Il disastro del Frejus e l’istituzione del “matrimonio postumo”

“Prometto di esserti fedele sempre nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia e di amarti ed onorarti tutti i giorni della mia vita, finché morte non ci separi”: questo è il giuramento pronunciato dagli sposi durante la celebrazione del matrimonio religioso con il rito Cristiano Cattolico. Giuramento in verità non troppo rispettato nella vita reale, considerato il numero di unioni che si concludono con un divorzio.

Per distinguersi praticamente da tutto il resto del mondo, quel drammatico e vincolante “finché morti non ci separi”, può essere invalidato in Francia, forse l’unico paese europeo dove è possibile celebrare oggi delle nozze postume, ovvero una persona vivente può sposarne una defunta, purché possa dimostrare che ci fosse un progetto matrimoniale antecedente alla dipartita del fidanzato/a.

In realtà, a chiedere le nozze postume sono quasi sempre donne, e per un buon motivo: l’attesa di un bambino dal defunto fidanzato, anche se questa non è una condizione essenziale e vincolante per questo tipo di matrimonio.

Anche se può apparire una bizzarria dei nostri cugini d’oltralpe, il matrimonio postumo nasce da una circostanza tragica, il disastro del Frejus, che nel 1959 provocò la morte di 423 persone (stima ufficiale).

Poco a nord della città di Frejus, in Costa Azzurra, nasce un piccolo corso d’acqua, un torrente capriccioso, il Reyran, che ha una lunghezza inferiore ai 30 chilometri ed è quasi sempre secco nella stagione estiva. Le coltivazioni della zona risentono della mancanza d’acqua da sempre, tanto che i Romani avevano realizzato, nel I secolo d.C., un acquedotto che sfruttava fonti distanti una quarantina di chilometri.

Un arco dell’acquedotto romano a nord di Fréjus

Immagine di 5053PM via Wikipedia – licenza CC BY-SA 3.0

Nel 1950 si procede con la progettazione e costruzione di una diga sul Reyran – un’idea nata già a inizio secolo e mai portata avanti – che viene ultimata alla fine del 1954. Il luogo prescelto è il Malpasset, un gola nella valle del Reyran, che ricorda nel nome un brigante che lì si appostava per rapinare le diligenze.

Del progetto e della supervisione dei lavori si occupa l’ingegnere André Coyne, che non è certo l’ultimo arrivato, visto che ha realizzato dighe un po’ in tutto il mondo.

Eppure, lui così esperto, non ascolta il geologo che durante gli studi preliminari consiglia di realizzare la diga più a monte. Addirittura, nessun geologo verrà più interpellato e praticamente non viene eseguito nessun rilevamento geotecnico.

D’altra parte, il Reynar è un torrente asciutto per la maggior parte dell’anno, e quindi non si ritiene necessario realizzare un tunnel di deviazione né un trabocco per deviare un eventuale flusso d’acqua eccessivo.

Le rovine della diga di Malpasset nel 1988

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La diga viene quindi inaugurata nel 1954, quando inizia anche il suo riempimento, rallentato sia dalle poche piogge degli anni successivi, sia dal ritardo di una procedura di esproprio di una società che gestisce due miniere a monte dell’invaso. Questi due fattori concomitanti impediscono un controllo rigoroso sulla tenuta della diga, che nei successivi cinque anni non arriva a riempirsi.

Nel novembre del 1959 però si abbattono sulla regione delle piogge torrenziali, che fanno rapidamente salire il livello dell’acqua nell’invaso. A valle della struttura iniziano a evidenziarsi delle infiltrazioni consistenti, che richiederebbero una immediata apertura della valvola di scarico (peraltro poi rivelatasi insufficiente). Invece quella valvola non viene aperta, perché a un chilometro più a valle c’è il cantiere per la costruzione dell’autostrada Esterel-Côte d’Azur. La massa d’acqua rischia di interrompere i lavori (sic!!) e forse addirittura di spazzare via i piloni di un ponte appena allocati.

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Il custode della diga, André Ferro, riceve l’ordine di aprire la valvola alle 6 del pomeriggio del 2 dicembre, quando l’invaso supera di molto il livello di sicurezza.

E’ ormai troppo tardi, perché la quantità d’acqua che defluisce dallo scarico è insignificante.

Ferro, quando inizia a sentire gli inquietanti lamenti del cemento che sta cedendo, cerca rifugio sul tetto di casa sua, due chilometri più a valle. Alle 21.13, con la rottura della diga, un’onda gigantesca, alta 40/50 metri, scende nella gola del Reyran alla velocità di 70 chilometri orari: il custode e la sua casa vengono spazzati via, e l’onda prosegue la sua corsa devastatrice verso valle.

Immagine di Bonho 1962 via Wikipedia – licenza CC BY-SA 3.0

Nessuno ha previsto un sistema di allerta e così l’onda coglie di sorpresa gli operai, che dormono nelle baracche del cantiere autostradale.

Muoiono tutti, mentre crolla anche il ponte in costruzione

L’acqua continua a scorrere verso valle, perdendo sì velocità e altezza, ma intanto raccoglie terra e detriti, che si riversano nella pianura sottostante travolgendo cinquanta fattorie, nel giro di sette minuti.

Nessuno riesce a mettersi in salvo

Alle 21.35 l’onda, alta ancora dodici metri, si abbatte sulla centrale elettrica della zona, che piomba nel buio assoluto. Nella cittadina di Frejus, gli abitanti possono solo percepire il rumore lontano dell’onda fangosa che sta arrivando, e chi può cerca scampo nei piani alti e sui tetti delle case. La massa d’acqua e detriti si abbatte su case, strade, ferrovie, sulla base aerea navale (riesce a travolgere decine di aerei) fino concludere la sua corsa in mare.

Oltre ai danni materiali si contano 423 vittime.

Rimane ancorata alla montagna solo la parte destra della diga, mentre di quella sinistra non restano che massi di cemento e roccia distaccata (pesanti centinaia di tonnellate), che sono rotolati per più di un chilometro.

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A disastro avvenuto, si capisce che il lato sinistro della valle non poteva sopportare il peso dell’invaso, perché la roccia era fragile, senza contare che in quella sponda lo spessore del cemento era troppo sottile.

Eppure, la mancanza di rilievi geotecnici, l’assenza di un trabocco, la valvola di scarico troppo piccola, il cemento troppo sottile, i controlli poco rigorosi durante il riempimento e il ritardo nell’apertura della valvola di scarico, non vengono ritenuti motivi sufficienti per individuare una responsabilità umana della tragedia, nel corso di dieci anni d’indagine e numerosi processi civili e penali.

Alla fine, quel disastro costato la vita a 423 persone, non può essere imputato ai costruttori (il lavoro viene ritenuto “tecnicamente impeccabile”), ma nemmeno a una “fatalità”, perché vengono comunque individuati errori umani. Così si salvano le società di assicurazione dei costruttori, che non devono risarcire i danni, e nessuno paga per quei morti.

L’inondazione a Fréjus

In questo, la giustizia francese non differisce molto da quella italiana, che per la tragedia annunciata della diga del Vajont individua alla fine solo due colpevoli (uno non si fa nemmeno un giorno di carcere, e l’altro, dopo un anno, viene rilasciato per buona condotta).

C’è però un aspetto legale, conseguenza della tragedia di Frejus, che si è sviluppato solo in Francia:

Il matrimonio postumo

In realtà, il matrimonio postumo era già previsto nella normativa francese (ma anche in quella tedesca) negli anni della prima guerra mondiale, e si capisce bene il perché: legittimare i bambini concepiti al di fuori del matrimonio.

La legge attuale, approvata nel dicembre 1959, nasce proprio in seguito al disastro di Frejus, nel quale perde la vita, tra gli altri, André Capra, fidanzato di Irène Jodard, che è in attesa di un bambino. Quando il presidente De Gaulle si reca sul luogo della tragedia, la ragazza lo implora di consentirle quelle nozze “riparatrici”, peraltro già previste di lì a pochi giorni, nonostante la morte del futuro marito.

Il presidente promette “di pensare a lei”, e lo fa davvero: in meno di un mese (il 31 dicembre 1959) viene modificata e reintrodotta la legge sul matrimonio postumo.

Da quel giorno, ogni anno vengono presentate svariate decine di richieste per celebrare nozze post-mortem, ma in realtà solo una ventina vengono accettate, perché devono sussistere motivi eccezionali, visto che mancano svariati principi formali del matrimonio.

Per questo motivo, il matrimonio postumo deve essere approvato dal Presidente della Repubblica dopo una complicata procedura.

Chi vuole sposare un defunto/a, deve inviare la richiesta al presidente, che la gira al ministro della giustizia, il quale a sua volta incarica il pubblico ministero della giurisdizione di riferimento, di svolgere indagini in merito: occorre accertare l’esistenza di un progetto matrimoniale antecedente, e serve anche l’approvazione dei genitori del defunto/a. Se il pubblico ministero ritiene che sussistano le condizioni (in particolare una gravidanza in corso) invia parere favorevole e il presidente può autorizzare (come no), con decreto, le nozze.

La data del matrimonio precede di un giorno quella della morte del coniuge defunto, di modo che il superstite diviene di fatto al contempo vedovo. Le conseguenze legali del matrimonio postumo son pressoché nulle, perché il coniuge in vita non può ereditare dal defunto, anche se presenta vantaggi a livello pensionistico. Ha rivestito però grande importanza per gli eventuali figli in arrivo, perché fino al 1972 i figli naturali non godevano degli stessi diritti di quelli legittimi.

Oggi quindi, i matrimoni postumi hanno un valore quasi esclusivamente sentimentale e vengono celebrati nel più stretto riserbo: il sindaco, alla presenza del coniuge vivente e di una fotografia del defunto, legge il decreto presidenziale che autorizza le nozze post-mortem.

A commuovere i francesi, nel maggio 2017, c’è stato un matrimonio postumo celebrato dal sindaco di Parigi e alla presenza dell’ex presidente della repubblica François Hollande: il capitano di polizia Etienne Cardiles muore durante un attacco terroristico nella capitale francese, e la sua compagna, poliziotta anche lei, chiede ed ottiene di sposarlo, senza altro scopo che mantenere vivo il ricordo di un amore troncato troppo presto, capace di andare oltre la morte.

Annalisa Lo Monaco

Lettrice compulsiva e blogger “per caso”: ho iniziato a scrivere di fatti che da sempre mi appassionano quasi per scommessa, per trasmettere una sana curiosità verso tempi, luoghi, persone e vicende lontane (e non) che possono avere molto da insegnare.