La guerra è violenza e morte ma ci sono storie umane bellissime, quasi sconosciute, e una di queste accadde a Case Balocchi, sull’Appennino Reggiano, nell’agosto del 1944.
Nella lotta contro i partigiani, dopo l’armistizio del 1943, i crimini delle SS contro i civili raggiunsero l’apice proprio nella zona nord della Toscana e dell’Emilia lungo la linea Gotica. Era l’operazione Wallenstein. Case Balocchi era a poca distanza da Cervarolo di Villa Minozzo dove vennero uccisi 24 civili, ragazzi, anziani, donne e bambini e il parroco nel marzo ’44, ma le fucilazioni e i rastrellamenti si susseguivano giornalmente nella zona.
Gottfried Lübeck era stato trasferito a fine luglio da Grosseto nelle vicinanze di Case Balocchi. Era un paramedico della Luftwaffe. Nonostante l’ordine di non aiutare in alcun caso i civili italiani, l’ufficiale medico aveva istruito la sua squadra di non fare alcuna distinzione in amici e nemici se si trattava di prestare cure e aiuti.
Lübeck veniva da una famiglia che aveva aderito al nazismo della prima ora, ma lo aveva abbandonato col tempo, il padre Emil dopo che era stato ucciso un ragazzo con problemi mentali ospitato dalla famiglia e in seguito alla cui morte la sorella Marie si suicidò. Theo, ex camicia bruna delle SA e ingegnere che progettava gli U-Boot, che testimoniò il falso per salvare un suo collega comunista condannato a morte, Johannes, paracadutista decorato a Creta, che pare avesse schiaffeggiato Joseph Goebbels colpevole di aver violentato la sua fidanzata e per questo fu punito inviandolo in una missione suicida dove perse la vita.
Gottfried invece rifiutò gli ordini curando i “nemici”
Tutta la famiglia era contro ogni dittatura, di qualunque colore, e dopo aver combattuto il nazismo combatterono strenuamente contro la DDR dalla quale cercarono di fuggire.
Il 5 agosto del 1944 Gelsomina Zambonini entrò in travaglio, le ore passavano ma il bimbo non nasceva e Gelsomina soffriva terribilmente. Non c’erano ostetriche o medici in paese e le donne, disperate, decisero di vincere la paura e chiamare quel tedesco che giorni prima aveva curato un bambino gravemente ferito ad una gamba.
Lübeck accorse e vedendo la paura negli occhi delle donne per prima cosa si levò il cinturone con la pistola, altro atto severamente punito dal regolamento.
Lübeck non era medico, vide che Gelsomina aveva una già forte emorragia ma il bambino non riusciva a uscire. Senza un intervento sarebbero probabilmente morti entrambi. Praticò pertanto una profonda episiotomia (incisione), estrasse il bimbo, fermò l’emorragia e ricucì la povera Gelsomina. Diede loro medicinali e glucosio provenienti dalle scorte militari. Nei giorni seguenti lui e i suoi 5 colleghi visitarono e controllarono la puerpera e il piccolo Francesco, e prima di lasciare la zona fece di più, scrisse un biglietto che attaccò alla porta di casa che diceva:
Il 5 agosto 1944. In questa casa è appena nato un bambino: è stato un parto molto difficile. Vi prego di essere umani, di non prendere cibo e di non dare fuoco alla casa. Lübeck San. Di. L 33842 Mu.2
Sul retro Lübeck scrisse anche che il padre del bambino lavorava in un campo di volontari italiani al servizio della Germania ma era un’affermazione falsa, il padre era nascosto fra le montagne.
Lübeck fu trasferito sul fronte orientale dove venne fatto prigioniero dall’Armata Rossa e internato in un Gulag. Temendo di morire scrisse una lettera al figlio raccontandogli del bambino italiano. Sopravvisse e rientrò in Germania nel 1949 dopo 4 anni di prigionia in condizioni di difficoltà estrema.
Anche Gelsomina raccontò a Francesco di quel tedesco, e volle battere tutti i cimiteri di guerra per sapere se fosse morto. Non trovandone traccia si accese la speranza che fosse sopravvissuto, ma non sapevano come cercarlo. Gelsomina morì nel 1995 facendo promettere al figlio di continuare a cercarlo.
Nel 2011 Francesco incontrò il giornalista Matteo Incerti, sempre in cerca di fatti storici e di storie appassionanti che poi racconta nei suoi libri e gli consegnò quel foglietto scritto da Lübeck.
Incerti è anche l’autore del libro sui bambini napoletani e il soldato americano Martin Adler che sognava di ritrovarli. Incerti vide subito che con il numero di matricola segnato sul foglietto si poteva fare una ricerca ufficiale e così Johannes Lübeck, figlio di Gottfried, si vide recapitare una lettera dal “Servizio tedesco per la notifica ai parenti prossimi dei caduti nelle forze armate tedesche” dove era scritto che Francesco Zambonini aveva chiesto informazioni del padre.
Gottfried non era morto in guerra ma purtroppo era morto solo pochi mesi prima dell’arrivo della lettera che lo avrebbe reso felice. Anche lui in tutti questi anni avrebbe voluto avere notizie di quel bambino, ne aveva parlato tanto ai propri figli, ma non ricordava il nome del paese e le sue ricerche erano state infruttuose.
Johannes prese subito contatto con Francesco e si incontrarono nel 2011, sentendosi quasi fratelli. Lo stesso uomo aveva in fondo dato la vita a entrambi. Durante il viaggio aereo Francesco, talmente emozionato e incapace di trattenersi, aveva raccontato ai passeggeri la sua vicenda e allo sbarco tutti attesero l’incontro e l’abbraccio fra i due, salutato dagli applausi, nell’aeroporto di Hannover.
Francesco durante la visita alla tomba di Gottfried nel cimitero di Bünde-Dünne depose sulla tomba una pietra della casa natale di Case Balocchi e dichiarò:
“Di solito gli italiani vanno in Germania per cercare chi ha ucciso i loro cari, io ci sono andato per dire grazie a chi mi ha salvato”. Della vicenda Matteo Incerti e Johannes Lübeck, anche lui giornalista, hanno tratto il libro “Si accende il buio“.