Il delitto dell’Incognito: un giallo nella Firenze del Cinquecento

Il 12 Ottobre 1570 la città di Firenze tirò un sospiro di sollievo. Finalmente l’ondata di furti in abitazioni e botteghe che l’aveva afflitta negli anni precedenti era cessata. Tutto tornava normale e i suoi abitanti potevano dirsi (quasi) al sicuro.

Ma cos’era successo?

Una cronaca del tempo, ci racconta una storia terribile quanto curiosa. Vediamola nel dettaglio.

Vincenzo Serselli…e i suoi due amici

In quegli anni viveva a Firenze un tale Vincenzo Serselli, figlio di Zanobi, di professione lanaiolo, abitante in Via Ghibellina, quasi all’angolo con via de’ Bonfanti (oggi Via de’ Pepi). La sua era una casa come tante, dotata dei comfort dell’epoca e, naturalmente, una vasta cantina, dove riporre cibarie e altre suppellettili. Una residenza come tante.

L’angolo fra Via Ghibellina e Via de’ Buonfanti (oggi Via de’ Pepi) in una foto recente: qui abitava il Serselli. (Immagine di I. Sailko condivisa su licenza CC BY 2.5 via Wikipedia)

Vincenzo era un uomo devotissimo, tutto casa chiesa e lavoro. Lo si poteva vedere frequentare le principali compagnie religiose, in particolare quella di San Niccolò del Ceppo. Nella sede di quest’ultima nessuno lo aveva mai visto entrare in piedi: appena accedeva alla soglia si alzava la tonaca che indossava per penitenza e, mettendosi con le ginocchia nude sul pavimento, proseguiva verso l’altare. In tutte le processioni che percorrevano Firenze, non si poteva fare a meno di vederlo: portava sempre il crocifisso in testa al corteo. La sua devozione era assoluta, quasi vicina al fanatismo.

Questo almeno in apparenza…

Il Vincenzo di giorno era molto diverso da quello che faceva di notte. Dopo il tramonto, infatti, si incontrava spesso con due suoi amici: un tale Matteo Santini, figlio di Bartolomeo, anche lui lanaiolo; e un altro, una persona talmente ordinaria e di umile professione che non se ne sapeva perfino il nome. Oppure, è un’altra ipotesi, era un personaggio abbastanza importante, forse un dirigente dell’Arte della Lana, si parla di un “Ciompi Guardia della Lana” [Cronica della Città di Firenze dall’anno MDXLVIII al MDCLII, p. 29] o anche il servitore di un nobile, che, per vergogna, se ne nascose il nome. Comunque, lo chiameremo “Incognito”, perché così è conosciuto nelle cronache dell’epoca.

I tre (non erano certo gli unici al tempo) passavano le notti a gozzovigliare nelle varie osterie dediti al vino e al gioco, visitando spesso le numerose case di piacere che si trovavano in città. Una vita che, a lungo andare, li stava portando alla rovina, soprattutto economica. Matteo sembrava lavorare per niente. Quello che guadagnava, e non faceva certo un mestiere che rendesse grandi somme, si volatilizzava presto ed era sempre in bolletta. Per non parlare dell’incognito, che si arrangiava come servitore e con altri lavori umili. Vincenzo invece se la passava bene, non gli mancava nulla e pagava sempre puntualmente.

Una notte, mentre l’allegra compagnia girava per la città, uno dei tre si frugò in tasca e, non trovando una moneta che fosse una, se ne lamentò desolatamente. Vincenzo, il più vecchio dei tre, si fermò e disse solennemente: “A chi ha cervello non mancano mai danari, a me non ne sono mai mancati, e non ne mancheranno ancora a voi se farete a mio consiglio” [Cronica della Città di Firenze… op. cit., pp. 30-31]. Matteo e l’Incognito si guardarono stupiti.

Cosa voleva dire il loro compagno?

Semplice, continuò Vincenzo, bisogna appropriarsi dei beni che ci servono, anche se sono di proprietà altrui. Dio, aggiunse, aveva creato gli uomini tutti uguali e quindi non era altro che un modo per riavere quello che era loro. Aveva una bella oratoria, senza dubbio.
E gli altri due, forse inizialmente pensando di compiere una sacra missione, seguirono il suo consiglio.

La banda Serselli

Da quel momento non mancò loro il denaro da spendere all’osteria o per le prostitute. Alternarono notti in cui entravano in case e botteghe per fare razzia di qualunque cosa di valore capitasse a portata di mano, e poi serate in cui spendevano tutto, o quasi, quello che avevano rubato.

Gli “affari” andavano bene: la banda seminava il terrore in città dopo il tramonto, ma nessuno di loro si faceva vedere di giorno insieme, per non destare alcun sospetto. Delle volte si avvalevano della collaborazione di qualche complice, ma comunque i capibanda erano loro tre. Non c’era casa che poteva dirsi al sicuro: rubavano di tutto: monete, stoffe, suppellettili. Tutto era alla loro portata.

Ma, progressivamente, Serselli appariva sempre più cupo e sospettoso. Sapeva che con quel genere di “occupazione” i rischi erano alti. Col tempo avrebbero potuto prenderli, anche uno solo di loro avrebbe potuto tradire tutti gli altri. La sua era una preoccupazione concreta. Intuendo dallo sguardo degli altri due che non comprendevano il pericolo, affermò che le guardie sapevano come fare per estrapolare una confessione completa a qualcuno. “Hò sentito dire che la corda è la regina de’ tormenti” [Cronica della Città di Firenze… op. cit., p. 31], dichiarò.

Il supplizio della corda in un’incisione dell’epoca (Immagine di pubblico dominio via Wikipedia)

La “corda” era in effetti un diffuso strumento di tortura all’epoca. Era molto semplice, non occorrevano attrezzi particolari. Consisteva di legare il condannato per le mani, poste dietro la schiena, a una corda appesa a un gancio fissato al soffitto o a una carrucola. La fune veniva tirata su, provocando dolore immenso e slogature alle spalle. A volte si metteva anche un peso ai piedi del poveretto per acuire la sofferenza. Era dunque un mezzo particolarmente efficace per estorcere confessioni.

Vincenzo sapeva che pochi avrebbero potuto resistere a un tormento del genere, bastava che uno parlasse perché tutta la banda terminasse la sua impresa criminosa. A meno che…a meno che non sapessero cosa aspettava loro. A meno che non fossero per così dire…allenati.

Il Serselli, più vecchio e scaltro dei tre, possedeva, come abbiamo detto, un’ampia cantina annessa alla sua casa di Via Ghibellina. Nessuno poteva disturbarli, nessuno poteva sentirli. E la turpe quanto strana proposta che fece fu questa: allenarsi di notte dentro la cantina a subire un interrogatorio sotto la tortura della corda. A turno, uno dei tre sarebbe stato il giudice, l’altro il boia, il terzo il condannato. Avrebbero sofferto e molto, ma solo così sarebbero stati pronti a resistere, a non parlare. Santini e l’Incognito, forse non sapendo bene cosa li aspettasse, riconobbero una certa logica in questo proponimento, e accettarono di buon grado.

L’arresto

Passati alcuni giorni, la banda passò di nuovo all’azione. Serselli e Santini commettevano i soliti furti, ma con maggior frequenza ed abilità. L’Incognito, invece, non si faceva mai vedere, ma era uno che dava talmente poco nell’occhio che la sua assenza passò inosservata.

Il carcere delle Stinche, oggi non più esistente, in un dipinto di Fabio Borbottoni (1820-1902) (Immagine di pubblico dominio via Wikipedia)

Ma alla fine il passo falso tanto temuto da Vincenzo ci fu. I due, sempre assente il terzo, anche se non colti direttamente in flagrante, furono arrestati e condotti al carcere delle Stinche, con l’accusa di essere autori di tutti quei crimini senza colpevole. Come previsto su di loro fu usata la tortura della corda, ripetutamente e per giorni, per estorcere la confessione. Vincenzo resistette, al contrario di Matteo che, tormentato dal dolore lancinante provocato dal boia, elencò quello che aveva fatto, probabilmente pensando che sarebbe rimasto in carcere, ma vivo e soprattutto libero dalle torture cui veniva sottoposto.

Un membro della Compagnia della Morte in una foto ottocentesca. (Immagine di pubblico dominio via Wikipedia)

Una mattina, alcuni membri della Compagnia della Morte lo prelevarono dal carcere per tradurlo alla loro cappella. Tale compagnia, ve ne erano di simili in altre città, si incaricava di dare conforti religiosi proprio ai condannati a morte. La loro uniforme era un mantello nero e un cappuccio che nascondeva il volto. Matteo così scoprì con orrore di essere condannato a morte per impiccagione. Ma non ci stava, lui era sì colpevole, ma lo era anche Vincenzo Serselli, il lanaiolo arrestato insieme a lui. Non era giusto. Di fronte a quei signori vestiti di nero che lo stimolavano al pentimento estremo e alla riconciliazione con Dio prima dell’esecuzione, diceva che no, non si sarebbe pentito, almeno finché il suo complice, anzi l’ideatore di tutti quei crimini, non fosse accanto a lui in quella cappella, ad aspettare la morte. Sembrava invasato, era furioso per questa ingiustizia. Chiedeva di parlare con il temutissimo Lorenzo Corboli.

Abbiamo già incontrato questo personaggio che fu determinante nella risoluzione della Congiura dei Pucci che tanto preoccupò, qualche anno prima, il Granduca Cosimo I de’ Medici. [si veda a proposito La subdola congiura dei Pucci, articolo dello stesso autore presente su questo sito vedi]: era un “uomo crudele e sanguinario, e perciò odiatissimo”, e “di una fisonomia apertamente sinistra, nella quale si leggeva la pravità del cuore e la durezza dell’animo, venduto al più vile interesse” [C. Trevisani, La congiura di Pandolfo Pucci, Firenze, Le Monnier, 1852, p. 65 e p. 241]. E, cosa più importante, era il potentissimo Segretario degli Otto di Balia e di Giustizia, la polizia giudiziaria dello stato fiorentino, incaricata degli interrogatori e delle esecuzioni.

E alla fine fu accontentato: il Corboli che abitava vicino alla cappella della Compagnia, nella poco allegra Via della Morte, accorse per capire cosa avesse da dire di tanto importante quell’uomo destinato alla forca di lì a poco.

Il Santini non invocò la grazia, non cercò di discolparsi, ma ripeté ossessivamente che anche il Serselli era colpevole. Al che gli fu risposto che colui che stava accusando era stato torturato quanto lui, ma non aveva confessato, segno che non aveva niente di grave da confessare.

E Matteo, consapevole di non aver più niente da perdere, dichiarò: “Domandategli chi strangolò in casa sua l’Incognito, e perché, e chi lo portò sopra le spalle a seppellire nel cimitero di S. Croce nella tal sepoltura” [Cronica della Città di Firenze… op. cit., pp. 35]. Il Corboli, sentendo queste parole, volle saperne di più. E Matteo Santini lo accontentò, non aspettava altro.

La terribile fine dell’Incognito

La sua fu una terribile quanto strana storia. Durante gli “allenamenti” per resistere alla tortura della corda condotti nella cantina del Serselli, mentre era il turno dell’Incognito di essere appeso, questi non resistette neanche un minuto al tormento. Pregava, anche comprensibilmente, di essere tirato giù, urlando per il dolore. E a quel punto Vincenzo finse pietà per lui, probabilmente fece qualche gesto di intesa a Matteo, lo fece calare a terra, dopodiché lo assalì e, con l’aiuto dell’altro, lo strangolò con la stessa corda.

Il motivo del gesto era ovvio, almeno per gli altri due complici: se non resisteva alla tortura inflitta dai suoi amici, come avrebbe potuto resistere ai suoi nemici? Magari, dopo tutto quel soffrire, avrebbe deciso di uscire dalla banda. Si sarebbe fatto catturare come un novellino, spifferando tutto quello che sapeva. Era totalmente inaffidabile e sapeva troppe cose. Un morto non avrebbe parlato: paradossalmente il problema era risolto.

A quel punto, però, era imperativo disfarsi del cadavere che non poteva essere assolutamente lasciato lì. Per fortuna nel chiostro della vicina Basilica di Santa Croce aveva, come quasi tutte le chiese dell’epoca, un cimitero. E Vincenzo, che nella “vita pubblica” era un devoto e conoscitore dell’ambiente, sapeva che lì la porta restava aperta anche di notte, per accogliere le persone che volevano pregare.

Nottetempo, nel buio quasi totale, il corpo, avvolto in una preziosa coperta sottratta durante uno dei furti, venne trascinato per le gambe per le strade di Firenze. Matteo faceva da apripista e da palo, assicurandosi che il campo fosse libero da testimoni. E Vincenzo lo seguiva con il grosso e pesante “carico”. Parlavano a gesti, cercando di non fare il minimo rumore.

Giunti a destinazione, i due pensarono bene di scoperchiare uno dei sarcofagi del chiostro, buttarvi dentro il povero Incognito e richiuderlo accuratamente come non fosse mai stato aperto. E poi la fuga precipitosa. Era fatta, nessuno poteva scoprirli. A meno che uno dei due non avesse parlato, s’intende.

Firenze, Santa Croce, chiostro di fronte alla Cappella dei Pazzi. Anticamente ospitava un cimitero: è lì che fu sepolto l’Incognito? (Immagine condivisa su licenza CC BY-SA 3.0 via Wikipedia)

Alla fine dell’assurda narrazione, Lorenzo Corboli era perplesso. Da una parte c’era un reo confesso, dall’altra una persona apparentemente onesta, magari aveva commesso qualche reato minore, un furtarello di poco conto, ma niente che qualche mese di carcere non avrebbe messo a posto.

Matteo Santini, nello sforzo di esser convincente, propose di portarlo in Santa Croce per esibire la prova regina: un cadavere fresco nella tomba di un altro. E il segretario, considerando che non aveva niente da perdere, accettò. L’impiccagione fu rimandata.
Quella stessa notte, agenti del Bargello, la temuta polizia giudiziaria del Granducato, con un cancelliere, ispezionò il chiostro di Santa Croce alla ricerca di un qualche indizio. Ma non fu trovato nulla.

Il Corboli, voleva vederci chiaro: era il Santini che millantava per prendere tempo o era tutto vero? Il dubbio lo attanagliava. Lo fece convocare e gli chiese conto di quanto aveva confessato, accusandolo di burlarsi di lui e della sua autorità. E Matteo, risoluto, ribadì la sua versione. “conducete me nel cimiterio di S. Croce, e vedrete se io lo troverò, purché non sia stato levato.” [Cronica della Città di Firenze… op. cit., p. 36].

Quella notte stessa, Matteo Santini, scortato da guardie e ben legato, si recò nel chiostro, e, dopo aver fatto mente locale per ricordare dove fosse il povero Incognito, indicò una sepoltura. Puntualmente vi si trovarono due corpi, di cui uno era quello sopra messo lì da poco. Sembrava tutto vero. Mancava qualcosa, però: anche l’altro doveva confessare.

Vincenzo Serselli confessa

Il Corboli aveva la soluzione, del resto aveva fama di sanguinario non per caso. Si presentò nel carcere e disse chiaramente al Serselli che lo avrebbe torturato fino a farlo parlare di quel delitto tanto efferato che il suo complice aveva confessato.

Ormai con le spalle al muro, Vincenzo disse di voler raccontare tutto, per morire in pace. Oltre alla faccenda dell’Incognito, narrò di una vita fatta di espedienti, di furti e di lavori umili…e un altro omicidio, di cui nessuno sapeva niente. Un colpo di scena: chi immaginava che un uomo che era tanto devoto, fosse un fior di assassino?!

Alcuni anni prima, un suo anziano vicino di casa, un tale conosciuto come Rapetta, figlio di un macellaio, conduceva una vita molto parca e senza grosse spese. Era tutto casa e lavoro, non si divertiva mai, non andava a donne, non beveva. E, grazie all’eredità e al lavoro, aveva messo su una bella somma di denaro che però affidava a un banchiere che, come era uso nel tempo, aveva un banchetto fuori casa sua da cui faceva tutte le operazioni: prelievi, cambi di moneta, prestiti, versamenti (evidentemente la privacy era un optional!).

Un giorno il Serselli lo vide prelevare una grossa somma di denaro, almeno 500 ducati in oro, e, fiutato l’affare, penetrò nottetempo nella casa del ricco vicino e lo strangolò con un pezzo di corda. Con sommo disappunto, frugando nelle tasche non trovò che sei giulii. Evidentemente il Rapetta aveva fatto delle spese e dell’importante somma di denaro non restavano che pochi spiccioli. Ma non c’era tempo per recriminazioni, doveva mascherare il suo delitto e sparire in tutta fretta. Vincenzo ebbe un’idea: appese il Rapetta a una trave e sotto vi pose uno sgabello rovesciato. Così chi fosse entrato in casa avrebbe pensato a un suicidio. Tutto questo bastava e avanzava per arrivare a una condanna.

L’epilogo

Il Mercato Vecchio, oggi Piazza della Repubblica, in un dipinto di Giovanni Stradano del 1561-1562 conservato al Palazzo Medici Riccardi, Firenze. In primo piano si può vedere la Colonna dell’Abbondanza dove si eseguivano le condanne a morte (Immagine su licenza CC BY-SA 3.0 via Wikipedia)

Il 15 Agosto 1570, sotto un caldo soffocante, un triste corteo si muoveva dalla cappella della Compagnia della Morte. Direzione: mercato vecchio, dove erano solite eseguirsi le impiccagioni. In mezzo agli uomini incappucciati che recitavano il Miserere, Vincenzo Serselli, ladro e assassino, urlava a squarciagola: “Ho io da morir solo?” [Cronica della Città di Firenze… op. cit., p. 29]. Lorenzo Corboli, che presenziava all’esecuzione, gli si avvicinò, chiedendogli come mai tanto clamore. “Ho io a morir solo, et i miei compagni abbino a campare?” [Ibidem], fu la risposta.

Era evidente: voleva portare nella rovina con sé tutti i suoi complici, compreso chi lo aveva incastrato. Riportato in carcere per un’ulteriore interrogatorio, fece i nomi di altri dieci compagni di furti. E del Santini, che, magari, pensava di aver scampato la forca.
Nulla è dato sapere della sorte degli altri dieci complici nominati durante quest’ultimo interrogatorio. Sappiamo però la fine che fecero i due capibanda che avevano ucciso l’Incognito e occultato il suo corpo.

Il 12 Ottobre successivo, tutto aveva fine. Serselli e Santini vennero condotti al patibolo.
Il corteo, preceduto da un uomo che reggeva un grande cartello con scritto a grandi lettere “PER FALSARJ, OMICIDIARJ, E FAMOSI LADRI” (la lista dei loro crimini insomma) [Cronica della Città di Firenze… op. cit., p. 38], avanzava per le vie di Firenze.

Ma, sorprendentemente, non si diresse nel Mercato Vecchio, come di consueto. I due condannati osservarono il luogo dove erano state erette le forche, che non era altro che la Via Ghibellina, proprio di fronte alla casa con annessa la cantina, quella in cui abitava il Serselli. Era lì che tutto aveva avuto inizio, e lì che tutto finì.

BIBLIOGRAFIA
AA. VV. Cronica della Città di Firenze dall’anno MDXLVIII al MDCLII (codice pergamenaceo scritto a più mani), pubblicato in Storie dei municipj italiani illustrate con documenti inediti – Vol. 4, a cura di Carlo Morbio, Manini, Milano, 1838.

SITOGRAFIA
https://it.wikipedia.org/wiki/Omicidio_dell%27Incognito
https://it.wikipedia.org/wiki/Lorenzo_Corboli
Conti, L. La subdola congiura dei Pucci, in Vanilla Magazine


Pubblicato

in

da