I “Farmachi” per Silvia: il male della Borghesia nel Delitto di Busto Arsizio

Anche se molti tra noi non se ne sono accorti, quest’anno è caduto il cinquantesimo anniversario della scomparsa di uno dei più importanti scrittori italiani del ‘900, Dino Buzzati, deceduto il 28 gennaio 1972. La grandezza di un artista poliedrico come Buzzati meriterebbe una vasta trattazione che non può essere nemmeno accennata in questa sede. Tuttavia, si può toccare il tema della sua lunga e proficua attività di giornalista, visto che questa è stata la sua vera professione durante tutta la vita. Buzzati dichiarò che per lui letteratura e giornalismo erano come “lo stesso guanto, ma rovesciato”.

Buzzati non è stato un giornalista specializzato in questo o quel campo, pieno di conoscenze tali da permettergli di raggiungere degli scoop clamorosi prima di qualunque collega. È stato invece un semplice giornalista che si occupava di cronaca e, durante la Seconda Guerra Mondiale, di corrispondenze dal fronte. La “cronaca” dei suoi tempi, così come ai nostri tempi, era soprattutto cronaca nera: disgrazie, catastrofi, delitti, misteri. Non misteri di quelli tali da scatenare ogni sorta di dietrologie, ma banali misteri che riguardavano gente comune.

Buzzati ha seguito processi importanti, come quello a Rina Fort, la Belva di via San Gregorio, o quello a Herbert Kappler, il Boia delle Fosse Ardeatine. È stato costretto a immergersi in abissi di orrore lontanissimi dalla sua sensibilità di uomo gentile e dedito al culto delle cose belle. Ha saputo raccontarli senza mostrare la minima fascinazione verso i loro responsabili, ma anche rifuggendo dai facili moralismi. La lettura dei suoi tanti articoli mostra come si possa mantenere la dignità umana al primo posto anche in circostanze che istintivamente farebbero perdere la testa o potrebbero indurre a tirare fuori il peggio di sé.

Sotto, Dino Buzzati:

Eppure, qualche volta, davanti a qualche mostruosità davvero al di fuori di ogni concezione, perfino Buzzati non ce la faceva più. Dal gran signore che era, non si sarebbe mai permesso di sbroccare. Però manteneva le distanze e, anziché scavare nella vicenda alla ricerca di qualcosa da salvare, prendeva spunto da essa per scrivere qualcuno di quei suoi racconti tanto angosciosi e inquietanti che lo hanno fatto accostare alla figura di Kafka e candidare al premio Nobel per la Letteratura.

Uno di questi esce il 30 aprile 1953 sul “Nuovo Corriere della Sera” e si intitola “Il delitto del cavaliere Imbriani”. La trama è tipicamente buzzatiana: un anziano signore benestante incontra un bellissimo gatto sulla porta di casa e decide di prenderlo con sé. Ma, dopo poco, quando sente aggirarsi intorno alla casa una signora che cerca un gatto, nel tentativo di impedire alla bestiolina di miagolare, la soffoca. Più tardi nega sia con la signora sia con un uomo che bussano alla sua porta di aver mai visto il gatto. Nella notte, si libera del corpo gettandolo in un tombino. Il giorno seguente si reca al bar per fare colazione e si accorge che per strada è pieno di poliziotti. Il barista gli dice che è stato assassinato un gatto e che i poliziotti stanno cercando il responsabile. Agitato, decide di tornare a casa ma, strada facendo, vede degli operai che stanno erigendo un patibolo. Chiede a un uomo che li sta guardando a cosa serva e l’uomo gli risponde che servirà a giustiziare l’assassino del gatto ucciso, perché “tutti i gatti sono del re”. Sempre più in preda al panico, il protagonista scappa verso casa e si imbatte in una processione di frati, cui domanda cosa facciano lì. I frati gli rispondono che sono lì per assistere al rogo dell’assassino del gatto, perché “tutti i gatti sono di Dio”. Arrivato a casa, trova i gendarmi schierati per arrestarlo.

Per comprendere il significato di questo racconto, bisogna chiedersi cosa stava facendo Buzzati in quel periodo. Stava seguendo un processo, e non era affatto un processo facile da seguire. In qualche modo, Buzzati si sentiva anche particolarmente coinvolto, perché la vittima aveva fatto il suo stesso cammino (dalla provincia di Belluno alla Lombardia) e perché si trattava di una ragazza molto giovane (Buzzati era molto attratto dalle giovani donne, tanto che uno dei suoi più famosi romanzi, “Un amore”, è dedicato alla turbolenta storia tra una ventenne e un uomo maturo. Si sposò soltanto dopo la morte della madre, con una modella nata 35 anni dopo di lui, Almerina Antoniazzi) uccisa da un uomo molto più grande di lei.

In qualche modo, forse, Buzzati vedeva nell’assassino una sorta di “doppio malvagio” di se stesso, ciò che avrebbe potuto essere se fosse vissuto in altre circostanze, con valori e principi differenti da quelli che lo avevano guidato. Tutte le persone più sensibili, davanti a uno spaventoso orrore, si domandano sempre cosa le abbia salvate dalla possibilità di commettere qualcosa di simile. Solo le persone ottuse o vuote si limitano a compiacersi per la loro differenza dai colpevoli, che tante volte è una differenza molto più apparente che concreta.

E quello che stava seguendo Buzzati era un processo per un orrore speciale, diverso dalle solite violenze e dai soliti “femminicidi” (anche se allora non si usava questo termine). Sembrava davvero uscito molto più dalla penna di uno scrittore fantasioso che dalla realtà.

La storia comincia il 7 settembre 1951 in una vecchia villa al numero 3 di via Galilei a Busto Arsizio. La famiglia Nimmo è in fermento: il signor Adelchi, dirigente della compagnia aerea TWA (l’aeroporto di Malpensa, aperto da tre anni, è lì a un passo), è stato appena promosso e trasferito a Roma. Moglie e figli sono entusiasti di seguirlo. L’unica a non essere entusiasta è la serva, Silvia Da Pont, nata nel 1930 a Cesiomaggiore, nel bellunese. Roma le sembra un po’ troppo lontana dalla famiglia (a quel tempo le ferrovie impiegano moltissime ore ad attraversare la penisola e le autostrade sono pochissime, quella del Sole deve ancora essere costruita) ma nemmeno le fa piacere lasciare i Nimmo, che l’hanno sempre pagata regolarmente e trattata bene.

Silvia Da Pont:

I Nimmo sono infatti un’eccezione, perché nella maggior parte dei casi, le serve, povere ragazze di campagna spesso semianalfabete, sono trattate quasi come bestie. Solo due anni dopo l’Italia si accorgerà che esistono, quando un regista di grande sensibilità, Antonio Pietrangeli, girerà un film su di loro, una storia dal neorealismo dolce e amaro intitolata “Il sole negli occhi” (che non avrà il successo che merita e sarà oggetto di critiche da parte della stampa borghese).

La pellicola si trova completa su YouTube:

A un certo punto, però, Silvia deve scegliere: e, ora che la partenza dei Nimmo è imminente, sembra aver scelto di tornare a casa, dove i genitori e le sorelle si sudano la giornata in campagna e facendo legna nei boschi, magari per ripartire più tardi per la Svizzera, dove la sorella Maria ha trovato un buon posto come bambinaia.

La mattina del 7 settembre, mentre i Nimmo stanno preparando i pacchi da spedire a Roma, Silvia esce come sempre a prendere il latte. Poi si avvia verso il solaio, a cominciare la sua giornata di servizi domestici: uno dei figli dei Nimmo la vede lungo la scala.

E poi sparisce.

Alle 17, preoccupati, i Nimmo chiamano i carabinieri. I militari perquisiscono la loro casa e cercano tracce soprattutto nella stanza di Silvia, senza però trovare nulla. Contattano anche i colleghi di Cesiomaggiore, ai quali risulta che la ragazza non è tornata a casa e non ha contattato la famiglia.

Si interrogano le sue non molte amiche. Si apprende così che negli ultimi giorni Silvia era di cattivo umore per la piega che stava prendendo la situazione. Forse si vedeva con un ragazzo e sia l’ipotesi di andare a Roma sia quella di tornare a Cesiomaggore comportavano la fine di questa relazione.

Che Silvia sia scappata insieme al misterioso fidanzato?

Questa possibilità, basandosi su altri casi simili, è la prima a essere presa in considerazione. Ma ci sono un po’ di elementi che non quadrano. Silvia non ha fatto bagagli, non ha preso niente di suo, ha lasciato perfino tutti i suoi risparmi faticosamente conservati. Non ha preso neanche i suoi vestiti. Se è andata via, lo ha fatto indossando la sua divisa nera e delle vecchie ciabatte consunte.

Ma nessuno ha voglia di perdere tanto tempo dietro ai colpi di testa di una contadinotta ignorante, per cui le indagini finiscono presto. L’unica a darsi pensiero è la sorella Maria, che arriva da Zurigo ai primi di ottobre e batte in lungo e in largo Busto Arsizio mostrando a tutti una foto di Silvia. Dalla sua scomparsa, si è come volatilizzata. Non l’ha più vista nessuno. O, meglio, qualcuno l’ha vista, ma solo in sogno: si tratta di un’amica, un’altra serva, cui Silvia è apparsa in sogno, dicendo

“Perché mi cercano dappertutto? Io non sono mai uscita da quella casa”

Maria, impressionata, torna dalla signora Nimmo e le chiede di controllare di nuovo la casa. Ma stavolta non si limita all’appartamento dei Nimmo, chiede anche al proprietario della villa le chiavi di cantina e lavanderia. In quell’occasione, il proprietario, l’anziano signor Candiani, fa uno strano accenno a Silvia che, sul momento, passa inosservato.

Il Signor Candiani:

Il 28 ottobre, finalmente, i Nimmo sono sul punto di partire. Devono però prima disfarsi di un sacco di roba inutile, compresi dei documenti che, anziché buttare via, preferiscono bruciare. Insieme a questi, decidono di bruciare anche il vecchio albero di Natale, che sta in cantina. La signora Adele va a prenderlo ma, mentre lo sta spostando, si accorge che c’è qualcosa vicino, nascosto dalla penombra.

È un corpo umano intatto ma quasi completamente scheletrito, che non emana alcun cattivo odore.

È Silvia e all’autopsia risulterà che è morta da pochi giorni ed è morta di inedia, di denutrizione

Una ragazzona alta un metro e ottanta e pesante quasi ottanta chili si è ridotta a meno di quaranta. Le indagini riprendono, partendo dall’ipotesi che Silvia abbia messo in atto un assurdo suicidio, chiudendosi in cantina e lasciandosi morire. Ma è un’idea talmente strampalata che non regge. Peraltro, come ha fatto a nascondersi così bene e a rimanere nascosta tanto tempo senza che nessuno se ne accorgesse?

Per capire come potrebbe averlo fatto, gli inquirenti convocano il proprietario della villa, Carlo Candiani, un industriale in pensione nato nel 1879. Il cavalier Candiani è un uomo che gode della stima di tutta Busto Arsizio, un parrocchiano ineccepibile, un vedovo (due volte) dedito ai nipotini e alla frequentazione del miglior caffè cittadino, dove ha sempre un tavolo riservato. Una volta, nella villa, abitava con tutta la famiglia. Poi è rimasto solo e gli è sembrata troppo grande, quindi l’ha fatta dividere in alcuni appartamenti, uno dei quali l’ha riservato per sé. Oltre ai Nimmo, ha anche altri inquilini.

Il capitano Angelo Mongelli, che dirige le indagini, chiede a Candiani di accompagnarlo in cantina. Qui vengono trovati due oggetti: uno stampo metallico per dolci, sporco di feci umane, e una delle pantofole di Silvia. A dire il vero, Mongelli li vede mentre ha la sensazione che Candiani stia cercando di nasconderli. Allora ordina al cavaliere di portarlo in solaio per un ulteriore controllo. Qui, Momgelli si accorge che, sul pavimento impolverato, c’è una grossa chiazza rettangolare senza polvere. Chiede a Candiani cosa stesse prima in quel posto e Candiani gli indica un baule. Ma la chiazza indica che c’era qualcosa fino a poco prima, mentre il baule è coperto di polvere e ragnatele come se non venisse spostato da anni.

In più, Candiani appare molto agitato. Mongelli se lo porta in caserma e lo mette sotto torchio.

Dopo qualche ora, Candiani confessa

Il Signor Candiani arrestato:

È stata una tragica fatalità, dice. Lui le ha fatto uno scherzo, comparendo di sorpresa alle sue spalle. Silvia è svenuta per la paura e forse ha battuto la testa. Ma di traumi cranici non c’è traccia. Comunque Candiani dice di averla portata in solaio e di aver provato a farla rinvenire, finché si è reso conto che era morta, allora è stato preso dal panico e ha deciso di nascondere il corpo.

Mongelli obietta: Silvia era morta da pochi giorni, quando è stata ritrovata. È possibile che Candiani abbia “provato a farla rinvenire” per più di 40 giorni senza pensare a chiamare aiuto? E come mai, con tanta gente in casa, nessuno si è accorto di niente?

I carabinieri apprendono un altro dettaglio su Candiani. In città è noto come una specie di stregone, appassionato di decotti, filtri, tisane e altre cose che si prepara da solo, raccogliendo le erbe nei boschi. Afferma di essere guarito dal diabete grazie ai “farmachi” che si è somministrato da solo.

Poiché la sua versione non convince affatto, continuano a torchiarlo finché il vecchio cede

L’ha fatto apposta, non è stata una disgrazia. Era ossessionato da Silvia, la desiderava in modo morboso. Silvia non sospettava di nulla e si fidava ciecamente di lui. Le aveva parlato dei suoi “farmachi” e la ragazza gli si rivolse per un malessere. Candiani le fece bere una pozione che le fece perdere conoscenza (in un’altra occasione dirà di averla addormentata con un batuffolo imbevuto di etere). Poi la trasportò in solaio e lì la tenne per diciotto giorni, prima di passarla in cantina. Nel frattempo, continuava a mantenerla in uno stato stuporoso somministrandole del laudano (un oppiaceo) misto a vino o latte.

Così passiva e assente, legata e imbavagliata all’interno di una cassa, Silvia fu il suo giocattolo sessuale finché sopravvisse, anche se non si sa esattamente cosa fece Candiani con il suo corpo, dato che all’autopsia la ragazza risultò ancora illibata. È possibile che sia rimasto tutto il tempo solo a guardarla, visto il suo vissuto da bacchettone e represso. Sicuramente a un certo punto comprese che sarebbe morta, ma non fu sfiorato neppure dall’idea di liberarla o chiamare aiuto:

La sua reputazione in città era più importante della vita di quella contadina

Alla fine, Candiani fa anche il nome di un complice, Vittorio Tosi, che lo avrebbe aiutato a trasportare la ragazza in cantina. I carabinieri interrogano Tosi ma, prima che possano arrestarlo, l’uomo sparisce. Testimonianze anonime affermano che si sia suicidato gettandosi nel Ticino.

Il processo seguito da Dino Buzzati ha una vasta eco nell’Italia del tempo e mostra quanto sia difficile fare giustizia in una società classista e intrisa fino al midollo di moralismo ipocrita. Candiani dispone di mezzi sufficienti a garantirsi la migliore difesa legale sulla piazza. I suoi avvocati trasformano il dibattimento in una ininterrotta sequela di questioni sulla moralità e sulla sanità mentale di Silvia. Quasi quasi, in certi momenti, sembra che la vera imputata sia lei. Candiani stesso parla di confessione che i carabinieri gli avrebbero estorto con la coercizione.

I giudici non abboccano e lo condannano a 25 anni per omicidio volontario.

In appello, gli avvocati di Candiani mettono a segno un colpo importante, riuscendo a far cambiare l’imputazione da omicidio volontario a omicidio preterintenzionale. Come a dire: Candiani l’ha ammazzata per sbaglio. Cosa volesse farne di lei, a quanto pare, non ha la minima importanza. La pena scende a 14 anni.

Mentre si prepara al terzo grado di giudizio, la corte di Cassazione, Candiani viene colto da un infarto e muore, mentre è detenuto nel carcere di Parma, il 9 agosto 1957, all’età di 78 anni. Ora non ci saranno più avvocati e teoremi difensivi che tengano, il giudizio che lo aspetta è inappellabile.

In tempi recenti (2020), il caso è stato riproposto all’attenzione del pubblico da un libro di Roberto De Nart: “Il delitto di Busto Arsizio”.


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