Quella mattina del 21 luglio del 1938 il ventiseienne Heinrich Harrer si trovava al cospetto del monte Eiger insieme al compagno Fritz Kasparek per conquistarne la vetta attraverso la temutissima parete nord. Si trattava di un compito molto arduo e i precedenti non lasciavano presagire nulla di buono. Basti pensare che, solo tre anni prima, nell’agosto del 1935, il tentativo di due alpinisti tedeschi, Max Sedlmayr e Karl Mehringer, era finito in tragedia. Dinnanzi a loro c’era un passo montano quasi del tutto in verticale, di circa 1.800 metri e famoso per l’alto rischio di valanghe e di frane, oltre che per la famigerata parete ghiacciata del Ragno Bianco, sua insidia principale.

Kasparek aveva con sé dei ramponi a dieci punte; Harrer, invece, dei semplici scarponi con suole chiodate. L’attrezzatura non era delle migliori, ma i due giovani alpinisti bramavano un successo che, fino a quel momento, ancora nessuno aveva ottenuto. Harrer era ambizioso, in cerca di gloria, e voleva guadagnarsi la chiamata per una spedizione sull’Himalaya, il suo grande obiettivo. Non lo sapeva, ma quel giorno ebbe inizio un’incredibile avventura che lo portò al cospetto del giovanissimo Dalai Lama; un’avventura che lui stesso raccontò nel suo libro Sette anni in Tibet, poi trasposto sul grande schermo nel 1997.

Heinrich Josef Harrer nacque il 6 luglio del 1912 a Hüttenberg, una città-mercato dell’Impero austro-ungarico; primo dei quattro figli di un impiegato delle poste e di una casalinga, Josef e Johanna Harrer. Fin dalle scuole elementari si appassionò alla ginnastica, ma fu solo da adolescente che scoprì la sua vocazione per lo sci e l’alpinismo. Nel 1933 iniziò a studiare geografia e sport all’università di Graz e si unì in gran segreto alle SA di Hitler, che, all’epoca, in Austria era un’associazione illegale.

Il suo talento gli valse la convocazione nella squadra di sci alpino per le olimpiadi invernali del 1936 a Garmisch-Partenkirchen, in Germania, e, nel 1937, si laureò campione di discesa libera al Campionato Mondiale Studentesco di Zell am See. L’anno successivo l’Austria si unì al Terzo Reich con l’Anschluss del 12 marzo ed Harrer divenne un membro delle SS il 1° aprile.

Della sua militanza nel partito nazista disse:
«Ero giovane. Lo ammetto, ero estremamente ambizioso e mi era stato chiesto se avessi voluto diventare l’istruttore di sci delle SS. Devo dire che approfittai subito dell’occasione. Devo anche dire che se mi avesse invitato il Partito Comunista, mi sarei unito a loro. E se mi avesse invitato il diavolo in persona, sarei andato con il diavolo».

E la sua ambizione, infatti, era quella di entrare fra le pagine di storia dell’alpinismo. Sempre nel 1937 terminò gli esami universitari e, insieme all’amico Fritz Kasparek, progettò un’impresa impossibile: raggiungere la cima del monte Eiger, in Svizzera, e scalare la sua famigerata parete nord. Si recarono nella cittadina di Grindelwald, attraversarono il valico alpino di Kleine Scheidegg, e, il 21 luglio, ebbe inizio la salita.

Non avevano con sé una grande attrezzatura e avanzarono a rilento fino al giorno successivo, quando una cordata tedesca composta da Ludwig Vörg e Andreas Heckmair li raggiunse. Anche loro stavano tentando la stessa impresa, ma, a differenza di Harrer e Kasparek, avevano con sé dei ramponi a dodici punte che gli facilitavano le avanzate sulle superfici ghiacciate. Anziché proseguire ognuno per la sua strada, i due gruppi decisero di unire le forze. Per alcuni giorni lottarono contro il maltempo, affrontarono le insidie del Ragno Bianco e si difesero dalle valanghe, finché, nel pomeriggio del 24 luglio, raggiunsero la vetta e completarono la scalata.

La notizia fece subito il giro di mezz’Europa e gli appassionati del settore li accolsero con entusiasmo e ammirazione. Hitler, che era un fautore della superiorità della razza ariana in ogni ambito, sfruttò l’impresa per la propaganda del regime e, nel 1938, ricevette Harrer e i suoi compagni a un raduno sportivo a Breslavia. Secondo alcune fonti, il Führer disse:
Ragazzi miei! Che cosa avete fatto!

Fra scatti e strette di mano, Harrer attirò l’attenzione di un uomo in particolare, Heinrich Himmler, che lo segnalò alla Fondazione Himalayana Tedesca, un’associazione finanziata dal partito nazionalsocialista che mirava a compiere grandi imprese alpine. Il suo nome era ormai sulla bocca di tutti e il futuro gli sorrideva.
Stava per realizzare la sua più grande ambizione

Il 20 dicembre del 1938 sposò Hanna Charlotte Wegener, figlia del celebre esploratore tedesco Alfred Wegener, e, a suo dire, indossò per la prima e unica volta la divisa nazista durante la cerimonia. Il 1939 si aprì sotto i miglior auspici e si unì a una cordata tedesca capitanata da Peter Aufschnaiter. Quando partì, nell’estate di quell’anno, Hanna era incinta di suo figlio Peter, che nacque a dicembre e non vide suo padre prima di molti anni. Il perché lo scopriremo fra poco.

Il loro compito era quello di effettuare un sopralluogo nei pressi del monte himalayano del Nanga Parbat, per studiare il territorio in vista di una successiva spedizione. La fine dell’esplorazione, però, coincise con lo scoppio della Seconda guerra mondiale. La nave che avrebbe dovuto riportarli indietro tardò ad arrivare e i soldati inglesi li arrestarono il 3 settembre a Karachi, che all’epoca faceva parte dell’India britannica. Le autorità li rinchiusero nel campo di Ahmednagar, nei pressi di Bombay, e, insieme ad alcuni compagni Harrer tentò invano una fuga verso l’India portoghese.

Il fallimento dell’evasione gli valse lo spostamento nel campo di Dehradun, molto più lontano dal confine che sperava di attraversare per sottrarsi agli inglesi. Nonostante ciò non si perse d’animo e cercò di scappare altre tre volte. Nel 1943 il suo quarto tentativo andò a buon fine e, insieme a un generale italiano, s’incamminò verso i territori occupati dai giapponesi. Il loro viaggio di fortuna durò 28 giorni. Si mossero con cautela, riposando di giorno e avanzando di notte, ma, gli inglesi li rintracciarono e li riportarono indietro. L’evento gli costò circa un mese in cella d’isolamento, ma Harrer sfruttò quel tempo per progettare la sua quinta evasione: quella che gli restituì la libertà. Il 29 aprile del 1944, lui e altre sei persone scapparono dal campo e si divisero per raggiungere diverse destinazioni.

Con lui c’era Peter Aufschnaiter e i due alpinisti scelsero di recarsi nel Tibet neutrale. Passarono il confine il 17 maggio, dopo circa 2.000 chilometri percorsi a piedi fra vari passi dell’Himalaya.

Il Tibet era una nazione indipendente ma, al contempo, chiusa agli stranieri, ed incontrarono numerose difficoltà. Gli abitanti gli offrivano qualcosa da mangiare, però, nonostante Aufschnaiter conoscesse il tibetano, nessuno si fidava di loro. Avevano due alternative: consegnarsi agli inglesi o tentare di raggiungere la capitale Lhasa.

Scelsero quest’ultima opzione e ne varcarono l’ingresso il 15 gennaio del 1946. A poco a poco, i due avventurieri si guadagnarono la fiducia e il rispetto dei cittadini, integrandosi e svolgendo mansioni utili alla comunità.

Grazie alle sue conoscenze, Aufschnaiter si occupò di questioni agrarie e urbanistiche; in particolare, progettò una centrale idroelettrica e un sistema di fognature. Harrer, invece, lavorò come traduttore delle notizie dall’estero per il governo tibetano, ma la sua fortuna fu l’incontro con Tenzin Gyatso, l’allora adolescente Dalai Lama.

Il giovane monaco buddista non poteva uscire dalla sua residenza, il palazzo del Potala, ma era un ragazzo molto curioso ed espresse il desiderio di assistere a una gara di pattinaggio. I membri della corte, allora, incaricarono Harrer di effettuare delle riprese, ma l’alpinista austriaco non si limitò solo a quello e costruì una sorta di cinema privato, composto da un proiettore alimentato dal motore di una jeep. L’alpinista e il Dalai Lama fecero subito amicizia e quest’ultimo riuscì ad appagare il suo desiderio di conoscenza della cultura occidentale.

Nel giro di poco tempo, Harrer ne divenne il precettore e gli insegnò l’inglese, la matematica, la geografia e la scienza. Fu un periodo molto felice della sua vita e, anche se non aveva alcun contatto con amici e familiari austriaci, si godette un’esperienza che, anni dopo, ricordò con affetto nel suo libro autobiografico.
«Ovunque vivrò, proverò nostalgia del Tibet. Spesso penso di poter ancora sentire le grida delle oche selvatiche e delle gru e il battito delle loro ali mentre volano sopra Lhasa al freddo chiaro di luna. Il mio più sincero desiderio è che la mia storia possa creare un po’ di comprensione per un popolo la cui volontà di vivere in pace e in libertà ha conquistato così poca simpatia in un mondo indifferente».

Quell’idillio spirituale che tanto gli piaceva, al punto di non voler tornare in patria, si infranse nel 1950, quando la mano del governo cinese si protrasse verso il Tibet. Le truppe della neonata Repubblica Popolare invasero il confine nordorientale e iniziarono a incorporare vari territori tibetani. Il 17 novembre, l’allora sedicenne Dalai Lama assunse i pieni poteri come capo di stato e si preparò a fronteggiare la minaccia straniera. Con l’inasprirsi della crisi politica, nel marzo del 1951, il leader tibetano si trasferì nel monastero di Dunkhar, lungo il confine con l’India e, come la storia ci tramanda, non rivide mai più la città di Lhasa. Anche Harrer dovette dire addio alla capitale e seguì il suo giovane allievo fino al confine, dopodiché le loro strade si divisero e si concluse la sua esperienza tibetana di sette anni.

Tornò in Austria nel 1952, si stabilì a Kitzbühel e divorziò dalla moglie. Si risposò altre due volte, nel 1958 e nel 1962, e iniziò un’intensa attività letteraria. Esordì il libreria nel 1953, con Sette anni in Tibet, seguito da altre pubblicazioni sulle sue avventure, come, ad esempio, Il Ragno Bianco, pubblicato nel 1959 e incentrato sulla scalata dell’Eiger. I suoi scritti divennero dei classici della narrativa di quel genere, ma Harrer non abbandonò la sua vocazione per l’alpinismo.

Una volta disse:
«L’assoluta semplicità. Questo è ciò che amo. Quando stai scalando la tua mente è chiara e libera da ogni confusione. Hai la concentrazione. E all’improvviso la luce diventa più nitida, i suoni sono più ricchi e tu sei pieno della presenza profonda e potente della vita».

Nel periodo post bellico, compì altre imprese in Alaska, nelle Ande e in Africa. Nel 1957 esplorò il fiume Congo con l’ex re dei belgi Leopoldo III e, nel 1962, guidò la scalata di una delle vette più alte del mondo, il monte Carstensz, in Indonesia. Proprio nel luglio di quell’anno si salvò dall’incidente dell’Alitalia 771. Si era imbarcato su quel volo intercontinentale per tornare a casa, ma aveva scelto di far scalo a Bangkok per rilasciare un’intervista. L’aereo, invece, proseguì e, per un errore di navigazione, si schiantò contro una montagna durante la fase di discesa verso Bombay.

Nel 1982 tornò in Tibet e, a malincuore, constatò con i suoi occhi le condizioni in cui gravava il paese sotto l’occupazione cinese. In quell’occasione scrisse Ritorno al Tibet, sequel del suo precedente bestseller, e, per tutto il resto della sua vita si batté per l’indipendenza dello stato himalayano che l’aveva accolto negli anni giovanili. L’amicizia con il Dalai Lama continuò anche dopo che le loro strade si erano divise e si videro per l’ultima volta nel 2002, quando la massima autorità buddista visitò il suo vecchio precettore in occasione del suo novantesimo compleanno. Harrer morì il 7 gennaio del 2006, alla veneranda età di 93 anni.

Il Dalai Lama ne omaggiò la memoria e disse:
«Sono particolarmente addolorato perché Heinrich Harrer era un amico personale. […] Quando l’ho incontrato per la prima volta nel 1949 proveniva da un mondo che non conoscevo. Ho imparato molte cose da lui, in particolare sull’Europa. […] Voglio cogliere questa opportunità per esprimere la mia immensa gratitudine e il mio apprezzamento per aver creato così tanta consapevolezza sul Tibet e sul popolo tibetano attraverso il suo famoso libro Sette anni in Tibet e le numerose conferenze che ha tenuto nel corso della sua vita. Il suo amore e rispetto per il popolo tibetano sono molto evidenti nei suoi scritti e nei suoi discorsi. […] Riteniamo di aver perso un fedele amico dell’Occidente, che ha avuto l’opportunità unica di sperimentare la vita in Tibet per sette lunghi anni prima che il Tibet perdesse la sua libertà. Noi tibetani ricorderemo sempre Heinrich Harrer e ci mancherà moltissimo».

Oggi, il celebre alpinista austriaco riposa nel cimitero della sua città natale, a Hüttenberg, dove ha sede l’Heinrich Harrer Museum. La sua è stata un’esistenza nomade e ambiziosa, che lo ha portato in cima ai monti, fra la neve e le bufere, lungo i fiumi e, soprattutto, in Tibet. Chissà se quella mattina del 21 luglio del 1938 sapeva cosa gli sarebbe successo dopo la scalata dell’Eiger. Heinrich Harrer desiderava compiere grandi imprese e, forse, l’ha fatto più di quanto avesse mai sognato.