Innumerevoli sono le storie d’amore nate durante le guerre fra i soldati, amici o nemici che fossero, e le donne di paesi stranieri, e innumerevoli i figli nati da queste storie. Non sono figli nati dalla violenza, sono figli di coppie nate dall’amore (o da quello che credevano lo fosse) o dal bisogno o dalla riconoscenza, che poi per svariate ragioni, volontà o impossibilità, non si sposarono.
Il fenomeno delle spose di guerra riguarda invece le coppie che regolarizzarono la loro posizione, spesso con molta fatica. Un fenomeno che esplose durante la seconda guerra mondiale fra i soldati alleati e le donne dei paesi che venivano invasi o liberati.
Si calcola che fra il gennaio 1946 e il 1948 circa 200.000 donne abbiano lasciato il proprio paese per stabilirsi negli Stati Uniti e in Canada. Di queste circa 100.000 erano britanniche, 20.000 tedesche, 10.000 italiane e il resto provenivano da Francia, Austria, Belgio, Olanda, Lussemburgo, ma nel computo sono da calcolare anche circa 15.000 australiane e neozelandesi. Negli anni seguenti e fino ai primi anni ’50 il numero aumentò ancora, arrivarono donne giapponesi e filippine e quelle che si erano sposate negli anni dopo la fine della guerra, fino a un totale, stimato, di circa 300.000 donne trasferite negli Stati Uniti, in molti casi già con figli.
Se per le britanniche i matrimoni iniziarono già nel 1940, anzi il primo in assoluto è del 1939, il primo paese continentale a vedere gli “americani” fu l’Italia da metà giugno 1943, quando furono occupate le prime isole, e poi dal 9 luglio 1943 con lo sbarco in Sicilia (ho detto americani, sì, anche se correggo sempre il termine con statunitensi a Giovanna, che per questo giustamente mi maledice). I soldati avevano l’ordine di non fraternizzare con le popolazioni straniere, soprattutto quelle nemiche, e per parlare di noi l’Italia era a tutti gli effetti ancora un paese nemico.
In Italia, questi ragazzoni, soprattutto gli statunitensi, ben nutriti, semplici e allegri ma soli e lontani da casa, vennero accolti con baci e abbracci dalle ragazze. Una buona parte dei soldati che conquistavano cuori erano italo-americani. Il meridione che vedevano per la prima volta era il paese di origine dei loro genitori o nonni, e in qualche modo riuscivano a comunicare in quello che ritenevano fosse italiano, ma in verità era dialetto. Fu molto facile far nascere simpatie e relazioni sentimentali, che col tempo sfociarono in un matrimonio.
In tutti i paesi ci furono accoglienze festose. Dopo l’Italia ci fu la Francia e di seguito tutti i teatri del conflitto fino alla Germania. L’Europa era un cumulo di macerie, migliaia o centinaia di migliaia di ragazzi erano morti, quasi 6 milioni soltanto di soldati tedeschi, c’erano fame, miseria e una gran voglia di voltare pagina, e in questo clima era facile innamorarsi.
Relazioni e matrimoni non erano ben accetti dai comandi militari, e molto spesso neppure dalle famiglie di origine delle ragazze, ma con l’arrivo delle gravidanze e dei figli fu necessario farsene una ragione.
Alcune del primo contingente di spose italiane imbrcato ulla nave Algonquin, febbreio 1946:
I comandi erano molto severi nel concedere il permesso al matrimonio. La ragazza doveva essere di riprovata moralità, non doveva aver collaborato col nemico o aver avuto relazioni con soldati nemici, non doveva provenire da famiglie fasciste o naziste, mentre gli sposi dovevano sottoporsi a esami clinici per la sifilide. Venivano svolte indagini nei comuni di provenienza, qualunque neo nella reputazione della ragazza portava al respingimento della domanda. Era facile che le coppie si scoraggiassero, spesso abbandonarono il progetto di vita insieme e questo causò l’abbandono di molti bambini, soprattutto dei “Brown Babies” figli di coppie con un colore della pelle misto, negli orfanotrofi di tutta Europa. Le donne volevano rifarsi una vita dopo l’esperienza e nessuno le avrebbe sposate con un “mulattino”, come venivano chiamati in Italia.
Copertina del “Life Magazine” sulle spose di guerra:
La posizione delle ragazze non era semplice. I soldati erano in avanzata e ancora in guerra, lasciavano le ragazze con promesse di ritorno che talvolta non poterono o non vollero mantenere, magari già con un figlio in arrivo senza neppure saperlo, ma molti non le dimenticarono.
Con l’avanzata delle truppe statunitensi in altri paesi il numero di relazioni e matrimoni aumentò a dismisura, e con la fine della guerra piovvero migliaia di richieste di trasferimento delle mogli e figli negli Stati Uniti.
Inizia il viaggio raggiungendo in treno il porto di imbarco. Dall’Italia all’inizio gli imbarchi furono solo da Napoli, poi vennero aggiunti anche Genova e Livorno:
Il 28 dicembre 1945 venne promulgato il War Brides Act per regolamentare l’immigrazione di mogli dall’Europa, e vennero stabilite le norme per il trasferimento negli States delle spose di guerra e i figli, non solo quelli propri ma anche quelli che, in qualche caso, erano stati adottati dai soldati.
La questione non fu così semplice, le spose non risultavano più cittadine del proprio paese ma non erano statunitensi, la cittadinanza avrebbero potuto richiederla solo dopo due anni di residenza, e avevano bisogno di un visto rilasciato dall’ambasciata o dal consolato americano, presenti solo nelle grandi città.
Le spose venivano inoltre convocate per un colloquio. Si voleva capire se fossero davvero convinte di lasciare il proprio paese, se si rendessero conto della differenza di usi e costumi con gli Stati Uniti. Le donne che avevano contratto matrimonio misto venivano informate di come sarebbe stata la loro vita e che, pur bianche, sarebbero state considerate di colore. O anche peggio.
Poi all’interno degli stessi stati Stati Uniti vigevano leggi diverse. Negli stati del nord le mogli dei soldati neri vennero in parte accettate, ma negli stati del sud i matrimoni misti non erano consentiti, e le domande furono immediatamente respinte.
Le donne che avevano un fidanzato statunitense erano però molto motivate. L’America era una specie di miraggio di benessere rispetto alla miseria dell’Italia e di molti altri paesi europei, ma in verità le coppie si conoscevano molto poco, la barriera linguistica impediva uno scambio profondo di informazioni anche a quelle che parlavano un po’ di inglese e a quelli che parlavano un po’ di italiano.
Dopo le lungaggini burocratiche le donne si preparavano alla partenza, molte cominciavano a sentire il panico dell’allontanamento da casa e l’esperienza dell’imbarco e del viaggio fu un evento traumatico, per tantissime.
Le navi erano quelle che avevano portato le truppe statunitensi in Europa. Ora venivano caricate di donne e bambini di ogni ceto sociale, e i 10 giorni di viaggio vengono da molte ricordati come un incubo. Si trattava di circa 500 donne con bambini per viaggio, molte di loro non avevano mai messo piede su una nave e soffrivano il mal di mare, condizioni drammatiche con un concerto di pianti di bambini e odore di panni sporchi fino all’arrivo a New York. Per capire di quello di cui stiamo parlando: erano ragazze che non avevano mai visto nulla (o quasi) al di fuori del proprio paesino, ed erano terrorizzate. Quelle di città se la cavarono meglio, ma tutte sentivano la tensione dell’incontro con il nuovo paese e la realtà che le aspettava.
In aggiunta allo shock per un mondo completamente diverso dalle realtà di campagna o piccole città cui erano abituate, spesso le ragazze arrivarono sole negli Stati Uniti. Spesso non trovavano ad accoglierle i mariti, che erano ancora in Europa, e vennero ricevute dai suoceri. Le ragazze indossavano un fiocco rosso o giallo sull’abito per distinguere quelle che sarebbero state accolte dal marito da quelle in attesa dei suoceri, che con le foto in mano cercavano di capire quale fosse la nuora giusta.
Fotografia certamente pubblicitaria riguardo le spose di guerra:
E dopo un abbraccio di benvenuto fra estranei si ripartiva, magari per una destinazione lontanissima. Molte raccontarono di essere state accolte bene, nei limiti di una conversazione quasi impossibile visto che non si parlava la stessa lingua, ma in case molto diverse da come se l’erano aspettate, in piccoli paesi desolati o in periferie di città enormi. Altre scoprirono che, dismessa la divisa, i loro uomini non erano più quei supereroi liberatori di cui si erano innamorate, facevano lavori umili, vivevano ancora con i genitori, con i quali avrebbero dovuto convivere per buona parte della loro vita.
Fotografia certamente pubblicitaria riguardo le spose di guerra:
I comfort delle case statunitensi erano in genere di gran lunga migliori di quelli europei, considerando che le ragazze provenivano spesso da famiglie umilissime. In Europa la TV, la lavatrice e il frigorifero, gli elettrodomestici, ma anche il riscaldamento o l’acqua calda, erano comodità quasi sconosciute e misteriose, mentre negli States alcune fortunate finirono in abitazioni con tutti questi comfort moderni. Altre invece andarono in case anche più povere di quelle di campagna nostrane, un terno al lotto che non era percepibile quando si sceglieva il proprio principe azzurro vestito con i gradi e il berretto militare. Moltissime spose di guerra capitavano in casa di famiglie di varie origini europee con usi e costumi (anche alimentari) molto diversi dai propri. Spesso non era il paradiso che si erano figurate, una situazione che la barriera linguistica rendeva ancor più difficile.
Mentre la stampa americana festeggiava ed esaltava la gioia delle spose impazienti di vivere in America, l’American way of life tanto ambito dalle europee, per molte l’impatto con il Nuovo Mondo non fu felice.
Molte, moltissime, strinsero i denti e si impegnarono a diventare delle buone americane, mantenendo vivo l’amore col marito. Frequentarono i corsi che venivano organizzati apposta per le spose di guerra, impararono l’inglese, si adattarono e si integrarono perfettamente.
Altre, soprattutto quelle con figli, si rassegnarono a una vita ai margini della società, ma non fu così per tutte. La stampa glissò sulle separazioni e sui divorzi, ma ce ne furono molti. Il record del divorzio più veloce è probabilmente di un’italiana, sposata a un maggiore dell’esercito, che chiese il divorzio 20 giorni dopo l’arrivo negli Stati Uniti perché scoprì di non avere assolutamente nulla in comune col marito.
La nostalgia di casa accresceva l’incapacità ad adattarsi e viceversa, le mogli erano apatiche, tristi, scontente e piangenti, incapaci di reagire perché in fondo quella storia romantica era stata solo un sogno infranto. Molte donne si imbarcarono nuovamente sulle stesse navi con le quali erano arrivate, e tornarono a casa con il divorzio in tasca.
Una misera fine alle romanticherie delle spose di Guerra
In questa rapida disamina è doveroso ricordare anche i pochissimi “sposi di guerra”, uomini che avevano sposato personale femminile dell’esercito. Furono pochi ma ce ne furono, indimenticabile il film con Cary Grant “Ero uno sposo di guerra” basato sulla biografia di Henri Rochard, militare belga sposato con un’ufficiale americana.
Il film si trova su Youtube in versione completa: