Palermo, una città dove ogni angolo di strada, ogni pietra, raccontano mille storie diverse. Popoli e culture lontane hanno lasciato i loro segni nello stesso luogo, in un intrecciarsi di fatti e misfatti nel quale è difficile districarsi. Piazza Marina è famosa perché qui venne assassinato dalla mafia il poliziotto italo-americano Joe Petrosino, nel 1909. Il quartiere è quello della Kalsa, chiamato anche Mandamento dei Tribunali: gli arabi consideravano questa parte della città al Khalisa (l’eletta), mentre gli spagnoli stabilirono nel prestigioso Palazzo Chiaramonte la sede del Tribunale dell’inquisizione.

Lo stesso Palazzo Chiaramonte viene comunemente chiamato con un altro nome, Palazzo Steri (da Hosterium – palazzo fortificato), abbreviazione tutta palermitana di Osterio.
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Fu il potente Manfredi Chiaramonte ad edificarlo nel 1307, su un terreno solitario e paludoso. Il conte apparteneva ad una delle più potenti famiglie palermitane, padrone del Feudo di Modica, un immenso “Regnum in Regno”, che godeva di straordinari privilegi, tanto che i sovrani aragonesi dovevano richiedere il suo consenso quando volevano soggiornare in città, preferendo risiedere a Messina o Catania per quasi tutto l’anno. Era l’epoca chiaramontana. Nel 1392 però, grazie ad alleanze nate da matrimoni regali, l’ultimo dei Chiaramonte, Andrea, venne giustiziato sulla pubblica piazza, proprio davanti al suo palazzo, che fu confiscato dalla casa reale.

Per mezzo secolo, tra il 1468 e il 1517, fu la dimora dei sovrani aragonesi e poi dei vicerè spagnoli, fino a quando il palazzo divenne la sede del Tribunale dell’Inquisizione. Il magnifico edificio fu trasformato in carcere, dove ovviamente non mancava la sala delle torture.
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La piazza invece, la magnifica Piazza Marina oggi fitta di vegetazione, divenne il teatro delle esecuzioni, quei roghi dove invano i condannati speravano di essere salvati da Dio stesso, grazie alla loro fede (Auto da Fé). Furono invece tutti purificati dal fuoco della Santa Inquisizione. Il sacro furore non era rivolto solo contro gli eretici, o le streghe: nelle carceri venivano rinchiusi i colpevoli di bigamia, del “delitto nefando” (l’omosessualità), di atti sacrileghi, ma anche qualche personaggio scomodo, o semplicemente ricco, visto che i beni dei condannati venivano incamerati dagli inquisitori.
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Nel 1782 la Santa Inquisizione fu abolita, e tutti gli archivi, gli strumenti di tortura e la documentazione su quella terribile istituzione vennero bruciati, per evitare ritorsioni. Rimangono però delle testimonianze disperate di coloro che erano rinchiusi nelle carceri: uomini e donne che pativano le pene dell’inferno (in terra) lasciarono traccia di sé e delle sofferenze sopportate sulle umide mura delle segrete, incidendo frasi, poesie e disegni.

Ci sono disegni di carattere religioso e non, e poi scritte in latino, italiano e dialetto siciliano, ma negli angoli più bui – dove meno si allungava lo sguardo degli inquisitori – si trovano versi privi di speranza dove si invoca la morte, unica via d’uscita a tanto dolore.


Sotto, il graffito del giovane pescatore Francesco Mannarino, che venne rapito in mare e venduto ad un ra’is, finendo come mozzo sopra un’imbarcazione corsara e costretto a convertirsi all’Islam. Dopo essere stato liberato, Mannarino si autodenunciò all’Inquisizione, che ritenne la sua conversione frutto di violenza e quindi non lo perseguì. Qualcuno che invece doveva avercela con lui lo accusò di aver abbracciato la nuova fede con entusiasmo e così fu rinchiuso allo Steri. Durante i tre mesi della prigionia disegnò un imponente graffito della battaglia di Lepanto, del 1571, a lui raccontata con dovizia di particolari dai marinai musulmani che vi avevano partecipato.

Mentre i graffiti nelle celle del primo piano, riservate agli uomini, sono noti già dall’inizio del ’900, solo da pochi anni sono state scoperte altre incisioni nelle gattabuie del piano terra, destinate alle donne. Qui erano rinchiuse le donne accusate di magaria (stregoneria), di eresia o di chissà cos’altro, vittime di un potere che guardava più agli interessi terreni che a quelli celesti.
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In un contesto che è allo stesso tempo l’espressione di un’architettura tipicamente siciliana, con l’unione di forme normanne e gotiche, attraverso secoli dominati da troppi diversi conquistatori, oggi Palazzo Chiaramonte offre a chi vuole visitarlo, oltre ai graffiti dei disperati “penitenziati”, un inno alla vita e all’anima colorata della città di Palermo: la “Vucciria” di Renato Guttuso.