Il 27 gennaio del 1995 ricorreva il 50° anniversario della liberazione di Auschwitz, ma l’orrore dell’Olocausto era ancora una ferita aperta nell’animo di Eva Mozes Kor, una delle bambine di Josef Mengele. In quella fredda mattina d’inverno era lì nello stesso luogo dove era stata una cavia da laboratorio insieme a sua sorella gemella Miriam; accanto a lei c’era Hans Münch, l’ex medico delle SS che aveva salvato i suoi pazienti da una morte certa. Hans denunciò pubblicamente le barbarie della soluzione finale e ne accertò l’esistenza, affinché nessun negazionista osasse contraddire quel triste capitolo di storia.

Fra i presenti c’era Bruno Schirra, un giornalista tedesco di origini ebraica, e la storia di Hans lo colpì tanto nel profondo che volle incontrarlo per un’intervista. Da quel giorno, il mito dell’uomo buono di Auschwitz, come lo avevano soprannominato nel dopoguerra, non fu più lo stesso.

L’ingresso nelle SS e il trasferimento a Rajsko
Hans Wilhelm Münch nacque il 14 maggio del 1911 a Friburgo in Brisgovia. Si appassionò alla scienza fin da bambino grazie all’influenza di suo padre Ernst, uno stimato fisiologo vegetale, e, dopo il diploma, studiò medicina nelle università di Tubinga e Monaco. Nel 1939 iniziò a esercitare la professione in Baviera, dove sostituì i dottori che, nel frattempo, erano partiti per il fronte.

A quei tempi Hans era ambizioso e ingenuo, motivo per il quale tentò senza successo di unirsi alla Wermacht. In patria c’era carenza di medici e i professionisti come lui erano una risorsa preziosa, ma la vita in periferia non lo entusiasmava e ne parlò con il suo vecchio compagno di università Bruno Weber. Weber lavorava all’Istituto di Igiene della Waffen-SS, con sede a Berlino, e gli raccontò che era in corso l’apertura di una filiale in Polonia, suggerendogli di iscriversi alle SS per non perdere l’opportunità di lavorarci. Hans accettò il consiglio e, dopo otto settimane di addestramento militare, nella primavera del 1943, ottenne il trasferimento all’Istituto di Igiene di Rajsko, a circa 4 chilometri da Auschwitz.

L’operato di Münch fra l’Istituto di Igiene e Auschwitz
Almeno in teoria, il centro aveva una funzione molto semplice. Nel campo di Auschwitz c’erano frequenti epidemie, che infettavano sia i prigionieri sia il personale, e serviva qualcuno che studiasse un modo per evitare il propagarsi delle malattie fra i dipendenti tedeschi. Nella pratica, però, dovette assistere al processo di gassazione degli ebrei, firmare i documenti delle esecuzioni e, soprattutto, condurre esperimenti su cavie umane.

Ma Hans non era propenso a farsi coinvolgere in quello che non era difficile riconoscere come un abominio: voleva salvare le persone, non ucciderle. In laboratorio gli arrivavano uomini, donne e bambini da sottoporre a esperimenti su malattie come il tifo, la malaria o i reumatismi, e con l’aiuto di alcuni assistenti ebrei, reclutati contro la loro volontà, studiò diversi espedienti che prevedevano delle iniezioni innocue e la falsificazione dei risultati dei test.

Col senno di poi, il prigioniero Kurt Prager lo descrisse come:
Un faro di umanità e bontà tra nient’altro che sciocchi e assassini

Per i suoi superiori Hans stava svolgendo un lavoro eccellente e fu coinvolto in alcune ricerche del famigerato Blocco 10 di Auschwitz, dove Carl Clauberg e Horst Schumann eseguivano esperimenti sulla sterilità, mentre, in gran segreto, la ginecologa Gisella Perl cercava di salvare la vita delle internate incinte. Anche in quel caso, Hans mise a repentaglio la sua incolumità e trovò un modo per agire nell’ombra.

C’era l’usanza di mandare nelle camere a gas tutte le donne che non servivano più, ma Hans le tenne con sé e finse di effettuare dei lunghi esperimenti, ovviamente innocui, in cui, per ridurre al minimo il rischio di essere scoperto, raccomandava alle pazienti di simulare dolori e urla lancinanti.

Agli inizi del 1944, il collega Eduard Wirths gli chiese di occuparsi della selezione degli ebrei idonei al lavoro oppure da mandare alle camere a gas. Per la prima volta si ritrovò invischiato in prima persona nella soluzione finale, ma non voleva essere l’artefice delle sofferenze altrui e inoltrò una lettera di rifiuto alla sede centrale dell’Istituto di Igiene.

L’espediente funzionò: i superiori lo esonerarono dall’incarico e l’episodio non ebbe alcuna ripercussione sulla sua carriera, anzi, ottenne la promozione a Untersturmführer, il primo grado da ufficiale delle SS.

Nell’estate del ’44, aiutò uno dei tanti pazienti che, nel dopoguerra, testimoniarono a suo favore. Il prigioniero Louis Micheels, che soffriva di ulcera allo stomaco, si ammalò gravemente, e Hans lo pose sotto la sua ala protettiva, curandolo, procurandogli del cibo e difendendolo dalle angherie dei soldati.

Con l’approssimarsi della fine della guerra, lo incontrò un’ultima volta e gli diede un revolver da usare per la fuga; poi, insieme alle altre SS, Hans abbandonò Auschwitz e trascorse tre mesi nel campo di concentramento di Dachau.

L’assoluzione al Primo processo di Auschwitz
Dopo la caduta di Hitler tornò nel suo villaggio natale, ma gli Alleati lo catturarono e lo estradarono in Polonia, dove, dal 24 novembre al 22 dicembre del 1947, fu uno dei 40 imputati del Primo processo di Auschwitz. Il Tribunale di Cracovia lo accusò di crimini contro l’umanità per aver infettato cavie umane con la malaria e aver effettuato iniezioni che causavano reumatismi. I capi d’imputazione equivalevano a un biglietto di sola andata per il cappio, ma si fecero avanti diversi testimoni che perorarono la sua causa di innocenza.

Alcune sopravvissute al Blocco 10 di Auschwitz dissero che era “un essere umano in uniforme delle SS”, un uomo amichevole che “sembrava stranamente fuori posto”.

Anche un suo vecchio assistente ai tempi dell’Istituto di Igiene, l’ebreo-ungherese Mansfeld Géza, si aggiunse al coro e inviò a Cracovia un resoconto dettagliato sui finti esperimenti del dottor Münch.

Il 22 dicembre del 1947 ci fu il verdetto. Ventuno imputati, come la famigerata Maria Mandel, furono condannati all’impiccagione, altri diciotto a varie punizioni detentive, e uno solo, l’innocente Hans Münch, tornò a casa senza esser stato macchiato con le colpe del nazismo.

I giudici rilasciarono la seguente dichiarazione:
Aveva un atteggiamento benevolo verso i prigionieri. Li ha aiutati e quindi si è messo in pericolo

Dal dopoguerra alla controversa intervista del ’97
I racconti delle sue gesta gli valsero il soprannome di Uomo buono di Auschwitz e negli anni successivi si impegnò in diverse attività di propaganda a favore del ricordo della Shoah. Nel 1948 aprì uno studio medico a Roßhaupten e, fra il 1963 e il 1965, svolse un lavoro di consulenza per i giudici del Processo di Francoforte.

Nel 1995, celebrò, insieme a Eva Mozes Kor, il 50° anniversario della liberazione di Auschwitz, ma, all’improvviso, la trama della sua vita cambiò.

Nel 1997, il giornalista Bruno Schirra lo intervistò per la rivista tedesca Der Spiegel e l’incontro ebbe inizio con la visione di Schindler’s List. Dopo le tre ore della pellicola di Spielberg, Schirra diede il via alle domande e Hans fornì delle risposte che erano in totale contraddizione con ciò che lui stesso rappresentava agli occhi della comunità internazionale.

«Ero il re dell’Istituto di Igiene. […] Ho potuto condurre esperimenti sulle persone che altrimenti sarebbero stati possibili solo sui conigli. […] Erano condizioni di lavoro ideali. C’erano eccellenti attrezzature di laboratorio e una selezione di accademici di fama mondiale».

Dinanzi a uno Schirra inorridito, Hans espresse tutta la sua simpatia per Josef Mengele, negò un possibile coinvolgimento del collega negli esperimenti sui bambini e ne lodò le capacità.

Ma in quella controversa intervista, l’uomo buono di Auschwitz manifestò anche una spiccata vena antisemita.
«Non c’erano ebrei poveri. Bisogna essere ideologicamente ciechi per non vedere che gli ebrei avevano infettato molte aree. […] Il peggio del peggio erano gli ebrei dell’Est».

I nuovi processi e la morte
L’articolo uscì nel 1998 e fece scalpore, ma in quello stesso anno Hans continuò a scavarsi la fossa da solo nel corso di un’intervista alla radio francese France-Inter, dove giustificò la soluzione finale e rilasciò dichiarazioni denigratorie nei confronti dei Rom e dei Sinti. Suo figlio Dirk provò a limitare i danni: spiegò che da circa due anni suo padre soffriva di demenza senile e che, nel caso del colloquio con Schirra, la visione di un film di oltre tre ore lo aveva reso meno lucido del solito.

E, in effetti, di lì a poco Hans finì in ospedale, dove i medici gli diagnosticarono l’Alzheimer, ma ormai l’opinione pubblica aveva letto e sentito le sue dichiarazioni e il ministero di Giustizia bavarese avviò un indagine preliminare in cui lo si sospettava di aver partecipato alle selezioni dei prigionieri e condotto esperimenti letali su cavie umane. I giudici chiesero al Der Spiegel di consegnare i nastri originali dell’intervista di Schirra e consultarono i documenti del processo del ’47, ma il caso fu archiviato nel gennaio del 2000 per i problemi di salute mentale dell’imputato.

Anche in Francia le parole di Hans ebbero delle ripercussioni, e la Corte di Parigi lo mise sotto processo per “aver incitato all’odio razziale e minimizzato i crimini contro l’umanità” nell’intervista radiofonica del ’98. Grazie a una perizia medica, l’ormai incosciente dottor Münch si guadagnò l’assoluzione nel giugno del 2000, ma a maggio del 2001 i giudici riaprirono il caso e si giunse a un verdetto di colpevolezza. Poiché l’imputato era un ottantanovenne affetto da Alzheimer, il pubblico ministero rinunciò alla condanna e Hans morì pochi mesi dopo, il 6 dicembre del 2001.

Le rivelazioni di Schirra nel 2005
Nel 2005 Schirra pubblicò un nuovo articolo su un altro quotidiano tedesco, il Die Welt, e rivelò che dopo il pezzo del ’98, un uomo di nome Imre Gönczy lo aveva contattato perché diceva di conoscere il vero volto di Hans Münch. Imre, o Emmerich, come lo chiamava Hans ai tempi dell’Istituto di Igiene, era stato una delle sue cavie per gli esperimenti sui reumatismi.
Con il suo intervento, Imre fornì una versione dei fatti molto diversa di quelle che erano state le gesta di Hans all’Istituto di Igiene e lo descrisse come un uomo che, in realtà, aveva svolto eccome il suo dovere di medico nazista, anche se in parte. Ancora una volta le parole di Schirra furono durissime e nel suo articolo sentenziò un lapidario:
Ho appreso in seguito che le tue vittime non potevano dire cose cattive su di te. Le tue vittime erano morte

Se, per i prigionieri che aveva salvato, Hans Münch era l’uomo buono di Auschwitz, per un giornalista di origini ebree e una sua vecchia cavia era solo uno dei tanti carnefici che avevano onorato la divisa con la svastica.