I dispersi italiani in Unione Sovietica 1941-1943 e le Piastrine Ritrovate

I dati del Ministero della Difesa forniscono cifre impressionanti: 84.830 soldati morti o dispersi; di 30.000 di loro non si conosce il destino, nessuno sa che fine abbiano fatto e dove siano caduti.

Cadaveri di soldati abbandonati nella neve

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Secondo gli Archivi Sovietici, aperti nel 1989, furono 54.400 i prigionieri italiani che arrivarono nei campi di detenzione, dove ne morirono 44.315, principalmente durante l’inverno del 1943.

20.000 circa erano morti durante le estenuanti marce di trasferimento. 10.085 prigionieri furono rimpatriati fra il 1945 e il 1954.

Colonna di prigionieri italiani – gennaio 1943

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Il 22 giugno 1941 la Germania iniziò l’Operazione Barbarossa. Hitler conosceva perfettamente i rischi di un’invasione dell’Unione Sovietica ma i vantaggi di una vittoria sembravano valere il rischio: le materie prime nel Reich cominciavano a scarseggiare (petrolio, ferro, carbone, grano ); la dimostrazione della potenza tedesca avrebbe potuto cambiare le sorti della guerra e, ultima ma sicuramente non meno importante, l’ambizione del Fuhrer da soddisfare.

Mussolini era mosso dalle stesse motivazioni, più un’altra fondamentale: la posizione dell’Italia nei confronti della Germania. Le ben misere figure, per non dire figuracce, dell’esercito italiano in Grecia, nei Balcani, in Francia bruciavano ancora. Con un intervento vittorioso in Unione Sovietica, Mussolini riteneva che i rapporti si sarebbero bilanciati. Del resto era convinto che fosse facile sconfiggere i sovietici in pochi mesi, data la superiorità dell’esercito tedesco.

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Nel giugno 1941 in Italia venne quindi formato il CSIR (Corpo Spedizione Italiano Russia) dirottando 3 divisioni, prevalentemente dal nord Africa, purtroppo lasciate più o meno con gli stessi equipaggiamenti. Le Sanzioni e il blocco delle importazioni dovute alla guerra avevano drasticamente ridotto le materie prime italiane, alimentari e non, con i surrogati e i materiali “autarchici” che avevano sostituito gran parte dei prodotti originali precedenti.

Del resto, la guerra in Unione Sovietica doveva esaurirsi entro l’estate e poco importava quindi che gli italiani avessero cappotti in Lanital – la lana autarchica che lana non era, essendo un derivato dalla caseina sovrabbondante, data la mancanza di esportazione dei formaggi – che assomigliava alla lana ma non scaldava allo stesso modo, e che avessero scarponcini in cuoio autarchico, ovvero il Cuoital, un derivato dalla cellulosa, in pratica cartone pressato.

Bersaglieri motociclisti in Unione Sovietica – 1941

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Gli altri equipaggiamenti non erano migliori: il moschetto era ancora il Carcano ’91 – calibro 6,5; le divisioni erano definite autotrasportate ma in verità non c’era posto per tutti e molti soldati vennero trasportati in treno fino ai Carpazi, ma poi dovettero proseguire a piedi…

Comunque il contingente di 62.000 uomini fu operativo dall’agosto ’41 e accorpato all’11ª Armata tedesca.

Non entro nel merito delle battaglie e del ruolo del CSIR, non è questo l’argomento trattato. Comunque, i giorni passavano, arrivarono le piogge e poi la neve e il freddo intenso: quella che doveva essere una guerra estiva, veloce e vittoriosa, stava diventando una tragedia.

Già dall’estate del 1941 Mussolini aveva pensato di rafforzare la presenza italiana e dato disposizioni per costituire un’armata destinata in Russia, ovviamente a scapito degli altri fronti sia per uomini che per materiali. L’ARMIR (Armata italiana Russia) forte di 290.000 uomini, equipaggiata male come il CSIR e con mezzi corazzati da 3 tonnellate (in pratica quanto un camion) che dovevano scontrarsi con quelli russi da 28 tonnellate, fu operativa dal luglio 1942. Il CSIR venne assorbito dall’ARMIR e cessò di esistere.

Il CSIR chiudeva la sua storia con perdite tutto sommato relative: 1.633 morti, 7.858 tra feriti e congelati, 410 dispersi; ma in confronto a quello che doveva accadere era stata una passeggiata.

Soldati del CSIR in azione a Gorlovka – Novembre 1941

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Ancora non entro in merito alle battaglie, ma nel dicembre del 1942 la situazione era insostenibile. Decine di migliaia di uomini quasi senza munizioni, attaccati dall’esercito sovietico di fronte e dai partigiani alle spalle, oppressi da freddo e fame, ormai erano allo sbando.
A gennaio 1943 arrivò l’ordine di ripiegare e cominciò l’inferno della ritirata, con sulle spalle il peso della stanchezza, la fame e il freddo che arrivava a -40°

L’ARMIR in pratica non esisteva più, i superstiti vennero rimpatriati e in buona parte furono fatti prigionieri dai tedeschi dopo l’8 settembre.

Una tragedia immane e una sofferenza ancora peggiore spettò a quelli fatti prigionieri in Russia.

La sterminata colonna di fanti dell’ARMIR, in ritirata attraverso la steppa russa

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I sovietici sostengono che circa 20.000 uomini morirono nel viaggio verso i campi, mentre 54.400 furono internati (di questi l’80% morì in prigionia). Si sa però che le condizioni nei campi erano proibitive. Nel 1989, nei documenti del Cremlino venne ritrovata una lettera di Togliatti, datata 15 febbraio 1943, in risposta a quella di Vincenzo Bianco, funzionario Komintern, che lamentava le condizioni inumane di prigionia e gli chiedeva di intervenire con Stalin:

“…L’altra questione sulla quale sono in disaccordo con te, è quella del trattamento dei prigionieri. Non sono per niente feroce, come tu sai. Sono umanitario quanto te, o quanto può esserlo una dama della Croce Rossa. La nostra posizione di principio rispetto agli eserciti che hanno invaso la Unione Sovietica, è stata definita da Stalin, e non vi è più niente da dire. Nella pratica, però, se un buon numero dei prigionieri morirà, in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da dire, anzi e ti spiego il perché. Non c’è dubbio che il popolo italiano è stato avvelenato dalla ideologia imperialista e brigantista del fascismo.

Non nella stessa misura che il popolo tedesco, ma in misura considerevole. Il veleno è penetrato tra i contadini, tra gli operai, non parliamo della piccola borghesia e degli intellettuali, è penetrato nel popolo, insomma. Il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini, e soprattutto la spedizione contro la Russia, si concludano con una tragedia, con un lutto personale, è il migliore, è il più efficace degli antidoti. Quanto più largamente penetrerà nel popola la convinzione che aggressione contro altri paesi significa rovina e morte per il proprio, significa rovina e morte per ogni cittadino individualmente preso, tanto meglio sarà per l’avvenire d’Italia…”.

Di quei prigionieri morti nei campi, i sovietici annotarono i dati, non si sa se in modo accurato, ma comunque le famiglie vennero informate solo 50 anni dopo, all’apertura degli archivi.

E gli altri? Gli altri vennero abbandonati nella neve, o sepolti in fosse comuni. Nonostante i familiari e le associazioni dei dispersi abbiano cercato di avere notizie, non arrivarono a nulla; il tempo passava, i parenti in Italia morivano o si rassegnavano, dall’Unione Sovietica il silenzio era assoluto e su di loro cadde l’oblio.

Con gli anni cominciarono a riaffiorare dai campi i resti dei soldati. Con i metal detector venivano individuate la parti metalliche rimaste sui corpi dei soldati sepolti o abbandonati, e col tempo coperti dalla terra e dalla dalla vegetazione, e a quel punto si scavava.

Maria Giovanna e Antonio Respighi nel 2009 andarono in Ucraina con il loro camper, che portava un adesivo degli alpini. Vennero avvicinati da un uomo che offrì loro 3 piastrine di soldati italiani chiedendo 30 euro per ognuna e sostenendo di averne molte altre.

I Respighi non potevano certo acquistarle a quella cifra e dopo lunghe trattative riuscirono a convincerlo a cedergliele perché ritornassero alle famiglie dei caduti. L’uomo, dopo molte indecisioni, accettò e consegnò loro 136 piastrine italiane, e continua tuttora ad inviare tutti i nuovi ritrovamenti, ricevendo in cambio la foto dei soldati che le avevano indossate.

Per i Respighi diventò quasi una missione, continuarono a cercarne e alla fine ne recuperarono 380 e scrissero un libro con le storie dei soldati che apprendevano dai parenti: “ Io resto qui”.

Così le piastrine raccolte dai Respighi vennero restituite, dopo un lungo lavoro di ricerca, ai familiari commossi dei caduti: in un certo modo i loro cari erano ritornati a casa, e venne fugato anche il dubbio che fossero sopravvissuti ma si fossero creati una nuova famiglia in Unione Sovietica. Circostanza che, se poteva essere di consolazione per le madri, non lo era altrettanto per mogli e figli.

Piastrino di riconoscimento di un soldato disperso in Russia

Anche le associazioni dei dispersi si mossero dopo aver notato che sui siti di e-commerce venivano offerte le piastrine dei soldati a 100 dollari l’una, e oggi continuano le ricerche con squadre apposite.

Le piastrine ritrovate vengono adesso quasi sempre custodite in musei, mentre ai familiari vengono consegnati attestati con la foto della piastrina e il luogo di ritrovamento.

Difficile dare un giudizio etico. Certo i resti dei soldati, privati delle piastrine, diventano non più identificabili, ma è comunque difficile pensare che qualcuno possa recuperarli e riportarli in Italia, intervenendo in aperta campagna in spazi aperti di migliaia di chilometri.

Il tutto fa un immensa tristezza.


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