Settembre 1943: il sud dell’Italia non è più, almeno nel senso letterale del termine, una zona di guerra. I napoletani cacciano i tedeschi ancor prima dell’arrivo delle truppe alleate, durante le storiche quattro giornate di insurrezione popolare, tra il 27 e il 30 settembre.
Uno “scugnizzo” armato
Le truppe tedesche, durante la fuga, non cessano di appiccare incendi e sterminare la popolazione civile, mentre il 1° ottobre entrano a Napoli le forze degli Alleati. I napoletani festeggiano la liberazione, ma la città resta in guerra contro un altro nemico:
La fame
Napoli distrutta dalla guerra
Il mercato nero dei generi alimentari è già fiorente durante la guerra, ma dopo l’armistizio assurge a fenomeno incontrastabile, alimentato anche dai beni che arrivano grazie agli statunitensi. Beni di consumo (ad esempio le sigarette) che non raggiungono le zone interne, perché le comunicazioni fra i paesi costieri e le remote campagne di Campania e Lucania sono interrotte.
Molti abitanti di Napoli e di Salerno, privi di qualsiasi mezzo di sussistenza, acquistano, o in qualche modo entrano in possesso, di questi generi magari non di prima necessità, che vanno a barattare con qualcosa di commestibile, soprattutto nei paesi dell’entroterra lucano: uova, olio carne, etc, da rivendere a Napoli a prezzi esorbitanti, ma non certo accettando le Am-lire (moneta d’occupazione alleata che era carta straccia) ma in cambio di beni personali e familiari anche di molto valore.
2 Marzo 1944: il treno merci 8017 parte da Napoli diretto a Potenza. A Salerno una locomotiva a vapore sostituisce quella elettrica, perché il tratto non è ancora (e non lo sarà fino al 1994) elettrificato, e ne viene aggiunta una seconda, che deve essere portata a Potenza. Entrambe sono agganciate in testa al treno.
Ore 19.00: il convoglio, composto da 47 vagoni (tra i quali 20 scoperti e 35 vuoti) riparte da Battipaglia con il suo carico di merci, ma anche con centinaia di persone salite, più o meno abusivamente, su uno dei pochi mezzi di locomozione in servizio tra la costa e l’interno. A Eboli molti vengono fatti scendere, ma altri ne salgono nelle stazioni successive, fino ad arrivare all’incirca a 600 passeggeri, molti dei quali addirittura muniti di biglietto, nonostante si tratti di un treno merci.
E’ mezzanotte, il treno arriva nella sperduta stazione di Balvano. Rimane fermo per circa 40 minuti, con metà dei vagoni all’interno della galleria che precede la stazione. Intanto i fuochisti aggiungono carbone, per dare potenza alle locomotive, in vista della prossima salita. Il fumo ristagna all’interno della galleria, ma i passeggeri dormono e non se accorgono, ma intanto respirano monossido di carbonio.
Ore 0.50: il treno riparte e si inerpica nell’impervio territorio lucano, costellato di salite e gallerie. Il capostazione di Balvano dà il segnale di “partito” al collega della stazione di Bella-Muro, distante circa otto chilometri, dove il merci dovrebbe arrivare in circa 20 minuti. Bella-Muro deve a sua volta mandare a Balvano il segnale di treno “giunto”, che però non partirà mai. I due capistazione non si chiedono come mai il treno non arrivi dopo i venti minuti previsti, ma nemmeno dopo un’ora e, praticamente solo intorno alle 2.40 cominciano a sospettare qualcosa di anomalo.
Ma c’è un problema: tra le due stazioni ci sono solo montagne, gole e gallerie:
Tutto è avvolto nella più profonda oscurità
I due si devono essere detti che, qualsiasi cosa fosse successa, loro non possono fare nulla, e difatti non fanno nulla. Finché, intorno alle 5, un uomo allo stremo delle forze entra nella stazione di Balvano e, con un ultimo filo di voce sussurra, indicando la direzione presa dal treno:
Là, là, sono tutti morti, tutti morti
La Stazione di Balvano – Il ferroviere indica la direzione presa dal treno 8017
Poi perde i sensi. E’ Giuseppe De Venuto, un addetto ai freni del merci 8017, che scende dal treno, praticamente tutto dentro alla Galleria delle Armi, quando sta ormai per soffocare per l’eccesso di anidride carbonica. Riesce a percorrere a ritroso il tratto della galleria, fino ad uscire sui binari all’aperto, dove trova il più esperto collega Roberto Masullo, in pessime condizioni, che ha però la forza di ordinargli di correre alla Stazione di Balvano per dare l’allarme.
A quel punto, il capostazione di Balvano si ridesta dall’incredibile disinteresse dimostrato fino a quell’ora, e avvisa tutte le autorità: carabinieri, Croce Rossa, Comando Alleato a Potenza e Municipio di Balvano. Parte una locomotiva di soccorso, e quando giunge in prossimità del treno la scena è agghiacciante:
Due soli vagoni sono all’esterno della galleria, mentre i binari sono disseminati di cadaveri
Per far tornare il treno in stazione, occorre spostare i corpi dei morti. Nei vagoni fermi all’interno della galleria, i viaggiatori, ammassati come sardine, sembrano aver trovato una fine priva di sofferenza, passati probabilmente dal sonno alla morte senza accorgersene. I fortunati che viaggiano nei due vagoni di coda dormono invece un sonno profondo, quasi malato, ma almeno si salvano.
Perché il treno 8017 è rimasto bloccato all’interno della Galleria delle Armi?
Una serie di concause ha portato alla tragedia, definita in tempi recenti Il Titanic ferroviario: il treno si blocca all’interno della galleria, lunga circa due chilometri e dotata di scarsa areazione, dove già c’è una bella concentrazione di monossido di carbonio, dovuta al recente passaggio di un altro treno; le due locomotive sono entrambe in testa al treno, anziché una in coda e una in testa come vorrebbe la prassi; i due macchinisti, quando il treno si arresta, impossibilitati a comunicare tra loro, agiscono in maniera contraria: uno tenta di far retrocedere il treno, per uscire dalla galleria, mentre l’altro, pensando che l’arretramento sia dovuto a una perdita di potenza, tenta di spingerlo a tutta forza, aumentando al massimo la potenza. Intanto, in coda, quando il convoglio comincia ad andare indietro, uno dei frenatori, come da regolamento, lo blocca.
I macchinisti e uno dei due fuochisti muoiono per le esalazioni, insieme a un numero imprecisato di passeggeri, da 517 a oltre 600. Molte delle vittime non hanno mai avuto un nome, e sono tutte seppellite in gran fretta in quattro fosse comuni nel cimitero di Balvano.
Alla fine, per questo che è il più grave disastro ferroviario italiano, nessuno paga, non vengono addebitate responsabilità ma addotta una spiegazione che salva tutti:
“una combinazione di cause materiali, quali densa nebbia, foschia atmosferica, mancanza completa di vento, che non ha mantenuto la naturale ventilazione della galleria, rotaie umide, ecc., cause che malauguratamente si sono presentate tutte insieme e in rapida successione. Il treno si è fermato a causa del fatto che scivolava sulle rotaie e il personale delle macchine era stato sopraffatto dall’avvelenamento prodotto dal gas, prima che avesse potuto agire per condurre il treno fuori del tunnel. A causa della presenza dell’acido carbonico, straordinariamente velenoso, si è prodotto l’avvelenamento dei passeggeri clandestini. L’azione di questo gas è così rapida, che la tragedia è avvenuta prima che alcun soccorso dall’esterno potesse essere portato.”
La notizia del disastro ferroviario viene comunque censurata dal Comando Alleato, sia nell’Italia spaccata a metà dalla guerra, sia negli Stati Uniti: si dà conto di un non meglio precisato numero di persone morto per asfissia “in una località dell’Italia Meridionale”.
Le fosse comuni al cimitero di Balvano:
Così, a causa della guerra, “la più insolita e spaventosa catastrofe nella storia delle ferrovie” (così la definirono dei funzionari militari), rimane quasi sconosciuta, come quei disgraziati senza nome mai tornati a casa, dove, forse, qualcuno li aspettava.