Nell’Europa della prima modernità, c’era uno spettacolo truculento che turbava e incantava il suo folto pubblico: il tormento del criminale sul patibolo e la sua pubblica dissezione. Il “palcoscenico” del teatro anatomico svelava agli occhi del pubblico un corpo trattato come un congegno meccanico da smontare. Non di rado, infatti, il morto veniva lasciato esposto come monito sul patibolo, sulle mura della città o nei cosiddetti gallows fields, perché lo scempio dei suoi resti (a opera degli agenti atmosferici, dei detrattori e delle bestie) ispirasse negli spettatori un salutare timore del sovrano e della giustizia divina.

Nell’immaginario collettivo, sono diventati celebri sia il tetro cigolio del gibbet (una stretta gabbia in cui il corpo veniva lasciato a decomporsi), sia l’esibizione delle teste mozzate, infilzate sulle picche all’ingresso dei centri abitati. Queste lugubri immagini avevano tutte lo stesso scopo: educare i passanti al rispetto della legge mondana e celeste, mostrando il triste destino dei ribelli.

Se l’esecuzione aveva luogo nella piazza principale, per istruire la comunità, e l’esposizione del cadavere del giustiziato si svolgeva all’entrata della città, per mostrare la rettitudine dei suoi abitanti, la morte per mezzo della giustizia era, in ogni suo aspetto, uno spettacolo attentamente disegnato per essere “socialmente utile”. Il suo esito, una vera e propria punizione post mortem, costituiva solo uno dei drammatici momenti che componevano il rituale della pena capitale, accuratamente definito secondo stilemi estetici precisi e la cui corretta esecuzione costituiva il capolavoro del boia.

Costui era ufficialmente incaricato di impartire la giustizia attraverso una prova pratica, impressa nella carne del condannato, ma ciò ne faceva un moralmente vile, un intoccabile, e il disprezzo investiva chi gestiva quelle tecniche che manifestavano, sulla pelle dei condannati, la volontà del potere sovrano.

Qualora il reo non fosse condannato alla prigione, al pagamento di una multa o all’esproprio dei beni materiali, era infatti il carnefice a entrare in gioco, con un vasto repertorio che includeva le frustrate, la gogna, la marchiatura o l’amputazione, fino alla pena di morte, il più delle volte inflitta tramite impiccagione. Oltre che “artista”, il carnefice era poi mastro, attorniato da una squadra di assistenti, che praticava la “demolizione” del corpo del condannato come un vero e proprio “maestro di giustizia”, esperto non dichiarato nella fisiologia umana.

L’esperienza nel campo della violenza rendeva il boia una figura professionale, straordinariamente competente nell’arte del dosare la sofferenza e rallentare i tempi del decesso della vittima. Ad esempio, c’è chi pensa che fu proprio il carnefice a dare impulso alle tecniche con cui arrestare, rallentare e accelerare il flusso sanguigno, per ritardare temporaneamente la morte di chi aveva subito l’amputazione della mano o di altre parti del corpo durante il tragitto verso il patibolo.

Uno studioso del calibro di Pietro Camporesi – che associa la figura del boia a quella del medico, in virtù del fatto che entrambi disponevano di “un’équipe di ministri” – ipotizza la possibilità che sia stato proprio un giustiziere a ideare l’uso di legare strettamente l’avambraccio mutilato della mano in una vescica d’animale, per raggiungere l ’emostasi, l’insieme di processi che permette l’arresto del sanguinamento.

Nel passato, il boia era una figura molto controversa; veniva disprezzato, perché reso impuro dal contatto con i malvagi e i morti, ma il suo mestiere era comunque necessario. Isolato ai margini della comunità, eppure indispensabile proprio all’interno della dinamica comunitaria stessa, colui che impartiva i supplizi, torturando ed eseguendo le condanne a morte, era vittima – insieme alla sua famiglia e ai suoi assistenti – dello stigma dovuto alla sua mansione di amministratore della sofferenza, che ne faceva il guardiano del rito di passaggio supremo: la transizione dalla vita alla morte.

Tuttavia, i suoi concittadini ne riconoscevano l’autorità sul patibolo e l’esperienza maturata sul campo in fatto di anatomia umana e resistenza al dolore, da cui traeva una paradossale fama di guaritore. Una terza prerogativa per cui era famoso il boia riguardava il macabro commercio che conduceva, vendendo, sin dagli attimi successivi all’esecuzione, le parti del corpo di chi aveva portato alla morte. Il boia era dunque visto come un artigiano del massacro dei criminali e come un terapeuta, il cui lavoro consisteva nel curare il prossimo grazie alle virtù insite nella carne e nei fluidi vitali delle sue vittime.

Era il protagonista della corpse medicine europea, ossia la medicina fondata sulle proprietà corporee del cadavere, specialmente di chi aveva subito una morte violenta anzitempo, preferibilmente per impiccagione o annegamento. Si trattava di un insieme di tecniche mediche popolari, che comprendeva l’ingestione o l’applicazione di componenti del corpo umano, ciascuna investita di un peculiare valore benefico. Il sangue, la carne, le ossa polverizzate, le unghie, le cervella, i denti o la pelle delle vittime di morti traumatiche venivano applicati da persone di tutte le estrazioni sociali, nel tentativo di risolvere problematiche dall’epilessia ai carcinomi, dalla gotta alla depressione, e via dicendo.

Varie cure e rimedi trovavano così origine sul patibolo, perché era il boia, che, come secondo lavoro, finiva per vendere persino i ferri del mestiere usati, come, ad esempio, la corda con cui si era svolta l’impiccagione, molto ricercata per l’energia vitale tolta alla vittima. Il boia era quindi il principale fornitore degli ingredienti necessari per creare i rimedi ai mali più comuni dell’età moderna.

Il fatto che, dopo aver eseguito la sentenza, avrebbe lavorato ulteriormente sul defunto, per procacciare le preziose componenti di pozioni, unguenti e polveri benefiche, contribuiva alla preoccupazione, da parte della famiglia dei condannati, di sottrarre dalle sue cure al più presto il loro caro, ricorrendo alle trovate più disparate: dall’influenza politica di qualche conoscente, alla corruzione o al furto del cadavere.

La pubblica esecuzione appare, allora, ben più di un cerimoniale intriso di simbolismo sacrificale ed espiatorio; Richard Sugg, un attento studioso del tema, addirittura, la definisce un laboratorio a cielo aperto messo a disposizione di un pubblico sempre più variegato, che assiste alle meraviglie del corpo umano.

Secondo Elizabeth Hurren, il criminale condannato passa attraverso tre stadi: alla morte legale, la messa in pratica della condanna capitale, segue la morte medica, quando il cadavere viene aperto davanti agli occhi di tutti, e, infine, una seconda morte fisica, che consiste nei tormenti inflitti al corpo a scopo disonorante (per il defunto e i suoi parenti) e pedagogico (per chi assiste alla scena).

Ne consegue che il boia è ben più di un tristo cerimoniere: investito di un’aura sacrale, che lo rende in un certo senso affine alla figura del sovrano (seppur disprezzato anziché riverito), egli è, per l’azione decisiva che compie, sospettato di possedere addirittura poteri taumaturgici. In alcuni paesi gli è vietato toccare la merce in mostra al mercato, tanto che per acquistarla deve indicarla con un bastone; il suo mestiere è uno dei più disonorevoli e ciò fa sì che a esercitarlo siano spesso degli ex-galeotti, tra i pochi disposti ad assumersi uno status tanto infimo e infamante. Reso intoccabile dalla propria
vicinanza ai cadaveri, il boia si trova esiliato in una zona di confine, dove la giustizia umana incrocia lo spettacolo della morte violenta.

Proprio per questa sua caratteristica liminale, egli è però anche il depositario del segreto degli ultimi attimi dell’esistenza terrena, testimone della lotta per la salvezza delle anime che si verifica sul patibolo, dove i sacerdoti e le Compagnie di Giustizia tentano di strappare al morituro un pentimento in extremis. Ecco perché, nonostante sia contaminato da un lavoro ai margini, dove la vita sfocia nella morte, il boia è anche oggetto di ammirazione, per l’arcana sapienza e il sommo potere di cui dispone.
Per saperne di più, ecco due nostri articoli sui boia del passato:
- Il Boia di Venezia: l’Uomo dai molti Nomi che nessuno osava Chiamare
- Una vita sul patibolo: Mastro Titta, il boia di Roma
Bibliografia essenziale
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