Il Boia di Venezia: l’Uomo dai molti Nomi che nessuno osava Chiamare

Chi è colui che possiede più nomi, ma nessuno osa chiamarlo? Potrebbe essere l’incipit di un classico indovinello, invece appartiene alla nostra storia. Stiamo parlando del maestro di giustizia, comunemente detto boia o carnefice.

I romani lo chiamavano “carnifex”, ovvero colui che rende l’uomo carne

Sotto l’articolo raccontato in video da Venezia:

Boia, invece, si riferiva allo strumento del laccio o gogna e per estensione venne attribuito alla persona. Nel 1963 il regista Luigi Capuano dirige “Il Boia di Venezia”, ma in città, storicamente, la sua figura è avvolta nel mistero. In una Repubblica attenta all’immagine e che rendeva spettacolo le condanne a morte eseguite tra le due colonne di San Marco e San Todaro, risultò molto più semplice non far trapelare molto su chi si incaricava di una funzione tanto delicata.

A volte si preferiva assoldare uno straniero: nel 1406 risulta uno “schiavone”, ovvero dall’entroterra dell’Adriatico orientale, nel 1514 un tale Girolamo da Capodistria, nel 1750 il romano Francesco Ravenna. Curiosa anche l’usanza di incaricare temporaneamente un condannato a morte, facendo ben attenzione che non tentasse la fuga. Si preoccupava il Magistrato del Proprio a pubblicare il proclama nelle galere e nelle prigioni. Tale Albanesetto, pur trovandosi in carcere per omicidio, fece il boia per quattro anni dopo la sentenza, perennemente collegato alla prigioni di Palazzo Ducale con un cordone legato a un piede che gli permetteva di lavorare senza problemi. Nel 1728 il carnefice Giuseppino da Mantova venne ucciso mentre tentava di darsela a gambe levate, due anni dopo Giuseppe da Brescia riuscì nella fuga e così anche Giovanni Agnello da Limenella nel 1740.

Non si può certo dire che fossero stinchi di santo nemmeno quelli scelti tra i veneziani. Il 17 maggio del 1763 il Capitan Grande Mattio Varutti, su una “spiata” di un confidente, fa irruzione nella casa del boia di Venezia, Antonio Preto, e lo arresta. Si era scoperto che faceva il ricettatore per una banda di ladri “borsaioli”, ovviamente per arrotondare la paga. Una paga che per i parametri dell’epoca non doveva essere troppo bassa. Nei registri di spesa degli Inquisitori di Stato troviamo qualche indicazione. Nel 1717 per aver “appeso Francesco Benedio al patibolo” fu pagato 12 ducati. Nel 1721 per la decapitazione di Carlo Alberti nei camerotti delle prigioni guadagnò 5 ducati. Pensiamo che lo stipendio del maestro di violino Antonio Vivaldi nel 1705 era di 150 ducati all’anno. Ovviamente Vivaldi non doveva affrontare i problemi del togliere la vita a qualcuno.

Se il boia sbagliava la lunghezza della corda o il taglio della testa, non di rado rischiava che la folla lo linciasse

Non doveva nemmeno essere particolarmente simpatico alle persone, visto il triste compito che ricopriva. Per questo l’edificio nel quale abitava non è mai stato reso pubblico. Se in parte, come abbiamo visto, molti venivano avviati alla professione in maniera del tutto casuale, nell’Ottocento, dopo al caduta della Repubblica, il maestro di Giustizia diventa una figura dai contorni più nitidi.

Numerosi furono i cambiamenti avvenuti con l’arrivo dei francesi. Primo fra tutti il luogo delle esecuzioni. Per secoli i Dogi avevano decretato che fossero pubbliche e in vista. La scelta era ricaduta sulla piazzetta dove sorgevano le due colonne di San Marco e San Todaro.

Lo sguardo rivolto alla folla e alla torre dell’orologio per vedere l’ultima ora prima che la lama facesse calare il sipario

Nel 1806 il Prefetto del Regno d’Italia vieta le pubblicazioni delle sentenze sul palco a San Marco. Il primo a beneficiarne è Pietro Maggi, condannato a quindici anni. In seguito i francesi trasferiscono le esecuzioni nei pressi del monastero dei frati minori di San Francesco della Vigna, vicino all’Arsenale e in una zona considerata allora periferica. Sembra incredibile, ma il primo a lamentarsi fu Bortolo Agostini, nunzio della chiesa di San Zaccaria, ovvero quella di competenza di San Marco.

Lui era retribuito per tumulare i cadaveri dei giustiziati, ma spostarsi in giro per Venezia non rientrava certo nelle sue competenze. Con lettera scritta di suo pugno sbraitò tanto che venne accontentato e si diede l’incarico ai “becchini del cimitero comunale”. Nel 1839 il Governo austriaco decide di costruire in quel luogo il gasometro e si cerca un nuovo posto per le esecuzioni. In un primo momento la scelta ricade su di un terreno a Quintavalle, nella parrocchia di San Pietro di Castello, poi nel campo di Sant’Andrea della Zirada, dove oggi sorge Piazzale Roma. Infine si opta per la spiaggia e paludo di Santa Marta a Dorsoduro. Una zona in fase di bonifica, distante da tutto e da tutti e dove le sentenze capitali si potevano eseguire in santa pace. Almeno così pensavano.

La prima esecuzione avviene nell’ottobre del 1841 quando si fucila Nicolò Somagi, un disertore. Il giorno dopo arrivano le lettere di protesta degli abitanti per la sepoltura del cadavere nella loro zona: “Li abitanti circonvicini al nuovo campo di giustizia in Arzere a Santa Marta, esternarono delle lagnanze pella pretesa mala sotterrazione del cadavere di Nicolò Somagi, stato fucilato giovedì”. Il clima non era di sicuro il più favorevole al maestro di Giustizia che doveva andarci a vivere. La prima residenza che conosciamo è una casa al civico 716, adiacente al carcere femminile delle Convertite alla Giudecca, dove alloggia fino al 1857.

Nell’agosto di quell’anno si acquistano le case di Zenone Zen e Ambrogio Pellanda a Santa Marta, precisamente ai civici 2051 e 2052 per costruirci gli alloggi del boia e del suo assistente. Antonio Ressinger, il carnefice, si trasferisce, assieme alla moglie e al suo assistente in quella torrida estate. Due cucine al piano terra, due stanze anguste al piano superiore. Non certo una reggia. Chiede solo di porre delle inferiate alle finestre “a garanzia della personale sua sicurezza, e che venne adottata anche allorché abitava nel locale delle Converite (Giudecca) sebbene fosse quel sito meno remoto e deserto dell’altro che si sta ora riducendo”. Nel novembre dello stesso anno Antonio richiede la costruzione di almeno due stufe per proteggersi dal freddo pungente dell’inverno in laguna. Quattro anni dopo un’ennesima lettera affinché si eseguissero dei lavori al tetto e alle finestre, anche alla camera per il suo assistente. Di questi anni abbiamo anche il racconto di un testimone oculare del lavoro del carnefice.

Nel 1861 lo storico Cicogna ci racconta: “6 agosto. Ieri mattina, lunedì 5 corrente, fu impiccato un militare austriaco, reo di omicidio nel suo caporale. Esso ne aveva anteriormente ucciso un altro ma per difetto di chiare prove era stato dimesso dal carcere. Fu impiccato al palo coll’uso del crico (macchina a ruota e asta dentata per sollevar pesi). Il palo era composto da due grosse tavole, larghe poco più di una spanna. Ad alto un grosso uncino per cui è attaccato il laccio da cui pendeva il cadavere (che vidi alle 7 pomeridiane mentre alle 6 antimeridiane fu eseguita la sentenza) Avea le mani legate una sopra l’altra e anche le braccia legate per dietro la schiena. Lo stato del cadavere non era nulla schifoso né lingue né occhi erano fuori dal centro. Dicono che sia il modo più acconcio e più (sic) per tale oggetto. Il vidi senza volere perché, recatomi alla sagra dè lunedi di Santa Marta, feci un giro la ove vidi quantità di gente ne sapeva il perché. Erano curiosi che aspettavano il boia venisse a levare dalla forca il cadavere per darci sepoltura. Del resto dall’altra parte della strada, ossia sull’arzere di San Nicolò, la bassa gente ballava al suono dè violini e clarinetti e mangiava sdraiata sull’erba, ec. Nulla badando che due tiri di schioppo lontano era appiccato che, però non poteva vedere perchè dietro le case”.

Dal 1862 per i civili non venne eseguita più nessuna condanna a morte. Negli anni ‘70 dell’Ottocento la casa venne venduta e successivamente abbattuta. La figura del boia tramontò nel 1886 quando venne abolita nello Stato Italiano. Tornò a svolgere il suo triste compito durante il fascismo fino all’entrata della Costituzione Repubblicana che ne decretava la fine. Dopo oltre mille anni tramontava l’uomo dai numerosi nomi che nessuno voleva chiamare.

 

Fotografie dei documenti di proprietà e dell’autore, Davide Busato.


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