabinetto:
Quella stanza è l’inferno, corrompe la morale delle persone più caste, religiose e sante
Verrebbe quasi da pensare che parlasse per esperienza personale…
Addirittura – vedi alle volte come la politica manipola arte e storia – all’indomani dei moti rivoluzionari del 1848 (la “primavera dei popoli” finita comunque, almeno nel Regno delle Due Sicilie, con un ritorno allo status quo) i Borbone vedono negli “infami monumenti”, espressione di una sessualità molto più disinibita rispetto a quella del tempo, quasi un parallelo con l’anelito del popolo a una maggior libertà, e così nel 1851 il Gabinetto Segreto finisce murato, perché “se ne disperdesse per quanto era possibile la memoria”.

Leggenda vuole che Giuseppe Garibaldi, quando arriva a Napoli nel 1860, decreti l’immediata “liberazione” del Gabinetto Segreto, con gran fracasso di muri abbattuti. In realtà la vicenda è un po’ più semplice: se è vero che il Generale ordina di rendere nuovamente fruibile al pubblico la collezione (tranne ai fanciulli e ai membri del clero senza permesso), è altrettanto vero che non si trova davanti un muro, ma solo un cancello dotato di tre serrature, le cui chiavi sono conservate da tre diversi incaricati. Una delle chiavi non si trova e quindi Garibaldi ordina di “scassinare le porte”.

La “liberazione” tuttavia dura poco. Dopo l’unità d’Italia anche i nuovi sovrani, i Savoia, mostrano uno spiccato senso del pudore, e al Museo si torna a richiedere un permesso, concesso dal soprintendente, per accedere al Gabinetto. Almeno fino al 1901, quando uno zelante Ettore Pais, nuovo direttore del museo, riesce a interdire tutte le visite se non motivate da una comprovata esigenza di studio.
E se un eminente storico dell’antichità come Pais aveva giudicato priva d’interesse scientifico la collezione erotica pompeiana, durante l’era fascista le cose vanno oltre.
Quei reperti mostrano un aspetto dell’antica Roma, libertina e viziosa, che certo i fascisti non gradiscono per la costruzione del loro mito, tanto che durante il ventennio, per vistare il Gabinetto Segreto, occorre un permesso firmato personalmente dal Ministro dell’Educazione Nazionale (che chiude al pubblico anche il lupanare di Pompei).

A onor del vero le cose non cambiano nemmeno dopo il 1945, nonostante la curiosità mostrata dal pubblico nei confronti di questa collezione, che nell’immaginario di molti doveva svelare chi sa quali conturbanti esperienze erotiche.
Ancora nel 1954, a fronte dell’italico malcostume di arrivare per vie traverse (con mance ai custodi) dove non si può con mezzi leciti, la direzione del Museo è costretta a ricordare che “è fatto assoluto divieto ai custodi di richiamare l’attenzione o comunque segnalare la presenza del Gabinetto […], possono visitare la collezione solo le persone adulte di ambo i sessi qualificantesi come studiosi e comunque le persone adulte di serio aspetto“.

Devono passare ancora quasi vent’anni prima che il Gabinetto Segreto, così come il lupanare di Pompei, nel 1971 possano finalmente essere visitati liberamente, salvo dai minorenni.

Ma le vicissitudini di questa collezione non finiscono lì: a pochi anni dalla riapertura al pubblico, lavori di ristrutturazione del Museo obbligano a una nuova chiusura, fino alla definitiva riapertura (solo i minori di 14 anni devono essere accompagnati) avvenuta con l’avvento del nuovo millennio e, speriamo, con una migliore consapevolezza sull’importanza di questa raccolta a tema erotico che, nonostante la difficoltà a inquadrare i reperti avulsi dal loro contesto originario, contribuisce ad allargare la visuale sulla storia della sessualità dei Romani, che non significa sbirciare dal buco della serratura, ma comprendere come e quanto questa fosse parte della vita quotidiana, connessa a una religiosità intrisa di superstizione e riti apotropaici.
Ecco che allora le rappresentazioni del dio Priapo (il suo culto arriva dalla Grecia), con un fallo esageratamente sovradimensionato, si spiegano con la sua funzione di divinità preposta, in particolare nel mondo romano, alla fertilità vegetale e animale. La caratteristica fisica della divinità assume anche una funzione scaramantica contro il malocchio, e per questo motivo un’immagine di Priapo (o semplicemente di un pene eretto) veniva spesso posta all’ingresso delle abitazioni pompeiane.

Uguale funzione hanno i tintinnambuli – dotati di campanellini acchiappa-spiriti – appesi alle porte di case e botteghe sempre come prevenzione contro malocchio e malasorte. Addirittura, almeno nel caso del titinnambulum in forma di gladiatore, si cerca anche di strappare una risata mostrando l’uomo che combatte con il suo stesso pene, dal minaccioso aspetto di pantera.

Gli affreschi a tema erotico, così come altri oggetti che decoravano le case e i giardini della nobiltà pompeiana, rimandano spesso a personaggi mitologici, come Leda e Zeus, Polifemo e Galatea, oppure l’Ermafrodito e il Satiro: sono dunque espressioni artistiche che raccontano storie della cultura greco-romana, dove la sessualità era rappresentata senza troppe inibizioni.

Sono invece di modesto valore artistico gli affreschi rinvenuti nei lupanari, dove venivano rappresentate, a mero scopo commerciale, le diverse posizioni dell’accoppiamento. Non mancano nemmeno scene caricaturali, come quella che mostra dei pigmei nell’atto di accoppiarsi su una barca sul Nilo, o come quella del dio Pan che, preso da desiderio di una donna addormentata, scopre che si tratte di un ermafrodito e tenta di sfuggire all’accoppiamento, perché infecondo.


Per riassumere, grazie alla collezione del Gabinetto Segreto si possono conoscere molti lati della sessualità romana: credenze religiose e aspetti superstiziosi/apotropaici ad esse legati, rappresentazioni mitologiche, mera pornografia commerciale, poetica rappresentazione di incontri amorosi e qualche altro oggetto che ancora non trova spiegazione con il nostro metro di giudizio, a conferma che il passato non sempre può essere interpretato né tantomeno giudicato, men che meno censurato.
