Agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso, quando i movimenti hippies e la New Age iniziano a diffondere quella controcultura basata sullo spiritualismo, l’ambientalismo, la meditazione (e molto altro ancora), comincia a circolare la leggenda dei “Rainbow Warrior”, i Guerrieri dell’Arcobaleno, trasmessa oralmente dai nativi americani di molte nazioni, in particolare Hopi e Cree.
Un giorno … sarebbe arrivato il momento in cui la terra sarebbe stata devastata e inquinata, le foreste sarebbero state distrutte, gli uccelli sarebbero caduti dall’aria, le acque sarebbero state annerite, i pesci sarebbero stati avvelenati nei corsi d’acqua e le foreste sarebbero state distrutte, l’umanità, per come la conosciamo, avrebbe cessato quasi completamente di esistere
Questa è la profezia che, all’incirca un secolo fa, fece “Occhi di Fuoco”, un’anziana donna della nazione Cree. Deve arrivare un tempo in cui i “custodi di leggende, storie, rituali, miti e di tutte le usanze tribali” interverranno per impedire il disastro e far tornare la Terra di nuovo un luogo “verde”. Questi uomini saranno chiamati Rainbow Warrior, i Guerrieri dell’Arcobaleno.
Il loro compito sarà quello di insegnare, a tutti gli altri uomini, a camminare con passo leggero sulla Terra e ad amarsi come fratelli indipendentemente dal colore della pelle. La leggenda dice anche che ai nativi americani si aggiungeranno “molti sorelle e fratelli dalla pelle chiara, che in realtà sono le anime reincarnate degli indiani che furono uccisi o ridotti in schiavitù dai primi coloni dalla pelle chiara.” Le anime di questi primi nativi uccisi sarebbero tornati alla vita in corpi di uomini di ogni colore: rossi, bianchi, gialli e neri, uniti come i colori dell’arcobaleno, per insegnare a vivere nel rispetto della Madre Terra a tutti i popoli del mondo.
Questa leggenda, che si trova riportata in molti siti web di associazioni di nativi americani, non convince tutti.
Pare che questa profezia sia stata “inventata” nel 1962, quando uscì il libro “Warrior of the Rainbow”, scritto da alcuni membri della Chiesa Cristiana evangelica. Non si tratta di un omaggio alla cultura dei nativi, ma piuttosto di una dimostrazione, secondo lo scrittore e poeta nativo americano Sherman Alexie, di come “i bianchi americani hanno cooptato la cultura indiana”.
L’immaginario dei bianchi sui nativi, sempre secondo Alexie, è fatto di stereotipi duri a morire rispetto a quella che è la realtà attuale: il nativo come figura tragica; le donne indiane considerate come oggetti sessuali dai bianchi; uomini indiani segretamente desiderabili dalle donne bianche; nativi mostrati come violenti, alcolizzati, infantili, mistici e membri di una cultura del cavallo. Appropriarsi della cultura indiana è un modo per “scrivere il grande romanzo indiano americano” dove “tutti i bianchi saranno indiani e tutti gli indiani saranno fantasmi”.
Nel 2015, un gruppo di accademici e scrittori nativi americani ha dichiarato che la “fittizia” leggenda dei Guerrieri dell’Arcobaleno è uno “sfruttamento culturale” che offende le nazioni indigene, perché “si appropria intenzionalmente di pratiche culturali native [in modo] non solo avventurista e pericoloso, ma offensivo per molti di noi che continuano a difendere la vitalità e la visione spirituale, culturale, sacra e soprattutto politica della Grande Nazione Sioux”.
Come dire che l’appropriazione culturale dei bianchi è un’operazione non gradita, perché rischia di banalizzare e snaturare la cultura nativa troppo spesso identificata con un passato che non esiste più. Gli “Indiani Morti”, come li definisce Thomas King, importante studioso nativo canadese, rispondono a quei cliché fatti di copricapi di piume, abiti con perline, mocassini e tomahawk. Cliché vuoti del loro significato, sfruttati commercialmente in prodotti di ogni genere che nulla hanno a che fare coi nativi. Per non parlare di quei tour che promettono un’autentica “esperienza indiana”, con terapie nelle casette del sudore, o addirittura un collegamento con “l’indiano interiore” che ogni americano bianco porterebbe dentro di sé. Insomma se “gli indiani vivi, dal punto di vista del Vecchio Mondo, erano una parte affascinante, sconcertante e fastidiosa della vita nel Nuovo Mondo” da morti rappresentano un grande affare.
Arrivati a questo punto, ognuno può decidere se la leggenda dei Guerrieri dell’Arcobaleno è veramente un mito dei nativi che può dare speranza a un mondo che pare ormai averla persa, o se è un’appropriazione culturale funzionale a qualcos’altro.
D’altronde, le profezie di una rinascita, di una rinnovata Età dell’oro, sono presenti in molte culture. Che siano vere o meno, certo è che inquadrano una realtà fatta di violenza, corruzione, avidità, ingiustizia che affligge la società moderna. Sperare che l’umanità di oggi sarà salvata da qualcuno che viene dal passato è forse un modo semplice per non fare i conti con noi stessi.
Oppure, i più coraggiosi possono diventare Guerrieri dell’Arcobaleno: non a caso il fondatore di Greenpeace ha chiamato Rainbow Warrior la prima nave dell’associazione, dopo aver letto quel libro scritto chissà da chi. Nave che sarà poi affondata dalla Marina francese il 10 luglio 1985, mentre tentava di opporsi a dei test nucleari nella Polinesia Francese. Quell’incidente costò la vita a Fernando Pereira, fotografo di Greenpeace che rimase intrappolato nel relitto. Ma questa è veramente un’altra storia, di terrorismo, spionaggio, insabbiamenti, e vigliaccheria, insomma una storia semplice.