Il disastro della Val di Stava: il “Vajont” dimenticato

Stava è una valle del Trentino nord-orientale parallela alla val di Fiemme e non lontana dal passo del Lavazé, il punto di confine tra il Trentino e l’Alto Adige. Prende il nome dall’omonimo rio, affluente del fiume Avisio, che l’attraversa e fa parte del territorio comunale di Tesero.

L’area collega la val di Fiemme alle Dolomiti del Latemar. La località di Pampeago, capolinea della strada della val di Stava, è una zona montana molto turistica: per lo sci in inverno, per le escursioni in estate.

Nonostante si tratti di una periferia geografica rispetto agli agglomerati più popolosi del Trentino come Trento, Rovereto, Pergine Valsugana, Arco e Riva, la val di Fiemme gode comunque della sua centralità: prima, grazie ai diversi passi alpini dolomitici, era uno snodo commerciale tra il Nord Europa e la Serenissima di Venezia. Poi, grazie alle sue montagne (il Lagorai da una parte, le Dolomiti dall’altra), è divenuta uno dei centri turistici più importanti e fiorenti del Trentino. È qui, nella Foresta di Paneveggio tra Predazzo e la valle di Primiero, che il liutaio cremonese Antonio Stradivari tra il 1600 e il 1700 cercava il pregiato legno per costruire i violini, tra gli abeti rossi che popolano le pendici del Lagorai e delle Dolomiti.

Anche la val di Stava, storicamente, è stata un luogo di ricchezza economica: nella sua zona alta, infatti, si trova la miniera di Prèstavel, sfruttata sin dal XVI secolo per l’estrazione dei minerali come la galena argentifera, il quarzo, la fluorite e la calcite.

Fu da quel punto, in uno dei periodi maggiormente frequentati dai turisti, che si consumò uno dei più grandi drammi della storia contemporanea del Trentino e nazionale: il 19 luglio 1985, alle ore 12 e 22, un’onda si alzò dai bacini artificiali situati a monte della val di Stava. In pochi minuti, l’acqua e il fango travolsero a valle tutto quello che incontravano lungo la strada: distrusse diversi edifici della val di Stava, tra cui un hotel durante il pranzo, e parte dell’abitato di Tesero, per poi riversarsi infine nel fiume Avisio. Provocò la morte di 268 persone.

Tesero oggi conta circa 3.000 abitanti: allora ne contava circa 2500, ed è un centro turistico di rilievo, assieme a Cavalese e Predazzo, della val di Fiemme. In quel drammatico 1985, durante la primavera e l’estate ci fu un periodo di abbondanti piogge ma il 19 luglio la giornata era limpida e soleggiata. Nulla, durante quella calda mattinata, faceva presagire che da lì a poco il silenzio e il dolore sarebbe piombato sulla massa di fango che cancellò per sempre la vita di molti residenti e turisti.

La Val di Stava, al contrario del Vajont, non era motivo di forte preoccupazione collettiva per l’incolumità degli abitanti. La miniera, situata a poco più di tre chilometri a nord, si trovava accanto a due bacini artificiali adibiti allo scarico del materiale: si dovevano decantare, consolidare e stoccare i fanghi, come residuo della lavorazione della fluorite. Nel 1960 si decise di costruire l’impianto di flottazione: si poteva ottenere, così, fluorite pura oltre il 90% e fin lì lo scarto era portato nella vicina valle dove scorre il rio Gambìs. Per motivi logistici, dunque, era necessario spostare tutto a pochi metri dal centro industriale di Stava, e nel 1961, nella località Pozzole, fu costruito a 1420 metri sul livello del mare il primo dei due impianti. Adiacente, a monte del primo, il secondo nel 1969: le due grandi pozze d’acqua si elevano l’una sopra l’altra ma non erano visibili dalla strada. Erano nascosti dal ricco bosco circostante.

Le due discariche, in sostanza, prevedevano che l’acqua venisse separata dalla sabbia grazie all’azione centrifuga di un apposito strumento, l’idrociclone. Gli argini si alzavano quindi grazie alla sabbia e maggiore era il volume dello scarto, più alto diventava il muro: dall’iniziale altezza di 9 metri, nel giro di vent’anni crebbe fino a toccare i 25 metri. La cifra, se considerati entrambi gli argini di protezione, raggiunse i 50 metri.

La gestione della struttura mineraria, dopo la seconda guerra mondiale, passò da una Società all’altra: la Montecatini, la Montedison, l’Egam e l’Eni. Al momento della catastrofe, la miniera era in mano, dal 1980, alla società Prealpi mineraria e nel periodo dell’ultima gestione, tra il 1982 e il 1985, l’impianto lavorò anche i materiali allo stato grezzo provenienti da alcune miniere bresciane e sudtirolesi, aumentando così la massa di scarico nel bacino superiore: arrivò a contare, negli anni ‘80, un totale di 52 mila tonnellate di scarto proprio e 130 mila tonnellate di scarto esterno.

Gennaio 1985: dal bacino superiore, un piccolo smottamento dell’argine laterale creò una falla di circa 20 metri, con continue fuoriuscite d’acqua che dovevano, quindi, essere deviate. Servirono mesi per riparare il danno e le condizioni meteorologiche non erano d’aiuto. L’inverno 1984/85 fu particolarmente nevoso e la temperatura mite delle Alpi meridionali, alla fine della stagione, accelerò il processo di disgelo, aumentando la quantità d’acqua verso valle. Per quanto non bastasse, anche la primavera fu densa di precipitazioni: le piogge, in regione, andarono spesso oltre il 20% della media primaverile.

L’acqua, quindi, era ancora più consistente, e nei lavori per drenare i bacini, in tutta emergenza, si dovette ricorrere allo svuotamento delle vasche e, tre settimane prima dell’apertura, ad un nuovo riempimento. Inoltre, furono scoperte altre anomalie: il peso dell’acqua provocò il cedimento delle giunture e la tubazione rotta non riusciva a scaricare, dunque, l’acqua in eccesso.

Si aggiungevano, poi, problemi di natura geologica, orografica e tecnica: dalle perizie post disastro da una parte il terreno dei bacini apparve acquitrinoso e impediva, quindi, il regolare processo di decantazione dei fanghi. Dall’altra il drenaggio non era adeguato, a causa di un’anomalia nell’argine superiore. Inoltre, si aggiungeva il fattore della pendenza: il declivio dei bacini poggiava su una media del 25%.

Il bacino, inferiore e superiore, tornò infine in funzione il 15 luglio 1985: quattro giorni prima del disastro.

19 luglio 1985: l’argine era saturo e la liquefazione provocò lo sgretolamento della sabbia. Alle ore 12:22 minuti e 55 secondi il bacino superiore cedette. Dal bacino inferiore si alzò un’onda nera di 180 mila metri cubi di acqua, sabbia e limo che viaggiò verso valle a 90 chilometri orari provocando il soffio di un vento impetuoso: spazzò via gli alberi, le persone e gli edifici che incontrava lungo la valle di Stava e nel centro abitato di Tesero, e in pochi minuti una tranquilla oasi di montagna si trasformò nello scenario della peggiore delle apocalissi.

L’onda viaggiò per circa 3 minuti, riversandosi infine nel fiume Avisio: si aggiunsero, alla fine della sciagurata corsa, 40-50 metri cubi di altro materiale proveniente, sotto forma di detriti, dagli alberi sradicati e dalle case abbattute. A terra si formò uno spessore di fango alto circa 30 centimetri che copriva un’area lunga 4,2 chilometri e, in superficie, 435 mila metri quadri.

Alla fine verranno distrutti 3 alberghi, 53 abitazioni, 6 capannoni e 8 ponti. Saranno 9 gli edifici danneggiati dalla violenza dell’acqua, compreso anche un antico ponte alto-medievale posto in centro a Tesero.

Il peggior dato sarà quello delle vittime: 268, tra residenti e turisti

28 bambini sotto i 10 anni, 31 ragazzi sotto i 18 anni, 120 donne e 89 uomini. In poco tempo furono mobilitati gli interi corpi dei soccorsi e giunsero sul posto circa 18 mila persone: arrivarono da tutto il Trentino e dal vicino Alto Adige i Vigili del Fuoco, la Croce rossa e Croce bianca, Carabinieri, Polizia, militari del Corpo Alpino, Guardia di Finanza, Corpo Forestale, Unità cinofile, sommozzatori e centinaia di volontari.

Lo straziante recupero dei corpi non fu immediato: la maggior parte furono ritrovati già nelle prime ore dopo il disastro. Serviranno però tre settimane di tempo per rendere la ricerca completa e furono adibiti, a camera mortuaria, diversi spazi climatizzati a Cavalese e ad Egna.

Alcune vittime furono trascinate dalla corrente del fiume Avisio verso il lago di Stramentizzo, al confine geografico tra la val di Fiemme e la val di Cembra. Altre, non riconosciute, riposano nel cimitero delle Vittime di Stava a Tesero.

Il processo di primo grado si aprì presso il Tribunale di Trento l’8 luglio 1988, tre anni dopo la tragedia. Gli imputati erano accusati di Disastro colposo e Omicidio colposo plurimo: tra questi, furono accusati i responsabili della costruzione e della gestione del bacino superiore da cui cominciò il luttuoso evento e quelli del Distretto minerario della Provincia Autonoma di Trento. Seguirono 4 gradi di giudizio: la seconda sentenza della Corte di Cassazione confermò le condanne di Primo Grado il 22 giugno 1992: la reclusione fu ridotta nel corso dei gradi e nessuno dei condannati scontò l’effettiva pena detentiva. Il risarcimento verso i familiari delle vittime e i titolari degli edifici danneggiati ammontò a circa 133 milioni di euro: i fondi sono stati stanziati, a seconda delle percentuali, dalla Provincia Autonoma di Trento e dalle diverse società che gestivano gli impianti. All’appello, però, mancava la società che gestiva l’impianto nel momento in cui la tragedia si consumò: la Prealpi Mineraria, ditta di origine bergamasca, che fallì pochi anni dopo.

Stava è considerata una delle più gravi tragedie industriali e ambientali della storia nazionale:

Per distruzione e numero di vittime è seconda soltanto al disastro del Vajont

Nel secolo scorso, la val di Fiemme è stata flagellata dalle tragedie: oltre al disastro di Stava, la vicina Cavalese ha assistito alla doppia tragedia del Cermis, la montagna del gruppo del Lagorai che sovrasta il centro abitato. Il 9 marzo 1976, alle ore 17:20, precipitò una funivia provocando 42 vittime. La più recente è datata 3 febbraio 1998: un aereo militare statunitense, il 6B Prowler, partito dalla base militare di Aviano a bassa quota tranciò, alle 15:12, il cavo della funivia, che provocò la caduta della cabinovia e uccise 20 persone.

Anche il 2018, per il Trentino orientale, fu un annus horribilis: la tempesta Vaia che colpì il Triveneto tra il 26 e il 30 ottobre 2018, con un vento che soffiò fino a oltre 200 chilometri orari, sradicò decine di migliaia di alberi. Anche la valle di Stava, ricostruita con forza e tenacia dopo il 1985, è stata investita dalla furia di Vaia, perdendo numerosi alberi attorno all’area della miniera.

In ricordo del disastro di Stava del 1985 è nato, al fine di valorizzare la memoria storica della sciagura e delle vittime, l’onlus Fondazione Stava 1985 che, nella località di Stava, gestisce il Centro documentazione, inaugurato nel 2002.

Quale fine hanno fatto la miniera e i bacini? La prima fu immediatamente chiusa dopo il disastro. I bacini di decantazione, da cui è partita l’immane sciagura, sono stati bonificati alcuni anni dopo.


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