Il 1837 è per la Sicilia, in particolare per quella orientale, un annus horribilis. Perché, oltre alle endemiche condizioni di povertà e disagio, arriva a complicare la vita dei siciliani una devastante epidemia di colera che prima si propaga a Palermo e poi si diffonde nelle province di Messina, Catania e Siracusa. Il tutto in un contesto di profonda insofferenza nei confronti della casa regnante, i Borbone, che dopo i moti del 1820/21 reprimono con pugno di ferro qualsiasi accenno di rivolta.
L’epidemia di colera giunge da lontano, dall’India, e arriva in Europa nei primi anni dell’Ottocento. In Italia colpisce prima Genova e Livorno, nel 1835, portata da qualche nave arrivata dalla Francia. Nonostante alcuni tentativi di contenere il contagio, il colera arriva a Napoli nel 1837 e da lì viaggia fino in Sicilia. Il morbo si diffonde a metà giugno a Palermo e poi a Messina, anche perché marinai provenienti da Napoli non rispettano la quarantena prevista. Inizia un’estate dove “non c’è più riparo alla morte e al furore” (Alfonso Sansone, Gli avvenimenti del 1837 in Sicilia).
I medici sono del tutto impreparati alla malattia: nessuno sa come si diffonda e perché, né tantomeno quali cure si possano adottare, a parte l’isolamento dei malati in lazzaretti e la quarantena. I dottori sanno che le cattive condizioni igieniche fanno parte del problema, ma a quelle non c’è soluzione: le città sono carenti di reti fognarie e il popolino vive in case malsane. A peggiorare la situazione ci si mette anche la diffusa diffidenza verso le autorità, comprese quelle sanitarie. Vittima di ignoranza e pregiudizio, gran parte della popolazione preferisce adottare rimedi della tradizione popolare, come tenere spicchi d’aglio sotto al naso, fidando anche nel potere purificatore del fuoco: grandi falò vengono accesi per le strade.
Per contrastare la diffusione dell’epidemia si bloccano i traffici e gli scambi commerciali e la già difficile situazione economica si trasforma in un disastro, che alimenta il malcontento popolare. Non perdono l’occasione di cavalcare l’onda della rabbia mista a panico gli esponenti “liberali” (avversari dei Borbone) della provincia di Siracusa.
E come, se non propagando notizie false, spregiudicatamente diffuse tra chi non cercava altro che un capro espiatorio, un untore colpevole del contagio?
Proprio lì, nella terra del grande Archimede, tutti vogliono credere all’improbabile racconto di un complotto:
Un colera-veleno diffuso dal governo borbonico per ridurre il numero degli abitanti
La tesi non nasce tra il popolino ignorante, ma viene affermata e diffusa da un noto avvocato siracusano, Mario Adorno, che già aveva partecipato ai moti del 1820.
Nessuno può dire se Adorno fosse seriamente convinto di quanto andava predicando o se piuttosto avesse messo in atto un piano preciso per istigare una rivolta anti-borbonica, facendo affidamento sulla credulità del volgo. In realtà a Siracusa sono molte le persone “istruite” che credono alla teoria del colera-veleno, convinte anche da tutto quel gran darsi da fare da parte delle autorità cittadine per prevenire il contagio, quando ancora non si era diffuso: una dimostrazione, secondo molti, che in realtà già tutto era predisposto per la propagazione del morbo.
Certo è che l’ostilità verso i Borbone (colpevoli di avere ridotto di molto l’influenza della Sicilia all’interno del Regno) rende il terreno fertile alla diffusione di dicerie e sospetti, mentre si comincia a cercare i responsabili, colpevoli di avvelenare aria, acqua e alimenti.
A dar credito alle farneticazioni di Adorno concorre la presenza in città di uno stravagante personaggio, Giuseppe Schwentzer, che affascina i siracusani con il suo cosmorama, non meno della moglie cavallerizza. I sospetti si appuntano sullo straniero (perché la sua presenza viene tollerata dalle autorità?) che presto viene accusato di essere l’untore. Quasi viene linciato e si salva solo perché ammette la colpa e promette un antidoto.
Adorno viene nominato presidente di una commissione di sessanta cittadini che, per incarico del sindaco, si assumono il compito di tenere sotto sorveglianza i presunti diffusori del contagio. L’avvocato, esaltato da quella conferma alla sua teoria, diffonde un delirante proclama (firmato dal sindaco Pancali), “I Siracusani ai fratelli siciliani” dove afferma che “il colera-morbus non era asiatico ma borbonico”.
Purtroppo però la situazione precipita, le folle inferocite non riconoscono capi e la rivolta si trasforma in massacro: vengono uccisi esponenti delle autorità, della polizia, ma anche innocenti che si trovano in mezzo ai disordini. Chi pensava di riuscire a indirizzare il malcontento generalizzato in una sommossa politica deve constatare che ha in realtà solo tirato fuori il peggio di un popolo, fino ad allora troppo oppresso per reagire con lucidità.
Giuseppe Schwentzer, che finisce per essere ucciso con la moglie mentre è in carcere, confessa di essere un agente al soldo della Francia, che però ha diffuso l’epidemia per ordine dell’Austria, in combutta con i Borbone.
Alla fine Ferdinando II spedisce in Sicilia il generale Francesco Saverio Del Carretto, con poteri straordinari (alter ego del re), dei quali si avvale con grande durezza: tra Catania e Siracusa vengono arrestate 750 persone. Di queste, 123 sono condannate a morte, compresi Mario Adorno e il figlio Carmelo.
Le conseguenze della rivolta sono devastanti per la città di Siracusa, alla quale viene tolto il comando di Valle, trasferito a Noto, rimasta fedele ai Borbone. Miseria e desolazione si impadroniscono della città, vessata con tasse aggiuntive e una serie di provvedimenti chiaramente punitivi, che provocano un arretramento economico e sociale che la riporta indietro di molti anni.
Un risultato opposto a quello voluto da Mario Adorno che, consapevolmente o meno, inganna il popolo per raggiungere il suo scopo.
Qualche decennio dopo Emilio Bufardeci scrive, a proposito dei fatti del 1837:
“Quei liberali colsero questa congiuntura per muovere il popolo a insorgere, e il concetto del colera-veleno fu quasi generalmente accettato in quel paese tanto rinomato per sapienza e per dottrina.” (Le funeste conseguenze di un pregiudizio popolare, 1868)
Tra le righe si può leggere lo stupore di Bufardeci: come possono tante persone, anche di cultura, credere a simili congetture? Una domanda alla quale non si trova risposta, nemmeno ai giorni nostri…