Gli “Ospedali per i Morti” prevenivano la paura di essere Sepolti Vivi in Epoca Vittoriana

Grazie alla moderna tecnologia, e anche alla sempre maggiore preparazione scientifica dei medici, nel mondo occidentale è quasi svanita la preoccupazione di essere sepolti vivi. Per gran parte della storia, anche relativamente recente, la raccapricciante ipotesi era in realtà una preoccupazione legittima, in particolare per chi avesse sofferto di episodi o “attacchi” di una condizione chiamata catalessi, definita anche “morte apparente”.

Sotto, il video racconto dell’articolo sul canale Youtube di Vanilla Magazine:

Simile alla narcolessia, la catalessi (da non confondere con la cataplessia) è uno stato di rigidità muscolare incontrollata, spesso legata a episodi di catatonia. Riscontrati spesso in pazienti affetti da schizofrenia, gli stati catatonici fanno parte della condizione umana da secoli, ma solo in tempi relativamente recenti la scienza medica è stata in grado di identificarli e distinguerli dall’evento dalla morte clinica. Così si comprende perché essere sepolti vivi poteva essere una preoccupazione di non poco conto.

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Edgar Allan Poe, maestro del genere macabro, ha contribuito a instillare una radicata angoscia sociale intorno alla prospettiva di essere sepolti vivi. Quando questa terribile ipotesi non era poi così peregrina, ci fu una sorta di gara per trovare qualsiasi mezzo che potesse contrastare l’eventuale errore/orrore.

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Una bizzarra soluzione fu la creazione di “ospedali per i morti”, dove i corpi erano tenuti sotto osservazione per un paio di giorni per assicurarsi della morte del paziente. Gli ”obitori di attesa”, come venivano chiamati, erano ben forniti di cibo, vino e sigari, nel caso in cui una persona dovesse effettivamente svegliarsi, magari urlando “Io non sono ancora morto!” in stile Monty Python.

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Questa fu sicuramente una soluzione creativa, ma non capace di risolvere il vero problema: la conoscenza medica e la tecnologia non erano progredite abbastanza per capire come funzionasse la catalessi, che non era nemmeno un segno di morte imminente. Medici e profani hanno spesso fotografato gli ignari individui catatonici, in pose che ricordano ciò che noi oggi chiamiamo “planking”.

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La catalessi comporta anche un’insensibilità al dolore, che si protrae per tutta la durata dell’episodio: ciò significa che le altre misure adottate nel corso del 19° secolo per determinare il decesso, i “test di insensibilità”, erano altrettanto inefficaci. Alle persone che si credevano morte venivano rotte le dita, o erano sottoposte a clisteri di fumo di tabacco.

Si ipotizzava che, se il malcapitato non si fosse svegliato durante questi trattamenti non vi era quasi alcun rischio di seppellirlo vivo. Per i casi estremi però, fantasiosi inventori progettarono “bare di sicurezza”, dotate di corno o campana, che dovevano servire ad avvisare le persone al di sopra del suolo che il  sepolto in realtà non era morto. Alcuni modelli avevano anche una scorta di veleno, che doveva servire ad assicurare una morte più veloce nel caso in cui non si fosse riusciti  a farsi sentire.

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Nessuno sa in realtà se queste misure abbiano mai salvato qualcuno, ma certamente hanno contribuito a contrastare la paura di essere sepolti vivi. Sarebbero dovuti passare ancora molti anni prima che la catatonia fosse riconosciuta, stranamente dopo essere stata indotta con l’ipnosi. La comprensione moderna del fenomeno assicura una (quasi) certezza di non essere sepolti vivi.

Oggi si sa che la catalessi è in realtà una condizione relativamente comune, ed è attualmente fatta rientrare nella categoria dei disturbi del sonno REM, come la narcolessia. Le persone che ne sperimentano lo stato, per uso di droga, per schizofrenia, o per altri disturbi, possono assumere farmaci e praticare tecniche di rilassamento che aiutano a vivere una vita sostanzialmente normale. Nel XXI secolo essi non devono più temere di incorrere in una tragica morte da sepolti vivi.

Annalisa Lo Monaco

Lettrice compulsiva e blogger “per caso”: ho iniziato a scrivere di fatti che da sempre mi appassionano quasi per scommessa, per trasmettere una sana curiosità verso tempi, luoghi, persone e vicende lontane (e non) che possono avere molto da insegnare.