I “treni della felicità”: una storia di solidarietà

“C’ero anch’io su quel treno” di Giovanni Rinaldi (Solferino Editore), è un libro che si potrebbe definire necessario, per comprendere appieno il valore della parola solidarietà. Termine per un verso abusato e privato del suo significato più profondo, e per l’altro obsoleto, in un mondo dove la parola solidarietà viene confusa con un non meglio precisato, e chissà perché, colpevole buonismo. Da anni ormai, una sempre più feroce contrapposizione divide chi sostiene il valore dell’accoglienza nei confronti di coloro che rischiano di soccombere a fame, sfruttamento e guerre, e chi, a mo’ di provocazione, esorta i “buonisti” ad ospitare “a casa loro” queste persone in fuga.
Una provocazione esercitata con la consapevolezza dell’impossibilità di una soluzione di questo tipo, a fronte di un fenomeno tanto massiccio quanto inarrestabile.

Invece, solo qualche decennio fa, in un’Italia in ginocchio, appena uscita dalla seconda guerra mondiale, questa esortazione ad accogliere a casa propria chi aveva più bisogno – la fascia più debole della popolazione, i bambini – ha dato vita ad un movimento di solidarietà tra i più commoventi, ed esaltanti al tempo stesso, di quel complicato periodo: il “Movimento di solidarietà democratica per la salvezza dell’infanzia”, che nasce dalla volontà delle donne che militavano nel Partito Comunista e che avrebbero dato vita, proprio in quegli anni, all’UDI (Unione Donne Italiane), nata dai “gruppi di difesa delle donne”, costituiti durante la guerra.

E’ Teresa Noce, partigiana, deportata nei campi di concentramento in Germania e poi membro della Costituente, che si accorge, nel primo inverno post-bellico a Milano, della sofferenza dei bambini più poveri, costretti a dormire nella segatura per ripararsi dal freddo.

Cosa fare per porre rimedio a una situazione così drammatica?

Per comprendere come nasce quella straordinaria rete di solidarietà bisogna rifarsi a un’idea del “fare politica” che non esiste più, quando ancora l’impegno personale era mosso da un’ideale di bene comune.

Teresa Noce

Teresa Noce, in quell’inverno del 1945, chiede agli iscritti del PCI di Reggio Emilia – dove c’è meno carenza di cibo rispetto a Milano, per l’estensione delle terre coltivate – di ospitare qualche decina di bambini milanesi in grave difficoltà. La risposta a questa richiesta di aiuto supera ogni aspettativa: sono duemila i bambini accolti nelle famiglie non solo di Reggio Emilia, ma anche di Parma, Modena e Bologna.

Un’operazione possibile grazie alla collaborazione delle Ferrovie dello Stato, che mette a disposizione i treni necessari per il trasferimento dei bambini.

Treni che negli anni successivi consentiranno a circa 70.000 bambini quel viaggio verso la salvezza – in attesa di tempi migliori nelle zone più colpite dalla miseria – dalla fame e dall’abbandono, ospitati non solo in Emilia Romagna, ma anche nelle Marche, in Toscana e Liguria.

Dopo la prima esperienza, la rete di solidarietà si allarga a bambini che provengono da Napoli, dalle baraccopoli di Roma, e poi da Calabria, Sicilia e Sardegna. Subito dopo i piccoli milanesi, già nel gennaio del 1946, sono i bambini della disastrata Cassino – e dei paesi lì intorno – ad essere aiutati.

15 marzo 1944: Bombardamento di Cassino – Immagine di pubblico dominio

La situazione del frusinate è davvero tragica: il territorio è devastato, pericolosissimo per le mine inesplose, il terrore dei bombardamenti continui ritorna nelle notti insonni, la malaria si accanisce sui più deboli, le grotte sono tutte occupate e gli uomini adulti dormono all’addiaccio, spesso senza vestiti addosso, mentre il freddo e la fame hanno portato via tutti i bambini sotto i quattro anni.

La città di Cassino nelle settimane della sanguinosa battaglia – Immagine di Bundesarchiv via Wikipedia – licenza CC BY-SA 3.0

Più di mille bambini partono con il primo scaglione da Frosinone, e altri 850 con il secondo.
Bambini che vengono lavati, rivestiti e accolti come “figli adottivi” in famiglie contadine e operaie, disposte a spartire il pane con chi non aveva nemmeno quello; “li abbiamo accolti nella nostra miseria” dice una delle donne che racconta a Rinaldi la sua esperienza.

L’iniziativa dell’UDI, sostenuta poi anche da altre organizzazioni femminili, riscuote dunque un grande successo, ma incontra l’opposizione della Democrazia Cristiana ed anche delle parrocchie dei paesi di provenienza, perché, si sa, i comunisti mangiano i bambini o forse, nella migliore delle ipotesi, li spediscono in Russia.

Ventitrè bambini provenienti da Frosinone, quando arrivano di notte a Lugo di Romagna, stremati da un viaggio lungo 48 ore, vengono colti dal panico:

“I bambini sentirono per la prima volta le donne che li accoglievano parlare in dialetto romagnolo. Pensarono che fosse russo e si spaventarono a tal punto che si fece fatica a convincerli di scendere dal treno”.

Addirittura, un parroco di un paese del frusinate impedisce a una bambina di ricevere il sacramento della prima comunione, perché era stata ospitata da una famiglia di Voltana (paese nelle vicinanze di Lugo):

“Tu sei una comunista, non devi ricevere la prima comunione”.

Invece, quello che traspare dalle testimonianze raccolte da Rinaldi, quei bambini trovano non solo cibo, ma cura e affetto, premure a cui non sono abituati: letti con lenzuola pulite, vestiti e persino giocattoli, donati dai commercianti del luogo.

Tra il dicembre del 1946 e l’estate del 1947, partono da Napoli circa diecimila bambini, grazie al “Comitato per la salvezza dei bambini di Napoli”, che ha come presidente il dirigente del PCI Giorgio Amendola.

Anche a Napoli la situazione è disastrosa, molti bambini sono orfani o abbandonati a se stessi, e scoprono che esiste una vita diversa, nella quale gli adulti si prendono cura di loro.

Molti dei bambini che hanno vissuto questa esperienza, divenuti grandi, tornano a trovare la famiglia “adottiva”, magari con i figli che nel frattempo sono nati. Un legame che in alcuni casi è rimasto anche dopo la morte di chi aveva accolto e di chi era stato ospitato, e prosegue nella generazione successiva.

Questa rete di solidarietà si ripropone anche in eventi successivi, non legati alla contingenza post-bellica: a Ferrara vengono ospitati bambini di Comacchio, che all’epoca era un paese di pescatori poverissimo, mentre intere famiglie vengono accolte in molte regioni del nord Italia dopo l’alluvione del Polesine, nel 1951.

Merita un discorso a parte quello che avvenne nel marzo 1950.

La guerra è finita da cinque anni, ma l’Italia è un paese ancora poverissimo, e lo è maggiormente al sud, dove il sistema agricolo dei latifondi è basato sul lavoro dei braccianti a giornata, categoria dei più poveri fra i poveri, costretti a una vita di miseria senza riscatto.

Le organizzazioni sindacali di operai e contadini organizzano scioperi dove spesso ci scappa qualche morto, vista la durissima politica di repressione del ministro dell’interno Mario Scelba.

A Modena, il 9 gennaio 1950 la Polizia di Stato spara sugli operai in sciopero delle Fonderie Riunite e ne ammazza sei, mentre altri duecento rimangono feriti. La CGIL indice, per il 22 marzo, uno sciopero generale, per protestare contro l’uccisione di due braccianti abruzzesi, per mano dei carabinieri, che stavano mettendo in atto una pacifica forma di protesta chiamata sciopero a rovescia (i manifestanti facevano lavori di pubblica utilità nell’orario di lavoro).

Quel 22 marzo Scelba ordina di usare, come sempre, le maniere forti, e così muore, a Parma, un disoccupato di 32 anni, Attila Alberti. A un altro scioperante, malato di diabete, viene impedito di prendere le medicine mentre è in carcere, e così muore. Anche in Abruzzo ci scappa un altro morto e la notizia di queste repressioni violente arriva velocemente alle Camere del Lavoro.

I braccianti di San Severo, in Puglia, decidono di scioperare anche il giorno successivo, per protestare contro quelle morti ingiustificate. Fin dal primo mattino il paese si riempie di una folla composta da uomini, donne e bambini: gli animi si scaldano, si cominciano a sentire i primi spari sugli scioperanti, che partono dai tetti delle case, per mano di chi si opponeva alla manifestazione. I rappresentanti sindacali, che vanno spontaneamente alla caserma dei carabinieri per tentare di trovare una soluzione pacifica, sono invece arrestati e picchiati. I dimostranti erigono delle barricate molto modeste, fatte di sgangherati carretti di legno, ma l’arrivo di trecento agenti e quattro (quattro!!) carri armati mette fine alla protesta.

Il bilancio è di un morto, quaranta feriti e oltre un centinaio di arrestati, fra uomini e donne, che resteranno in carcere, con l’accusa di insurrezione armata, fino al 5 aprile del 1952, quando, al termine del processo, saranno tutti assolti “per non aver commesso il fatto”.

A complicare una situazione già di per sé difficile, c’è il dramma di molti bambini – anche nuclei di 4 o 5 tra fratelli e sorelle – che sono rimasti soli, perché i genitori sono stati entrambi arrestati mentre i parenti più stretti (nonni, zii) non possono farsene carico, viste le condizioni di estrema povertà della maggioranza delle famiglie.

Donne di San Severo arrestate e trasferite in carcere

Interviene allora il “Comitato di solidarietà democratica”, un’organizzazione di sostegno dei partiti della sinistra, nata già negli anni del fascismo per dare aiuto (legale ed economico) a chi, per motivi politici, si trovava in carcere o in situazioni particolarmente difficili.

Sono circa una settantina i bambini e le bambine che, ospitati in famiglie di Pesaro, Ancona, Ravenna e Livorno, il 16 maggio 1950 partono dalla stazione di San Severo, accompagnati da volontarie dell’UDI.

Quel viaggio in treno, che dura una notte intera, su scomode panche di legno, è faticosissimo, ma rappresenta, pur nel dolore della separazione e nella paura dell’ignoto, una sorta di scoperta del mondo. Quei bambini che faticano a dormire, spaventati e confusi, vedono per la prima volta il mare, che luccica al di là dei finestrini del treno: “Mi sembrava di essere in una favola, perché dall’interno del treno vedevo fuori tutte queste luci che si rispecchiavano nel mare, ma non riuscivo a capire cos’era, perché neanche sapevo che esisteva il mare”. In queste parole, della ormai anziana signora Erminia, traspare ancora tutto lo stupore della bambina di tanti anni fa, e raccontano bene l’avventura dei piccoli sanseveresi.

Nelle famiglie adottive quei bambini scoprono una vita diversa, diversa da quella di fame e fatica che è la sola che conoscano. Persino fare il bagno in una vasca, o avere un paio di scarpe da mettere ai piedi rappresenta una novità. E poi, finalmente, la possibilità di cavarsi la fame: c’é chi ricorda di aver mangiato per la prima volta una brioche o un gelato, o aver bevuto il caffellatte (alcuni non sapevano nemmeno cosa fosse il caffè). Addirittura si mangia la pasta tutti i giorni, la carne anche più volte alla settimana, e poi la sorpresa di un pasto caldo la sera.

“A San Severo”, racconta una delle persone ascoltate da Rinaldi “si mangiava sì e no una volta al giorno quando c’era il pane, pane e pomodoro o qualche altra cosa che si riusciva a trovare. La pastasciutta solo la domenica, sempre se nostro padre aveva trovato lavoro durante la settimana.”

Alla chiusura del processo, dopo due anni “e tredici giorni” (come rimarcava una delle donne arrestate), i bambini e le bambine di San Severo tornano a casa, ma qualcuno di loro (come già era capitato anche nelle esperienze precedenti) rimpiange quella vita meno faticosa, quel minimo benessere che avevano conosciuto, perché là in Puglia la situazione non è cambiata: i braccianti, soggetti al caporale, lavorano a giornata quando trovano, per una paga da fame che non consente riscatto. Così qualcuno di loro, con il consenso dei genitori, torna dalle famiglie adottive e costruisce la propria vita in un altrove scoperto in circostanze così drammatiche.

Questa è la storia poco conosciuta dei “treni dei bambini”, o “treni della felicità”, come li aveva definiti il sindaco di Modena (dal 1946 al 1962) Alfeo Corassori. I treni della felicità sono quelli del ritorno a casa, perché “la felicità non deriva dall’essere stati allontanati dalle loro case, ma nell’aver trovato nuovi affetti e sentimenti che avrebbero permesso loro di guardare il mondo con altri occhi, con meno paura e timori per il futuro”.

E potrebbero chiamarsi anche in molti altri modi, ma alla fine sono stati la dimostrazione di “una solidarietà possibile tra Nord e Sud, tra operai e contadini” (Miriam Mafai), quando ancora l’impegno politico si fondava su idee e valori non negoziabili.

Poi la realtà è andata verso un’altra direzione, anche se talvolta qualcosa di quegli ideali riemerge, come in occasione dei terremoti del 20 e 29 maggio 2012 in Emilia, che provocarono 27 vittime e lasciarono senza casa migliaia di persone. A Napoli, la consigliera delle Pari opportunità decide di ricambiare le città dell’Emilia per la solidarietà dimostrata nell’immediato dopoguerra, e dà vita al “Progetto Posillipo”: quaranta donne con figli, dalla provincia di Ferrara, vengono ospitati nella località partenopea per una vacanza di dieci giorni. Tra le ospiti a Posillipo ci sono anche due mamme migranti con le figlie e due minori egiziani “non accompagnati”, per ricordarci che questi bambini che arrivano oggi in Italia da terre così lontane e piene di problemi, hanno qualcosa in comune con quei figli del dopoguerra, accolti a braccia aperte da chi aveva poco, perché loro non avevano davvero nulla.

 

Tutte le frasi virgolettate, dei protagonisti di questa storia, sono estrapolate dal libro di Giovanni Rinaldi. Non è stato possibile invece risalire alle fonti originali delle foto d’epoca.


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