Il disastro nucleare di Fukushima 10 anni dopo

L’11 marzo di quest’anno ricorrerà il decimo anniversario del Grande terremoto del Giappone orientale e del successivo tsunami che sconvolse il tratto di costa settentrionale affacciato al Pacifico, che diede inizio a un dramma in grado di far sentire le sue conseguenze per almeno quattro decenni. Tanto, infatti, è il tempo necessario per decommissionare la centrale nucleare di Fukushima Daiichi e decontaminare il terreno dai radioisotopi fuoriusciti dai tre reattori fusi a causa del mancato raffreddamento del combustibile nucleare. Il costo dell’intera operazione è calcolato in 202 miliardi di dollari, ma altre stime di elevano la cifra sino a 785 miliardi di dollari.

Fotografia di proprietà dell’autore dell’articolo, ©Piergiorgio Pescali:

L’incidente di Fukushima, che assieme a quello di Chernobyl è l’unico catalogato a livello 7 della scala INES, ha costretto all’evacuazione 170.000 persone e contaminato più di 3.000 chilometri quadrati di terreni, molti dei quali agricoli.  Oggi, a distanza di dieci anni, sono ancora 29.000 gli evacuati che non possono rientrare nelle loro case, e 337 km2 di superficie continuano ed essere off-limits.

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Lentamente l’economia, in particolare quella agricola biologica che produceva prodotti rinomati in tutto il Giappone, si sta riprendendo, ma ben altri problemi oggi affliggono la popolazione. In primo luogo, la perdita di fiducia nelle istituzioni. La falsificazione dei dati sulle radiazioni fuoriuscite dall’impianto nei primi giorni dell’emergenza effettuate del governo e gli scandali nazionali che hanno coinvolto politici, amministratori locali e diverse compagnie elettriche impegnate nel programma atomico hanno scardinato il sistema di consenso su cui si basava la politica nucleare giapponese.

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Dalla parte opposta, alcune associazioni ambientaliste e antinucleari (per lo più estranee al contesto locale e nazionale) hanno deliberatamente esagerato la gravità dell’incidente stilando rapporti corredati da dati privi di basi scientifiche, manipolando fotografie e mappe. Questa massa di informazioni rimescolate ad hoc hanno indotto i consumatori a evitare di acquistare prodotti “Made in Fukushima” anche se questi, già dal 2012 erano sicuri e controllati. I piccoli produttori, molti dei quali appartenenti a movimenti antinucleari storicamente radicati nel territorio, si sono sentiti traditi e isolati, trovandosi a dover combattere quelli che avrebbero dovuto essere i loro stessi alleati.

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Altra grande preoccupazione è l’invisibile: sebbene oggi la radioattività a Fukushima sia rientrata entro livelli accettabili, migliaia di persone continuano a vivere con una spada di Damocle sopra la testa. I radionuclidi respirati e ingeriti nei primi mesi dopo la fusione dei reattori possono favorire l’insorgenza di tumori anche a distanza di anni, sebbene nessuno potrà mai affermare con certezza che un eventuale cancro possa essere stato causato dalle radiazioni liberate dalla centrale, come hanno rilevato i numerosi rapporti redatti dalle commissioni di ricerca scientifiche e dell’UNSCEAR.

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A tutta questa paura si è aggiunta anche la recente decisione di scaricare in mare le acque reflue dei reattori che, dopo essere state depurate dai radioisotopi assorbiti, contengono ancora una leggera quantità di trizio. Ricercatori e scienziati oceanografi hanno affermato che se questo rilascio avverrà in modo controllato e in un tempo prolungato (tra i 7 e i 33 anni) la radioattività marina delle coste attorno la centrale non subirà alterazioni, ma le associazioni ambientaliste hanno già contestato i loro rapporti.

La battaglia di Fukushima si sta ora spostando sul mare…

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