Se si pensa al muro la mente va all’idea di qualcosa che separa, divide, un ostacolo, dunque, che erge delle barriere non solo fisiche, ma anche umane, che inibiscono la comunicazione. Eppure questo, un tempo, rappresentava al contrario uno strumento per far sentire la propria voce, un valido tramite per esprimere passioni, sentimenti d’amore e di odio, per comunicare pensieri, opinioni politiche, pubblicità di vario genere, insulti…non diversamente da quanto accade anche oggi.
I Romani, infatti, utilizzavano i muri degli edifici pubblici e privati per disegnare, incidere e scrivere messaggi, talora firmati talora anonimi, di contenuto personale, politico, erotico-amoroso, religioso. Ce ne sono giunti tantissimi non solo da Pompei, ma anche da Roma e Ostia antica. Questa sorta di “letteratura di strada”, così spontanea e variegata, rappresenta per noi uno scrigno prezioso, una fonte inestimabile di testimonianze e informazioni che ci offrono uno spaccato sulla vita dell’epoca, sulle consuetudini, sulla quotidianità, anche quella più intima, che non trova talora spazio negli scritti letterari.
In un’epoca in cui la carta non esisteva ancora, per chi non aveva altro a disposizione, dal momento che il papiro e la pergamena non erano alla portata di tutti in quanto troppo costosi, il muro rappresentava, dunque, il mezzo di comunicazione di massa più efficace, assimilabile alle bacheche o ai social network dei nostri giorni.
Pompei è una vera e propria miniera in tal senso: l’eruzione stessa che ha distrutto la città nel 79 d.C. ha permesso la conservazione di queste iscrizioni che, insieme agli affreschi, rappresentano di certo una delle migliori occasioni per rendersi conto che in fondo “noi” non siamo poi molto diversi da “loro”.
Infatti passeggiando per le strade di Pompei, perdendoci tra i suoi vicoli, nel leggere tali iscrizioni si ha quasi la sensazione di sentir riecheggiare la nostra voce e i nostri pensieri più intimi che non si discostano poi tanto da quelli dei Romani. Ce n’è per tutti i gusti: dagli slogan elettorali alle liste della spesa, dagli annunci di spettacoli gladiatori alle inserzioni di vendita o affitto, dalle insegne di “alberghi” e osterie ai messaggi di chi aveva smarrito qualcosa e chiedeva aiuto, dalle frasi di amicizia alle minacce e agli insulti, dai messaggi d’amore (ricambiato e non) a quelli di carattere osceno.
L’amore testimoniato sui muri di Pompei è privo di confini, è trasversale, contemplando sia l’eterosessualità che l’omosessualità, scevra, quest’ultima, da qual carico di pregiudizio che purtroppo, ancora oggi, stenta a scrollarsi di dosso. Il muro, pertanto, rappresentava una sorta di “bacheca” dove chiunque poteva parlarci della sua avventura amorosa, esprimere soddisfazione o lamentarsi, insultare qualcuno o fare delle allusioni maliziose nei confronti di qualcun altro. Alcune iscrizioni sono decisamente esplicite, veri e propri “spot promozionali” di prostitute e relativi feedback lasciati dai clienti dei lupanari: “Schiava si offre per due monete. È di gusti raffinati” (un prezzo popolare alla portata di molti) o ancora, presso il vicolo degli scheletri, si legge “Libanis felat A II”, in cui si mette in evidenza la “specialità”, il prezzo e, soprattutto, la persona di cui si doveva chiedere. C’erano poi uomini poco eleganti e cortesi che si vantavano delle loro performances (“Gaio Valerio Venusto, soldato della prima coorte pretoria, della centuria di Rufo, grandissimo scopatore” [CIL IV, 2145+] ) o altri che, probabilmente perché feriti nel loro orgoglio a causa di un rifiuto, per vendicarsi approfittavano dei muri per mettere pubblicamente alla berlina la donna oggetto delle loro ire, non diversamente da quanto, purtroppo, accade oggi con scritte poco eleganti sui muri, post sui social e, nei casi più estremi, la condivisione non consensuale in rete di immagini o video intimi.
Nonostante la maggior parte delle iscrizioni amorose siano state scritte da uomini, non mancano alcune testimonianze riconducibili a mani femminili come quella rinvenuta in via Veneria, in cui una donna incita un carrettiere a muoversi: ora che ha bevuto, può andare più veloce perché chi trasporta sente forte il richiamo dell’amore e non vede l’ora di arrivare a Pompei, dove l’attende il suo dolce amore (CIL IV, 5092).
C’è poi chi, in piena euforia da innamoramento, forse agli inizi di una storia d’amore, ha inciso su una parete della Casa degli amanti queste celebri parole: “Gli amanti sono come le api, vivono la loro vita nel miele”. Ma qualcun altro, scettico, non proprio convinto di questa affermazione, ironicamente ha aggiunto “Vellem”, cioè “Magari!”.
Non diversamente da quanto accade oggi, dunque, quando un writer inserisce una risposta sui muri delle nostre città o un utente commenta un post scrollando la bacheca Facebook o aggiunge una reazione alle storie su Instagram.
Ampio spazio ha poi la categoria della propaganda politica e dei manifesti elettorali che invitavano a votare qualcuno in virtù delle sue doti (“Vi prego di eleggere edile C. Giulio Polibio, fa il pane buono”), della sua onestà e incorruttibilità (“Vi prego di eleggere Elvio Sabino come edile, degno dello Stato, uomo buono”). Questi slogan ci ricordano qualcosa?
Talora, per non perdere tempo ad esaltare le qualità del candidato, ci si sbrigava con delle abbreviazioni che ricordano la nostra comunicazione smart: “VB”, ad esempio, stava per “Vir bonus” (“Uomo buono, per bene”) e “DRP” per “Dignus Rei Publicae” (“Degno della cosa pubblica”). Anche i commenti ironici sembrano non cambiare pur a distanza di 2000 anni! Un anonimo scriptor esterna così la sua esasperazione, esprimendo la sua amara considerazione con queste parole ripetute sulle pareti della Basilica, del Teatro e dell’Anfiteatro di Pompei: “Mi meraviglio, o muro, che tu non sia crollato in macerie sotto il peso di tante sciocchezze” (CIL IV, 1904).
Non mancavano, poi, le critiche rivolte a gente scorretta, come quella contro un oste disonesto (“Magari tali inganni ti si ritorcessero contro, oste! Tu vendi acqua, ma bevi vino puro” – CIL IV, 394 – ) o slogan tra opposte tifoserie di gladiatori (“Sventura ai nocerini” auguravano loro i rivali pompeiani) che ricordano gli striscioni presenti nei nostri campi sportivi. Questi ultimi, infatti, vere “star” dell’epoca, erano amati dalle donne un po’ come i calciatori o i divi dello spettacolo di oggi: nella caserma dei gladiatori, ad esempio, si legge, che il trace “Celado fa sospirare le ragazze” e che il reziario Crescente fosse “medico delle fanciulle notturne, mattutine e delle altre”.
Alcune di queste iscrizioni sono sgrammaticate e contengono errori “da matita blu”, non diversamente da quanto accade anche oggi sui social o sui muri delle nostre città dove abbondano le “è” senza accento, le “ho” senza “h” e altri “orrori grammaticali”.
Insomma possiamo affermare decisamente quanto queste iscrizioni mettano in luce la continuità in essere tra l’uomo antico e quello contemporaneo, restituendoci l’immagine di una civiltà viva e vitale che ci racconta come siamo stati, come siamo e come, forse, continueremo ad essere per sempre. Di molte restano traccia nel nostro lessico, altre continuano ad essere riprodotte sui muri delle nostre città, sulle pareti delle toilettes pubbliche, sui vagoni della metro. Se guardiamo, poi, al mondo dei social e al fenomeno degli haters, nessuna difficoltà a trovare dei parallelismi tra il mondo romano e il nostro contemporaneo. Il muro rappresentava il social o il blog dei nostri tempi, i contenuti e i meccanismi sono gli stessi, la modalità del “botta e risposta” idem, cambia semmai la tecnica, ma alla base risiede lo stesso bisogno di esprimere un pensiero o un moto dell’animo, la stessa necessità di sfogarsi, lamentarsi, di condividere un momento o un ricordo, lo stesso desiderio di mettere alla gogna sociale qualcuno, avvalendosi di uno strumento che, sia esso reale o virtuale, rappresenta quello “spazio sociale” che assolve proprio a tale compito.