Stati Uniti, 1966. Texas. El Paso, precisamente. Don Haskins, coach emergente e reduce da una brillante vittoria liceale alla guida di una squadra femminile, riceve una proposta allettante: allenare una squadra di NCAA (il campionato di basket collegiale statunitense) di un buon (seppur senza vittorie clamorose) ateneo: l’università di Texas Western, a El Paso.
Il coach ha idee chiare, fegato, carisma, tecnica, ma si scontra con problemi che non riguardano gli aspetti di gioco: la palestra è da sistemare, lo staff un po’ attempato. Il budget per il reclutamento, visti gli scarsi risultati della squadra, si mostra più basso rispetto a quello delle altre squadre.
Don Haskins
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Infatti, il reclutamento parte male: il nome non blasonato della sua università porta le nuove promesse a scegliere squadre di atenei vincenti, come Duke o Kansas. Incassa i primi no, ironici e sarcastici. Poi nota Bobby Joe Hill: mani e piedi veloci, buona visione di gioco, ottima difesa. Eppure, il selezionatore lo fa giocare a singhiozzo, senza neanche considerarlo. E’ diverso dagli altri, e non solo per il talento che dimostra.
E’ afroamericano
Il primo incontro tra i due avviene a fine partita, negli spogliatoi: coach Haskins lo elogia, il ragazzo è rabbioso. Si dice disinteressato ad accettare una proposta, visto la considerazione che ha avuto in campo. Anzi, sospetta sia una mossa pubblicitaria del coach per dire “che ha un negro in squadra”, per poi farlo rimanere in panchina.
Bobby Joe Hill
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Il coach, però, ha altri intenti: lo vuole alla guida della sua squadra, in campo e con l’ambizione giusta per ambire al trono dei più grandi. Il ragazzo sembra essersi fatto sedurre da quel coach così determinato. Haskins sente che la scelta di atleti afroamericani lo porterà lontano: spinge le sue ricerche dove sa che può trovare dei talenti. Ne trova nell’Indiana, nel Bronx di New York, reclutando alla fine sei giocatori di colore pronti a far vedere le loro qualità.
Sono alti, atletici, fisici, pronti a rivoluzionare il gioco della pallacanestro
I primi giorni non sono facili. Il Texas è unico per clima, paesaggi e popolazione. El Paso si trova in mezzo al deserto, e non ci sono molti afroamericani che ci abitano. La squadra ha preso forma: giocatori afroamericani e bianchi formano i Texas Western Miners.
Logo della squadra dei Miners
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Tra tutte le squadre che partecipano al torneo è quella con il maggior numero di atleti di colore. Coach Haskins si mostra subito fermo su quelle che sono le sue priorità: vuole una pallacanestro essenziale, fatta di schemi e giocate semplici. I bianchi, abituati a questo gioco, si adattano perfettamente. Gli afroamericani, abituati ad atletismo e gioco da playground, mostrano le prime lacune e i primi segni di scoraggiamento.
Soprattutto Bobby Joe, pieno di estro e voglia di far vedere il suo talento. Si sente in gabbia, non capisce cosa voglia il suo allenatore. La disciplina imposta dal coach, in ogni caso, basta per far sì che la squadra sia pronta ad affrontare il campionato. Haskins detta la sua legge, esigendo il gioco che ha in mente. Bobby Joe è quello che più fatica inizialmente, ed è quello che poi instaurerà un rapporto molto forte con il suo coach. Imparerà da lui l’abnegazione e la solidità che un giocatore deve avere, senza rinunciare alla sua fantasia e al suo gioco spettacolare.
Dopo un inizio faticoso, sarà proprio la fiducia reciproca dei due a permettere di risollevare le sorti di una partita ormai persa, con coach Haskins che abbandona le sue rigidità lasciando le redini del gioco al suo talentuoso playmaker:
“… deve farci giocare più liberi” Bobby Joe
“Va bene ora giochi a modo tuo, e giochi a modo mio” Coach H.
Risultato: prima vittoria ed inizio di una lunga sequenza che li porterà verso le finali nazionali. Durante i viaggi e le partite, i Miners si scontreranno con il razzismo più becero, con insulti e sguardi di sdegno, fino a veri e propri episodi di aggressione e violenza.
Coach Haskins, uomo di larghe vedute, non si spiega perché un paese come l’America non riesca a lasciarsi alle spalle questi retaggi, senza pensare che lo sport è unione e passione, senza colori o etnie.
E infatti, è andato oltre tutto questo. I Miners, vittoria su vittoria, si presentano tra le migliori quattro della nazione: insieme a loro, i grandi della pallacanestro universitaria:
Duke con i Blue Devils, Kansas con i JayHawks, Kentucky con i Wildcats
Il coach dei Wildcats, Adolph Rupp, storico allenatore, è alla ricerca dell’ennesima vittoria in un torneo che lo vede maestro di questo sport. Ha atleti bianchi, ordinati e precisi, che seguono pedissequamente le sue indicazioni. Non sarà di certo una squadra emergente, con mezza squadra “sbagliata” a poterlo mettere in difficoltà. Strappa il biglietto per la finale, e attende. I Miners sono sfavoriti, ma questo non li fermerà. Rispondono colpo su colpo a una squadra come Kansas, composta dalle più grandi promesse americane. La finale è loro.
Adolph Rupp
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Ma coach Haskins è tormentato, non riesce a dimenticare tutto quello che i suoi ragazzi hanno dovuto sopportare. Invita i suoi atleti a raggiungerlo nell’Arena dove si giocherà la finale il giorno seguente. Parla ai suoi giocatori, tutti meritevoli di essere lì, senza colori se non il rosso della loro maglia.
Parla schiettamente, senza giri di parole: è stufo di quello che vede, dell’odio della gente verso quegli atleti non convenzionali, e vuole mettere a tacere tutti. Dichiara ai suoi giocatori di voler affrontare i candidi Wildcats in un solo modo: schierando unicamente i giocatori afroamericani. E’ troppo, lo sa, ma non ha altro modo. Gli altri, nonostante la delusione di non poter giocare una finale unica e mostrare alle proprie famiglie i risultati raggiunti, accettano di non partecipare, ma sperano che i fratelli afroamericani riescano a vincere anche per loro. Il resto è storia.
Sulla storia di Bobby Joe Hilll e di quell’incredibile campionato del 1966 è stato girato il film Glory Road, di cui sotto trovate il trailer: