Al tramonto del 1944 la disfatta nazista è vicina. I tedeschi ripiegano su tutti i fronti e l’Armata Rossa avanza da est nella Polonia occupata. Un’avanguardia sovietica giunge alle porte di Auschwitz. Sul cancello troneggia la scritta in tedesco Arbeit macht frei (Il lavoro rende liberi), una menzogna, travestita da promessa, che non ha alcun riscontro con quello che i russi trovano nel campo.

I nazisti hanno obbligato alle cosiddette marce della morte verso ovest la stragrande maggioranza dei prigionieri e ad Auschwitz sono rimaste solo 7.000 anime in pena. Si aggirano fra i cadaveri sparsi sul terreno. Sembrano fantasmi in cerca di cibo: deboli, deperiti e taciturni. Molti nemmeno si accorgono dell’arrivo dei soldati. Non un grido di gioia, nessun abbraccio, nessuna lacrima di commozione.

L’orrore che hanno vissuto li ha costretti al silenzio, all’apatia, all’indifferenza. È il 27 gennaio del 1945, il giorno della liberazione di Auschwitz. Sono passati poco più di quattro anni da quando la soluzione finale ha trovato la sua massima espressione in questo campo di concentramento. Cinque anni di stragi e una conta che supera il milione di vittime, uomini, donne e bambini; cinque anni di camere a gas, lavori forzati, esperimenti e vessazioni di ogni sorta.
Ma anche cinque anni e cinque natali

Grazie alle testimonianze di alcuni sopravvissuti sappiamo che, nonostante tutto, nel luogo dove l’umanità ha realizzato l’inferno in terra, c’è stato spazio per una festività che ha predicato pace e amore in un mondo stravolto dalla guerra.

1940
14 giugno 1940 – Entra in funzione Auschwitz I, che, insieme a Birkenau, Monowitz e altri 45 sottocampi, darà vita al vasto complesso di Auschwitz. Per il primo Natale della struttura, Rudolf Höß e Karl Fritzsch, comandante e vice-comandante del campo, fanno allestire un albero molto particolare. Si trova sul piazzale adibito all’appello degli internati. È alto e maestoso, ben illuminato da centinaia di luci elettriche, ma la decorazione principale è qualcosa di macabro.
Ai piedi dell’albero ci sono i corpi ammassati dei prigionieri morti durante i lavori forzati

Fritzsch chiama al freddo e al gelo i detenuti (quelli vivi) e presenta il cumulo di cadaveri come un “regalo” di Natale. La vigilia passa così, all’insegna dell’orrore, e il vice-comandante del campo vieta qualsiasi forma di celebrazione. Niente cena. Niente canti. Niente allegria.
È il primo dei cinque natali di Auschwitz

1941
La vigilia del 1941 inizia con presupposti peggiori di quella del ’40. È in costruzione il sito di Auschwitz II-Birkenau e molti prigionieri sovietici impegnati nei lavori affrontano il ritorno al campo in condizioni disumane. Non tutti hanno le forze di camminare, e i tedeschi decidono di aprire i festeggiamenti natalizi con l’eliminazione di circa 300 persone.
Nel pomeriggio i membri delle SS si chiudono al caldo, cenano come da tradizione e alle 18 chiamano all’appello tutti i detenuti. Fuori, la temperatura è sotto gli zero gradi e i nazisti obbligano i prigionieri ad ascoltare il messaggio natalizio di papa Pio XII tradotto in tedesco.

Il testo è lungo qualche pagina e i malcapitati di Auschwitz devono ascoltarlo stando in piedi in condizioni e temperature disumane. Quarantadue persone muoiono di ipotermia; altri semplicemente impazziscono.

I tedeschi festeggiano – hanno avuto lo spettacolo che volevano – ma non tutto è perduto, perché nei vari blocchi si tenta di dare una parvenza di normalità al Natale. Nel blocco 25, Henry Bartosiewicz riesce a introdurre un alberello che Witold Pilecki, un internato entrato ad Auschwitz come spia, adorna con un’aquila bianca intagliata da una rapa e simile a quella dello stemma polacco.

Nel blocco 10, che dal 1943 diventerà la sede degli esperimenti medici sulle donne incinte, qualcuno ha il coraggio di intonare dei canti natalizi. Prima in tedesco – forse per rabbonire i nazisti – poi si passa al polacco e a un inno che recita:
«Dio è nato, le potenze tremano»

C’è chi si commuove, chi si abbraccia, chi trova la forza di sperare in un domani migliore. Nell’orrore di Auschwitz brilla ancora un barlume di umanità, un raggio di luce che, anche se flebile, riesce a scaldare i cuori dei prigionieri.

Il sopravvissuto all’Olocausto Józef Jędrych lì presente dirà: «Un momento così grandioso non svanisce mai dalla memoria. Quel Natale è fissato per sempre nel mio cuore».

1942
Nel 1942, si fa quel che si può. Qualcuno introduce un ramo di abete. Le detenute polacche provvedono a decorarlo con candele accese e mezzi di fortuna. C’è chi intona canti natalizi e chi prega. Addirittura, nel blocco 18, un prete riesce a dire la messa e usare un tozzo di pane a mo’ di eucaristia.

Ma il sadismo delle SS non si è certo placato: le guardie, infatti, obbligano un gruppo di ebrei ad allestire un albero dell’orrore simile a quello del ’40. Per piantarlo i detenuti sono costretti a togliersi le giacche e usarle per trasportare il terreno. Chi ne porta di meno riceve un colpo di pistola alla nuca e finisce sotto l’albero.
Anche il Natale del ’42 ha avuto i suoi macabri addobbi

1943
Nel 1943, la situazione migliora. Arthur Liebehenschel subentra ad Höß come comandante del campo e alleggerisce il carico di brutalità sui prigionieri. Niente alberi con cadaveri ammassati, niente appello al freddo. I non ebrei possono ricevere pacchi dai parenti e condividere i regali con gli altri. Si respira un clima migliore e la speranza si riaccende nell’animo di quei poveri sventurati che, almeno per una notte, hanno modo di dimenticare l’orrore che li circonda.

1944
Il quinto e ultimo Natale di Auschwitz è senza precedenti. Con l’approssimarsi della fine della guerra, le SS concedono più libertà ai prigionieri e danno vita a quello che Primo Levi definirà “un miracolo”. L’autore di Se questo è un uomo scrive:
“Le varie categorie di prigionieri (politici, criminali comuni, asociali, omosessuale, ecc.) potevano ricevere pacchi dono da casa, ma gli ebrei no. Del resto, da chi avrebbero potuto riceverli? Dalle loro famiglie sterminate o rinchiuse nei ghetti superstiti? Dai pochissimi sfuggiti alle razzie, nascosti nelle cantine, nei solai, atterriti e senza quattrini? […] Non eravamo più soli: un legame col mondo di fuori era stabilito. E c’erano cose deliziose da mangiare per giorni e giorni. […] Il resto non era del tutto sprecato, qualche altro affamato stava festeggiando il Natale a spese nostre, magari benedicendoci. E comunque, di una cosa si poteva essere sicuri: era quello l’ultimo Natale di guerra e di prigionia”.

Come nel ’43, arrivano pacchi che vengono condivisi per spirito di fratellanza, ma non solo. Le donne di Birkenau si procurano del materiale di fortuna e riescono a cucire circa 200 giocattoli. A ciascuno di essi attaccano due zollette di zucchero o una caramella e un bigliettino con scritto il nome del destinatario.

Sono doni natalizi per i bambini dell’ospedale del campo, e a distribuirli è una detenuta travestita da Babbo Natale. Sempre nell’ospedale, Leokadia Szymanska confeziona un piccolo albero in stoffa addobbato con stemmi polacchi e un’aquila bianca.
Anche quest’anno niente cadaveri

La sera della vigilia trascorre quasi in serenità – il quasi è d’obbligo perché siamo comunque ad Auschwitz – e padre Władysław Grohs de Rosenburg può anche celebrare la tradizionale messa di mezzanotte.
Le guardie tedesche osservano con tacito assenso.
La fine è ormai vicina

Arriva il 27 gennaio del 1945, quando i russi liberano il campo. Pochi mesi dopo Hitler si suicida e cade il Terzo Reich. Dopo Hiroshima e Nagasaki si arrende anche il Giappone e la Seconda Guerra Mondiale può finalmente dirsi conclusa.
Nessun sesto Natale di Auschwitz.
Cinque sono già stati abbastanza

Fonti:
- Primo Levi, L’ultimo Natale di guerra, Einaudi, Torino, 2016
- Christmas Eve in Auschwitz as Recalled by Polish Prisoners – Auschwitz-Birkenau Memorial and Museum
- La liberazione di Auschwitz – Puntata di Passato e Presente disponibile su RaiPlay