Il XX secolo è tristemente noto come il secolo delle dittature, delle deportazioni e degli stermini. Ogni regime totalitario aveva la necessità di stroncare qualsiasi opposizione ideologica e liberarsi di individui scomodi, ma l’Italia, seppur stretta nella morsa del fascismo, si servì di metodi diversi da quelli di Hitler e Stalin. L’eliminazione fisica dei nemici del partito c’è stata e ne è un triste esempio la scomparsa del parlamentare Giacomo Matteotti, ma su larga scala Mussolini non creò mai, se non prima del 1943, dei veri e propri campi di concentramento sulla falsariga di quelli nazisti o dei gulag sovietici. Adottò, invece, una pratica che nel Belpaese era presente a livello costituzionale fin dagli albori dell’Unità. Anziché la deportazione di massa, lo sfruttamento lavorativo o l’intento di sterminio, il confino politico prevedeva la relegazione individuale e sotto stretta sorveglianza in isole del centro-sud o in villaggi sperduti. Tutto ebbe inizio nel 1926 e cessò nel 1943; fu una misura di repressione preventiva atta a esiliare all’interno della loro stessa nazione comunisti, antifascisti, dissidenti politici, omosessuali e criminali. I confinati venivano, così, tagliati fuori dalla vita pubblica e messi in condizione di non poter nuocere alla società.
Sovversivi, di Lorenzi Robbiano
In Italia, il confino esisteva già prima del ventennio fascista. Per contrastare il dilagante fenomeno del brigantaggio post Unità, nel 1863 il governo varò la legge Pica, che prevedeva un domicilio coatto in una località sperduta per chiunque fosse anche solo sospettato di ledere all’ordine pubblico. Nel 1889, il cosiddetto “codice Zanardelli” cercò di regolamentarne la pratica che, pur restando costituzionale, riconosceva agli imputati la possibilità di non essere arbitrariamente confinati in base al semplice sospetto e di esser sottoposti prima a regolare processo.
Dopo la salita al potere di Mussolini, il 1926 vide la promulgazione delle leggi fascistissime che, rafforzate da alcuni attentati falliti ai danni del Duce, posero in primo piano la necessità di reprimere qualsiasi forma di opposizione. Il 6 novembre del 1926 fu emanato il Regio Decreto n. 1848, che prevedeva una condanna da 1 a 5 anni di confino per chiunque fosse sospettato di remar contro il fascismo, ma la pena da scontare, stabilita senza alcun vero processo, veniva solertemente allungata adducendo la scusa della mancata o incompleta rieducazione del soggetto.

Le mete designate erano tantissime e si dividevano in due categorie: i confinati meno pericolosi erano destinati a piccoli villaggi della Calabria, della Basilicata o dell’Abruzzo; i più pericolosi a isole come Lampedusa, Favignana, Ustica, Ponza, Tremiti o Ventotene. Il metro di giudizio del fascismo era piuttosto severo e si poteva finire al confino per i più svariati e assurdi motivi, come partecipare al funerale di un comunista, deporre fiori sulla tomba di un antifascista o raccontare barzellette sul regime o sul Duce.
Cesare Pavese, ad esempio, fu condannato a tre anni per aver ricevuto alcune lettere dalla sua fidanzata dell’epoca, una militante del Partito Comunista Italiano. Il confino veniva ironicamente chiamato “la villeggiatura”, perché spesso avveniva in luoghi da cartolina, con il mare e la tranquillità, come se si trattasse di una vacanza. La libertà personale, invece, era fortemente limitata, quasi nulla. Giunti al luogo di detenzione, i confinati dovevano consegnare tutti i loro documenti civili; atto che, simbolicamente, equivaleva alla completa privazione di ogni diritto umano. In cambio, ricevevano un libretto rosso con tutte le regole, bizzarre e non, a cui dovevano attenersi.

Era severamente vietato possedere un mazzo di carte, andare al cinema o a teatro, frequentare bar e ristoranti, entrare in chiesa senza autorizzazione, cercare di comunicare di nascosto per via epistolare, parlare una lingua straniera, spedire più di una lettera a settimana, avere in tasca più di £100 e parlare o commentare eventi politici e fatti d’attualità.

Il confinato non era un prigioniero sottoposto a regime carcerario, ma veniva costantemente sorvegliato. Non tutti i luoghi gli erano accessibili e gli spostamenti erano permessi solo sotto scorta e a determinati orari. Per il loro sostentamento, lo stato gli riconosceva una piccola somma di denaro, “la mazzetta”. Ovviamente, era una cifra irrisoria, che non bastava a un dignitoso tenore di vita e, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, fu addirittura dimezzata. Sandro Pertini, partigiano e futuro presidente della Repubblica, detenuto prima a Ponza e poi a Ventotene, raccontò che i confinati erano soliti far fronte comune e unire le loro finanze per garantirsi pasti collettivi migliori di quelli che avrebbero ottenuto individualmente.
Le condizioni di vita dei “villeggianti” erano precarie: alloggiavano in grandi dormitori improvvisati dove la garanzia di condizioni igienico-sanitarie ottimali risultava quasi nulla. Tuttavia, non erano completamente tagliati fuori dal mondo. Sebbene gli fosse proibito parlare e intrattenere relazione con gli abitanti, potevano scrivere a familiari e parenti, ma una rigida censura vagliava ogni comunicazione con l’esterno. Chi tra loro era più facoltoso, invece, poteva concedersi il lusso di vivere indipendentemente. Era questo il caso di Carlo Levi che, confinato in Lucania, affittò una casa con gabinetto e assunse un’anziana donna che lo cucinava e si occupava delle faccende domestiche.

L’intento del confino era di esautorare dalla vita pubblica elementi intellettualmente pericolosi, ma la rigida sorveglianza non bastò a spezzare la loro caratura morale. In teoria, questi elementi dovevano essere rieducati, affinché non fossero più in grado di opporsi al fascismo; nei fatti, seppero organizzarsi clandestinamente per discutere di politica, prepararsi alla lotta partigiana e all’Italia del futuro libera dalla dittatura. Non mancavano i tentativi di evasione; la vigilanza era serratissima e, soprattutto sulle isole, qualsiasi piano di fuga risultava di non facile attuazione. Nella notte del 27 luglio 1929, però, Emiliano Lussu, Carlo Rosselli e Francesco Fausto Nitti, riuscirono nell’impresa di scappare via mare da Lipari. Si immersero nelle acque del Tirreno e, mentre nuotavano, li intercettò una nave che, anziché riportarli indietro, li scortò sulla terraferma, dove avevano predisposto un viaggio in direzione di Tunisi, per poi dirigersi in Francia. Per il regime fu uno smacco gravissimo e gli evasi non disdegnarono di rivelare alla stampa estera ciò che accadeva a chi rifiutava di allinearsi con la linea di pensiero fascista. Da allora, la sicurezza e la sorveglianza dei condannati si inasprì notevolmente.

Tra i luoghi di confino più famosi si annoverano Ponza, in provincia di Latina, dove giungevano solo gli elementi ritenuti più pericolosi, Pisticci, in provincia di Matera, e Ventotene, sempre in provincia di Latina. In particolare, quest’ultimi due esempi rappresentavano un caso isolato nella storia della repressione fascista. La colonia di Pisticci era unica nel suo genere perché, a differenza delle altre, il regime scelse di rieducare i detenuti attraverso il lavoro. La zona aveva grandi paludi malariche e dal 1938 le autorità costrinsero i confinati a eseguire dei lavori di bonifica che portarono alla sanificazione di circa 750 ettari di terreno.

L’attività di confino sull’isola di Ventotene, invece, ebbe inizio nel 1930. Il regime la scelse per le sue dimensioni ridotte e per la scarsa accessibilità delle coste. A seguito della fuga di tre prigionieri nel 1929, le alte sfere fasciste avevano chiuso Lipari per motivi di sicurezza e necessitavano di un nuovo luogo in grado di ospitare alcuni dei soggetti più invisi al Duce. Ventotene assunse un ruolo di rilievo soltanto nel 1939, quando Arturo Bocchini, il capo della polizia dell’isola, ideò una colonia di confino a tutti gli effetti e ordinò la costruzione di una cittadella confinaria, munita di una caserma autonoma e di dodici padiglioni per i prigionieri. Ogni padiglione era a sua volta ripartito in due camerate con venticinque brande allineate in due file opposte e bagni in comune. La struttura aveva a disposizione numerose mense, la cui suddivisione andava per appartenenza politica. Ad esempio, c’era quella adibita ai socialisti, due erano per gli anarchici e sette per i comunisti, il gruppo più numeroso. A differenza degli altri luoghi di confino, l’isola prevedeva un sistema più vincolante per quello che concerneva la libertà dei prigionieri. Dalle 21 alle 6 in estate e dalle 18 alle 7 in inverno, le guardie sprangavano tutte le porte e staccavano l’elettricità. Il confinato poteva passeggiare per l’isola, ma solo in un determinato percorso del centro delineato da cartelli e filo spinato. Inoltre, era severamente vietato relazionarsi con gli isolani, entrare in locali pubblici, se non per un brevissimo lasso di tempo, parlare di politica, ascoltare la radio e scrivere. In quest’ultimo caso, l’unica concessione era una sola lettera a settimana di massimo ventiquattro righe.

Dopo la caduta del fascismo, la pratica del confino politico cadde in disuso e, con la nascita della Repubblica, fu dichiarata incostituzionale, chiudendo, infine, questa triste parentesi della storia italiana. Il numero totale dei confinati fra il 1926 e il 1943 oscilla fra i diecimila e i dodicimila; i luoghi di confino furono circa duecento. Per onorare la memoria dei patrioti che combatterono in silenzio per la patria e rifiutarono di abiurare il loro dissenso, molte delle mete che li ospitarono hanno eretto dei monumenti simbolici. Il 2 giugno 1978, a Ventotene ne fu inaugurato uno proprio in quella che era la vecchia cittadella; a Marconi, frazione di Pisticci, è possibile ammirare un’opera dell’architetto napoletano Raffaele Fienca, raffigurante un contadino, un operaio e un intellettuale, metaforicamente uniti nella lotta per la libertà e nella resistenza alla dittatura.