L’ultimo incontro, quello per mettere la parola fine a una relazione, è un momento potenzialmente pericoloso per le donne, e non solo da qualche anno a questa parte, da che è stato coniato il termine femminicidio.
Anche quando la parola non esisteva, le donne morivano per mano di uomini che mascheravano un’insana volontà di possesso dietro l’ingannevole apparenza di un grande amore. Come nel caso della contessa Giulia Trigona e del suo amante Vincenzo Paternò.
Giulia Trigona
Quando la nobildonna palermitana Giulia Trigona accetta di vedere per un’ultima volta l’amante, il barone Vincenzo Paternò del Cugno, in un modesto alberghetto di Roma, non può sapere che l’uomo ha già in mente di porre fine alla vita di entrambi perché lei ha deciso di troncare una relazione ormai insostenibile per lo scandalo suscitato, sia in Sicilia sia a Roma.
La contessa accetta quell’ultimo, fatale appuntamento per farsi riconsegnare le molte lettere, circa un centinaio, che gli aveva scritto in quei due anni d’amore e follia, vissuti senza troppo preoccuparsi di tenere nascosta la peccaminosa relazione.
Giulia Trigona
Sono i primi anni del ‘900, Palermo è una città viva e vitale dove la dinastia dei Florio – ricchissima famiglia senza corona – “regna” incontrastata. Tutta la nobiltà, quella ricca di titoli ma spesso di poche risorse, non si perde nessuna delle magnifiche feste organizzate dalla divina Franca nella dimora della famiglia, Villa dell’Olivuzza, e a Villa Igiea, che oltre ad essere un hotel di lusso di proprietà dei Florio, viene usata come privata “reggia borghese”, luogo di memorabili ricevimenti.
Villa Igiea a inizio ‘900
Immagine di Biblioteca Comunale Palermo via Flickr, condivisa con licenza CC BY.SA 2.0
L’11 agosto 1909, in una di quelle calde notti siciliane dove il profumo dei gelsomini stordisce la mente e illanguidisce i sensi, la contessa Giulia e il barone Paternò si conoscono al gran ballo che si tiene a Villa Igiea.
Lei è bellissima e un po’ malinconica, lui è giovane e aitante, fascinoso nella sua divisa da tenente di cavalleria. Tra i due si accende la scintilla. E’ un amore a prima vista, dominato da una passione che porta a infrangere le regole non scritte del decoro, quelle a cui una donna sposata deve necessariamente attenersi. Perché lei, Giulia, è maritata, e anche bene: il consorte è il conte Romualdo Trigona di Napoli, che appartiene a una famiglia di antichissima nobiltà, quella dei principi di Sant’Elia.
Non che Giulia abbia un lignaggio meno elevato: suo padre è il conte Lucio Mastrogiovanni Tasca Lanza, mentre la madre è la principessa Giovanna Filangeri di Cutò.
Giulia cresce nella residenza di campagna di Santa Margherita di Belice, a Palazzo Filangeri, poi reso famoso da Giuseppe Tomasi di Lampedusa (figlio di una sorella di Giulia), che nel suo celebre romanzo Il Gattopardo rende celebre l’amata dimora con il nome di Donnafugata (da non confondere con il castello di Donnafugata in provincia di Ragusa).
Palazzo Filangeri di Cutò a Santa Margherita di Belice
Immagine via Wikipedia – licenza CC0
Come si conviene a una ragazza dell’epoca, Giulia si sposa presto, a 18 anni, con il nobile Romualdo Trigona. Il matrimonio, anche se certamente combinato dalle famiglie, sembra essere felice, almeno per i primi dieci anni, ed è allietato dalla nascita di due bambine. Poi Giulia scopre che il marito, durante una sua lunga malattia, ha cercato conforto tra le braccia di un’attrice che recita nella compagnia teatrale di Eduardo Scarpetta.
Nella Palermo dell’epoca, quando ancora si respirava l’aria libertina della Belle Epoque, le relazioni extraconiugali intrattenute dagli aristocratici, e anche dalle nobildonne maritate, non destavano particolare scandalo, purché fossero salve le apparenze. Così Giulia Trigona deve fare buon viso a cattivo gioco, ma forse medita vendetta. Quando conosce Vincenzo Paternò cade fra le sue braccia, ma non solo per ripicca nei confronti del marito. In lui trova:
Tutte le dolcezze, tutte le consolazioni che credevo perdute per sempre
Ed è a tal punto innamorata da mettere da parte ogni precauzione. I due non nascondono la relazione, addirittura vanno in viaggio insieme, e il conte Trigona non può far finta di ignorare le voci che circolano per Palermo, a quei tempi città di respiro europeo, ma che quando si tratta di succosi pettegolezzi è peggio di un paese di provincia.
L’aristocratico riceve pure delle lettere anonime che lo informano della tresca e tutto precipita. Giulia subisce anche fisicamente le conseguenze della rabbia del marito, che non si fa scrupolo di alzare le mani, e alla fine viene allontanata sia da casa sia dalle figlie, che non può più vedere.
Intanto, nel corso del tempo, Vincenzo Paternò si rivela molto diverso da come appariva all’inizio: geloso e violento, fa scenate anche in pubblico, perché forse teme di perdere quella donna che, oltre alle sue braccia, aveva aperto per lui anche i cordoni della borsa. Perché Vincenzo Paternò del Cugno è sì nobile, ma non ha risorse finanziarie: le miniere di zolfo della famiglia rendono poco, e comunque lui si gioca tutto alle corse dei cavalli ed è sempre disperatamente alla ricerca di soldi, tanto da arruolarsi nella Cavalleria, che però lascia dopo essere diventato l’amante di Giulia.
Giulia Trigona:
La situazione è quindi difficile per tutti: Giulia rientra in famiglia perché patisce la lontananza dalle figlie, ma non mantiene la promessa di rompere definitivamente con l’amante, che probabilmente diventa sempre più pressante con le sue richieste di denaro.
Alla fine la donna si convince a chiedere la separazione legale, ed è Vincenzo stesso a farle il nome dell’avvocato Serrao, che tra l’altro è suo cognato. Per affrontare la nuova vita Giulia vende un feudo di sua proprietà ed ha l’accortezza di vincolare la somma ricavata, su consiglio dell’avvocato: Serrao probabilmente teme che quei soldi finiscano dilapidati in breve tempo da Vincenzo.
Questa decisione scatena le ire di Paternò, che accusa Giulia di tradirlo con Serrao, e fa una scenata pubblica durante la quale la insulta pesantemente e le strappa dal collo una catenina che le aveva regalato all’inizio del loro amore.
Questo terribile litigio avviene a Roma, al Quirinale, dove Giulia e il marito erano stati richiamati per prestare servizio a corte: una mossa voluta dalla regina Elena che, forse su suggerimento della regina madre (Margherita di Savoia), conta in questo modo di salvare il matrimonio della contessa, alla quale è molto legata.
La Regina Elena
Immagine di pubblico dominio
Giulia invece è esasperata: non vuole riconciliarsi con il marito e non vuole più nemmeno quell’amante troppo geloso e ormai rabbioso. Lui, Paternò, capisce che la donna ha deciso di lasciarlo e la convince ad accettare un ultimo incontro. L’appuntamento è alle ore 12 del 2 marzo 1911, all’hotel Rebecchino, vicino alla stazione Termini.
Sa cosa vuole fare, e si prepara con cura il Paternò: nella mattinata compra un coltello da caccia, poi arriva in anticipo all’hotel, dove chiede la camera più appartata. Aspetta alla finestra che la carrozza di Giulia compaia, e quando la vede scende per andare incontro alla donna. I due salgono insieme, consumano un frettoloso amplesso (più per abitudine che per desiderio, verrebbe da pensare) e quando Giulia è girata di spalle lui vibra un fendente alla schiena, poi la trascina sul letto e la finisce con due coltellate alla gola.
A quel punto, l’uomo impugna la sua pistola e si spara un colpo alla tempia
Finisce dunque nel sangue quella relazione che Giulia aveva definito, in un’appassionata lettera all’amante, “il solo raggio di sole della mia vita”.
Lei muore così, barbaramente uccisa a 34 anni, mentre lui, più giovane di due anni, sopravvive al tentato suicidio. Inizia un processo che, per l’efferatezza del crimine e per il ceto sociale della vittima, viene seguito dai maggiori giornali dell’epoca, in Italia e all’estero.
Perché oltre al lato morboso della vicenda, viene in qualche modo coinvolta anche la casa reale. Romualdo Trigona è gentiluomo di corte, mentre Giulia è dama della regina Elena, con la quale ha un rapporto di confidenza.
E’ lecito supporre – ma non v’è certezza – che Giulia raccontasse fatti privatissimi dei Savoia e della corte a Paternò, che poi li usava per spillare quattrini ai nobili che non volevano far sapere i fatti loro.
Questa supposizione nasce dal fatto che in quella stanza d’albergo la polizia trova un centinaio di lettere, proprio quelle che la contessa voleva a tutti i costi recuperare. E per un buon motivo: in mezzo alle tante appassionate missive d’amore indirizzate a Paternò, ce ne sono altre che Giulia e la regina Elena si sono reciprocamente scambiate, e poi finite nelle mani dell’uomo. Ebbene, le lettere non destinate all’amante non entrano nei documenti dell’istruttoria perché finiscono immediatamente nelle mani del presidente del consiglio, Giovanni Giolitti, e del re in persona, Vittorio Emanuele III, che poi ne farà un bel falò.
Il processo va comunque avanti, con l’avvocato difensore che tenta di scaricare la colpa su Giulia, rea di essere una donna dal “pensiero spregiudicato” in grado di trascinare alla rovina il povero Vincenzo. La difesa tenta anche la carta della seminfermità mentale, rigettata dal Professore Filippo Saporito (medico del manicomio giudiziario di Aversa), che definisce Paternò “un volgare simulatore”.
La perizia del Professor Saporito
Alla fine, il 28 giugno 1912, arriva la sentenza: ergastolo. I giudici non hanno ritenuto credibile nemmeno il tentato suicidio di Paternò.
Ma la storia non finisce qui, perché Paternò sconta la sua pena nel carcere di Santo Stefano, dove divide la cella con un personaggio di tutt’altro calibro, l’anarchico libertario Paolo Schicchi, al quale racconta tutti quegli intrighi di corte di cui era venuto a conoscenza tramite Giulia Trigona. Schicchi, uscito dal carcere e riparato in Tunisia, pensa di usare quelle informazioni per mettere in difficoltà la monarchia: scrive un libro che non arriva a essere pubblicato perché i servizi segreti di Mussolini se ne impossessano quando il manoscritto è in tipografia.
Guarda caso, dopo aver letto quelle pagine che devono essergli state molto utili come arma di ricatto, Mussolini intercede presso Vittorio Emanuele III per far avere la grazia a Paternò. Nel 1942 l’uomo lascia il carcere e se ne torna in Sicilia, dove fa in tempo a sposare la sua donna di servizio e a mettere al mondo un figlio, prima di morire nel 1949.
Una triste storia che, a dispetto dei cento e passa anni trascorsi, potrebbe apparire nella cronaca dei giorni nostri con le stesse identiche modalità e, purtroppo, le medesime motivazioni: mentalità maschilista, una fraintesa idea di orgoglio ferito, la scusa del “pensiero spregiudicato” delle donne. Ma per carità, che non si tiri in ballo l’amore…