Il Bunker di San Michele: sbarramento NATO contro i Carri Armati Sovietici

La guerra tra Russia e Ucraina ha riportato in cima all’agenda dell’opinione pubblica alcuni temi dimenticati come il riarmo e le linee militari di difesa territoriale. Durante la Guerra Fredda l’idea di un attacco da Est fu per decenni un timore concreto. Nonostante i rapporti tra Tito e Stalin fossero interrotti dal lontano 1948, l’ipotesi dell’avanzata dei carri armati sovietici (che in numero superavano di quattro volte quelli della NATO) attraverso la Jugoslavia (o l’Austria) rappresentava uno scenario possibile e allarmante.

Nel 1949 l’Italia aderì alla NATO e di conseguenza lo Stato Maggiore dell’Esercito si interessò da una parte delle fortificazioni del Vallo Alpino, che erano già esistenti e soltanto da ripristinare, e dell’altra della costruzione da zero di nuove linee difensive sul confine con la Jugoslavia. La cosiddetta “Soglia di Gorizia” sarebbe stato il primo punto di difesa dell’Italia e, in fin dei conti, dell’intero blocco Occidentale.

A ridosso del Carso la presenza della cortina di Ferro si faceva tangibile, si vedeva e si sentiva nelle storie delle famiglie divise, nei ricordi di chi aveva fatto il militare in quei luoghi e di chi aveva vissuto quel confine come un trauma da rimuovere. Il Nordest del nostro Paese si candidava chiaramente ad essere la frontiera di un nuovo mondo diviso tra paesi socialisti e capitalisti.

Tra i bunker meglio conservati c’è quello di San Michele a Savogna d’Isonzo (Gorizia), che è aperto alle visite grazie all’encomiabile lavoro di un’associazione locale (questo il link alla loro pagina Facebook ufficiale). I volontari che accompagnano i visitatori sono competenti e appassionati, eredi dello spirito della Fanteria d’Arresto, un corpo speciale che avrebbe dovuto fronteggiare le truppe motorizzate, corazzate e aviotrasportate sovietiche.

I Fanti d’Arresto sarebbero stati la prima linea di difesa dell’Occidente e potevano contare su tante piccole postazioni fortificate che formavano una rete molto complessa e integrata con gli ostacoli naturali del territorio come montagne, vallate e fiumi.

Il bunker di San Michele è un complesso stabile e organizzato di postazioni blindate in cemento armato, realizzate a fine anni ’60 sulla cima del monte Škofnik con la tecnica del cut-and-cover: scavo a cielo aperto e poi interramento. La struttura è formata da un PCO (posto di comando e osservazione), 5 postazioni per mitragliatrice protette da una cupola corazzata e due piazzole per i mortai. Non ci sono postazioni anticarro, perché la zona in cui si trova il bunker sarebbe stata raggiunta difficilmente dai tank. Tutte le postazioni sono collegate al PCO tramite un anello di cavo interrato, e ciascuna aveva in dotazioni due telefoni. I collegamenti esterni? Garantiti da postazioni radio. L’intera opera era presidiata da personale di guardia che veniva dislocato in una casermetta vicina, adesso utilizzata dalla protezione civile.

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Quanto sarebbero resistiti i nostri, dentro questi spazi angusti, contro i carri sovietici? Il volontario dell’associazione, che ci guida nella visita, sorride. Il dibattito su questo punto non si è mai chiuso: c’è chi dice qualche minuto, c’è chi con fierezza afferma che i militari italiani avrebbero respinto l’assalto e chi, più realisticamente, ipotizza quattro o cinque giorni di resistenza al massimo. Insomma, “La verità su una storia mai accaduta non la sapremo mai”.

Contrariamente al suo nome la Fanteria d’Arresto non aveva lo scopo di “fermare” l’invasore, un obiettivo troppo ambizioso e irrealistico: il vero scopo era far perdere tempo, rendere difficoltosa la penetrazione nel territorio e resistere più possibile, in attesa delle truppe NATO.

Se ai bunker aggiungiamo anche lo schieramento di campi minati e le distruzioni di ponti e strade si capisce come l’azione di disturbo avrebbe effettivamente infastidito e ritardato l’invasore che tutti attendevano alla linea fortificata principale, quella del Tagliamento.

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I bunker e i reparti di fanteria d’arresto rimasero in servizio fino al 1993, quando la dissoluzione dell’URSS rese anacronistica la loro esistenza e consegnò la Soglia di Gorizia a una linea temporale distopica, in cui la storia si fa “con i se e con i ma”. In attesa del prossimo presente inatteso, in cui il dibattito sulle linee difensive torni d’attualità.

Tutte le fotografie sono di David Mazzerelli, autore dell’articolo.


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