Gli arabi e il deserto, un’associazione di idee quasi spontanea ma, per gli ormai quasi scomparsi Ma’dan, sicuramente non corretta. Il loro nome significa “abitante delle pianure”, termine usato in senso dispregiativo dalle tribù che vivono nel deserto.
In realtà i Ma’dan hanno vissuto per secoli nelle aree paludose formate dai mille rivoli del delta dei più importanti fiumi dell’antica Mesopotamia, il Tigri e l’Eufrate. Ciò che rimane oggi di un ecosistema millenario, quasi completamente distrutto da una politica folle, si trova nella parte sudorientale dell’Iraq, al confine con l’Iran.
Gli “arabi delle paludi” non sono mai stati un popolo unico, ma costituivano una comunità composta da tribù diverse, che nel tempo aveva sviluppato una cultura condivisa, capace di sfruttare le risorse naturali della zona umida in cui vivevano.
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I Ma’dan si occupavano di agricoltura, coltivando principalmente riso, ma anche orzo, miglio e grano, di allevamento dei bufali d’acqua, e di pesca, praticata con lance dalla punta avvelenata. Era disonorevole invece la pesca con le reti, consentita solo ad una tribù di “basso livello sociale”. Anche la produzione di stuoie per uso commerciale era malvista dai Ma’dan più tradizionalisti, malgrado fosse, alla fine del XX secolo, un’attività che dava lavoro ad un terzo della popolazione delle paludi.
Secondo alcuni studiosi, gli abitanti delle pianure discenderebbero dagli antichi Sumeri, sia per il modo simile di praticare l’agricoltura, che di costruire le case. La tipica abitazione Ma’dan era costruita su un kibasha, un’isola di canne artificiale, e la casa stessa era fatta di canne piegate ad arco. Malgrado queste eredità culturali, è difficile che i Ma’dan, di cui si ha conoscenza storica a partire dal IX secolo, possano discendere dai Sumeri, che si dissolsero, come etnia distinta, fin dal 1800 aC.
Più probabilmente, i Ma’dan discendono, almeno in parte, dai beduini del deserto, con i quali condividono molti aspetti culturali.
Nel 1950, le paludi dell’antica Mesopotamia contavano circa mezzo milione di abitanti, oggi si stima che siano circa 1600 le persone che vivono ancora nelle tradizionali capanne. L’esodo dalle paludi avvenne agli inizi degli anni ’90, quando il governo iracheno di Saddam Hussein deviò il corso dei fiumi per prosciugare le paludi, che offrivano rifugio a dissidenti e fuggiaschi, ma anche ai soldati dell’esercito nemico dell’Iran.
I villaggi Ma’dan furono attaccati e distrutti, l’ambiente naturale desertificato, le acque non prosciugate furono avvelenate e gli abitanti costretti a trasferirsi in villaggi sulla terraferma, o a fuggire in Iran. Il loro stile di vita tradizionale e la loro cultura furono praticamente cancellate.
Dopo l’invasione americana dell’Iraq, nel 2003, il processo di prosciugamento si è interrotto, e molte aree sono tornate ad essere invase dall’acqua. Tuttavia, è molto difficile che gli arabi delle paludi tornino a vivere una vita caratterizzata da estrema povertà, mancanza di servizi sanitari e scolastici, problemi che rendono i Ma’dan reinsediati una popolazione di “diseredati”.